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«Luce laterale»: un racconto di Pablo Palacio

Pablo Palacio Racconti, Scrittura, SUR

Il 25 gennaio del 1906 nasceva Pablo Palacio, grande scrittore ecuadoriano. Lo ricordiamo con un racconto tratto dalla raccolta Un hombre muerto a puntapiés.

«Luce laterale»
di Pablo Palacio
traduzione di Alice Piccone

Si è già verificato in me quell’elegante fenomeno di allungamento delle palpebre sugli occhi come mani incurvate su arance e che cadono con l’identica dolce nebulosità del tempo sui ricordi.

Questo elegante fenomeno, che in genere corrisponde a una certa età, mi ha colpito molto presto a causa di alcune circostanze.

Non sono vecchio: ho trent’anni. Credo di essere uno di quegli uomini che affaticano i muscoli in un’ora, diversamente da altri che magari ne lavorano otto ma con una flemma saggia e parsimoniosa.

Mi sono cadute anche un po’ le sopracciglia e sono abbastanza calvo.

Si tratta… Ah! Si tratta di quella ragazza, Amelia, che mi ricordava chiaramente l’eroina di un romanziere di tutto rispetto, a cui i genitori (o lei stessa?) ordinavano (o si ordinava?) di tenere le lunghe trecce, perché le stavano bene o per conservare il suo fresco aspetto infantile.

Accidenti! Era anche abbastanza pallida. Adesso la vedo. Sotto ciascun sopracciglio doveva avere una mezzaluna di color blu, che la rendeva interessantissima. E visto che anche le labbra erano molto pallide, m’innamorai di lei. Credo che questo sia un motivo valido; le donne che hanno le labbra di un rosso innaturale ci fanno innervosire; danno l’idea di essersi mangiate mezzo chilo di carne di maiale appena sgozzato.

Bene, dunque. Poiché era una ragazzina aspettavo che maturasse, e non appena la vidi con le gambe più robuste, la sposai.

Salve, María!

Caspita! Mi hanno appena detto che il pranzo è servito e io devo andare. Non si faccia passare il buon umore, lei. Aspetti un momento. Io mi innervosisco quando mi dicono che il pranzo è servito.

 

Stavo dicendo che mi sposai con Amelia. Bene: sono sicuro di aver vissuto con lei un anno nella quasi più totale serenità; quasi, perché c’era un atroce motivo di ottenebramento nella mia vita.

Lei aveva un modo petulante di pronunciare, ripetere e propinare a tutte le ore del giorno certe paroline che ancora adesso mi fanno rizzare i capelli in testa. Quell’«ovvio, no?», che sembrava sputarmi in faccia con la sua risatina cinica e che mi congestionava, metteva a dura prova la mia mandibola.

Se dovevamo uscire ma il tempo si era fatto brutto, mi provocava: «Lo sai che adesso non possiamo più uscire perché… Ovvio, no? Di sicuro pioverà».

Se uscivamo a fare spese e volevo prenderle un cappello, subito mi tirava le orecchie con il suo: «Lo sai che non mi piace perché… Ovvio, no? Questi cappelli sono passati di moda».

Se qualcuno veniva a trovarci a casa e lei si fissava con qualche sciocchezza, mi rovinava l’umore, strillandomi cose come: «Lo sai che io non posso uscire perché… Ovvio, no? Non sto un granché bene».

Ma che modo di parlare è questo, signori? Sembra o no che ti stiano insultando o sfidando a duello? Adesso vi ripeto «ovvio, no?» fino allo sfinimento e vediamo se non vi bolle il sangue, perché… È ovvio, no…? Maledizione! Se in questo istante mi diceste che il pranzo è servito, andrei fuori di testa e vi farei a pezzi.

 

Questo «ovvio, no?», che all’inizio mi punzecchiava la lingua e mi faceva venire voglia di soffocarglielo in bocca con un bacio di quelli che comprimono con rabbia la mucosa fino a farla sanguinare, è stato l’unica causa delle mie disgrazie.

Se lei non avesse avuto questa stupida mania, sarei ancora al suo fianco, ammaliato dalle mezzelune blu che ha sotto le sopracciglia. Perché la amavo straordinariamente e l’amo ancora, come si ama la foto scolorita di una madre che non si ha mai conosciuto o la giara rotta… Ma che dico? Ah! Sono in vena di romanticismo. Mi sono ricordato del vaso di vetro che contiene i pezzi della vecchia giara, che amo con gran rispetto, perché non può dire: …No! Non dirò la parola, ma la sputerò nella sputacchiera, perché gli scatti di rabbia sono pericolosi… La dico? No.

La giara rotta! Mi piace questa palettata di erre che vorrei mi ricoprissero fino al naso per stare così, rannicchiato, a guardare… Oh, il treponema! Ovvio, no?

Me lo disse una sera mentre danzavo entusiasta su una tavola di logaritmi.

«Antoñito, sai che è ora di andare a letto? Perché… Ovvio, no? È tardino e ho tanto sonno».

E la perfida mi abbracciava dai fianchi. Ero indemoniato! Le tirai un pugno in faccia e scappai via correndo.

Non sono più tornato perché al primo angolo incontrai Paula, una canaglia, amica mia da quando ero ragazzo.

La afferrai con forza per un polso.

«Senti, tu non sai dire “ovvio, no?”, vero?»

Lei si ritrasse; dovevo averle fatto male.

«Ehi, ma che ti succede?»

«Ah, no che non sai dirlo».

E le accarezzai il mento.

Mi sorrise, mostrandomi l’assenza di un incisivo, e mi fece risuonare in un orecchio, suggestivamente, la sua voce rauca.

«Andiamo, ti porto a casa mia; non ci vediamo da più di un anno».

Ce ne andammo. E poiché a casa mi istigava a baciarla, lo feci, poi rimasi con lei una decina di giorni.

All’ottavo feci un sogno molto strano che mi riempì d’inquietudine. Per disposizione intrinseca credo nel mistero e non dubitavo né dubito della veridicità di certi sogni, che secondo me sono profetici. In altri tempi avrei accettato quel sogno con una sorta di piacere, perché la sua realtà avrebbe cambiato del tutto la mia vita, dandomi un carattere sostanzialmente nuovo, e mettendomi a un livello diverso da quello degli altri uomini; una specie di superiorità dovuta al pericolo che avrei rappresentato per gli altri e che li avrebbe obbligati a guardarmi – si intende chi ne fosse stato al corrente – con un curioso tremore, simile all’attrazione per l’abisso.

Mentre andavo da un medico, mi misi a meditare sulla situazione che mi avrebbe procurato, in verità, la strana novità che presentivo. In quelle circostanze, il mio desiderio non era ciò cui mi riferivo prima; ma era stato rimpiazzato da una sciocca paura che mi sballottava le cervella, costringendole in rapide involuzioni che instillavano nel mio spirito un caos irrazionale e confuso, che mi infiammava la fronte e mi gonfiava le vene come un invito al pranzo servito; il mio amore per Amelia, continuavo a rispettarla, nonostante l’enormità del suo peccato, e capivo chiaramente che il mio desiderio di altri tempi equivaleva in queste circostanze a una tensione elettrica, creatasi tra noi, che mi avrebbe impedito di raggiungerla sebbene il disinfettante del pentimento la lavasse, mostrandomela pura per la nostra futura vita coniugale.

Eh? Che? Aiuto! Un uomo mi rompe la testa con una mazza di cinquantatré chili e poi mi conficca spilli di cinquanta centimetri nel cuore. Eccolo, è nascosto là, sotto il letto di Paulina, e mi mostra quattro rasoi da barba, aperti, che si passa sul collo per farmi battere i denti dalla paura e paralizzarmi i riflessi, facendomi venire le gambe deboli, come fossi un vecchio. Dove sono i segni di Romberg e di Achille, e dov’è la luce che contrae in una linea la pupilla? María! Vai a dire che non mangio. Eccolo là il treponema pallido, a cavallo, che mi rompe le arterie. E la povera giara rotta nel mio vaso di vetro si agita come fosse viva… E sembra che stia alzando un dito… Eh?

Vedo i miei figli, scorgo i miei figli ciechi o con gli occhi aperti completamente bianchi: i miei figli mutilati o ossuti e inverosimili come fossili; i miei figli celati sotto le maschere degli eritemi; scorgo la papula che si muove e che alza un dito e che vuole abbracciarmi e baciarmi. Scorgo l’atetosi tragica che sembra dirigersi verso il mio collo per strapparmi la tiroide, e le gambe arcuate e tremanti di Amelia: deve essersi messa dei dischi grigi sotto gli zigomi sporgenti.

Di questo paese mi piace l’antica chiesa che ha verdi mosaici sulle cupole schiacciate perché dà le spalle al Nord (che ne sarebbe di questo povero paese se gli capovolgessero la chiesa?). Mi piace anche perché al centro della facciata di pietra c’è una piccola Vergine di pietra.

Dentro resto a bocca aperta davanti a un pannello intagliato nel legno che ha il volto sottile e pallido; nell’angolo in basso a sinistra, questa iscrizione, più o meno: Statura e aspetto e veste della Santissima Vergine secondo quanto scrisse sant’Anselmo e dipinse san Luca. E ciò che mi sembra un po’ assurdo, anche se dall’ampia cappella anteposta, è che spunta una bella mano sottile. Il colore della veste è identico a quello della mia giara rotta.

Ah! È già notte. Il cielo è completamente nero; e poiché vi brillano le minute teste di spillo delle stelle, devo andare verso la campagna, molto distante perché non possano sentirmi, e gridare fortissimo, nonostante mi si laceri la laringe, alla concava solitudine: «Treponema pallido! Treponema pallido!»

 

© Pablo Palacio, 1927. Tutti i diritti riservati.

Pablo Palacio nasce in Ecuador, a Loja, nel 1906. Ottiene risultati precoci in ambito letterario e partecipa attivamente ai circoli avanguardisti. La sua produzione letteraria si concentra tra il 1927 e il 1932: pubblica sulle testate della capitale i suoi racconti, tra cui «Un hombre muerto a puntapiés», titolo dell’omonima e fortunata raccolta, che desta non poco scandalo per l’irriverenza e la novità assoluta dei temi trattati. Il romanzo breve Débora lo consacra al successo letterario alla straordinaria età di ventuno anni. La sua terza e ultima opera, Vida del ahorcado, è di nuovo un romanzo breve. Sebbene la sua carriera sia in costante ascesa, è costretto a ritirarsi a vita privata. Lo scrittore muore nel 1947 in una clinica psichiatrica di Guayaquil, avvolto dall’oscurità come il protagonista di un suo racconto.

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