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Un «escritor raro»: Mario Levrero

Mario Levrero SUR

di Raul Schenardi

Fu un celebre e autorevole critico letterario, Ángel Rama, a coniare la definizione di «escritores raros» per un gruppo di scrittori uruguyani non riconducibili ad alcuna corrente letteraria preesistente. Del resto, a rigore non si può parlare nemmeno di «gruppo»: non firmarono manifesti né diedero vita a movimenti o riviste, e a ben vedere sono accomunati soltanto da un’ispirazione surrealista in senso lato. Il più famoso fu senz’altro Felisberto Hernández, solo recentemente riscattato dall’oblio dalla Nuova Frontiera (Nessuno accendeva le lampade, tr. di Francesca Lazzarato), insieme a José Pedro Díaz, Armonía Somers e pochi altri, fra cui Mario Levrero (1940-2004).

Alla fine degli anni Ottanta mi capitò fra le mani una curiosa antologia, Lo mejor de la ciencia-ficción latinoamericana. Il curatore era uno studioso belga che riuscì a farla pubblicare in Germania e in Spagna grazie al sostegno del celebre scrittore di s-f A.E. Van Vogt, che scrisse un’introduzione e mise il proprio nome in copertina. Il racconto che mi colpì di più fu A caza de conejos, che non era affatto un racconto di fantascienza, e nemmeno un fantasy, e per dirla tutta non rientrava plausibilmente in nessun genere identificabile. In 100 mini-capitoli Levrero descrive un mondo fatto di impensabili conigli, cacciatori e guardaboschi che non ha nulla da invidiare all’invenzione cortazariana dei cronopios e dei fama, un universo atroce nella sua assurdità ma fondamentalmente ludico e spassoso. (Il racconto poi lo tradussi e chiesi a Levrero il permesso di utilizzarlo per un progetto di antologia. Volle vedere la traduzione, mi chiese qualche chiarimento e mi suggerì alcune modifiche, dopodiché la nostra corrispondenza mail si interruppe e di lì a poco mi giunse notizia della sua morte.)

È iniziato così un percorso di avvicinamento all’opera di questo «escritor raro» che non si è ancora concluso, anche perché fino a poco tempo fa era difficile reperire alcuni suoi testi, che tuttavia cominciano a essere riediti; nel frattempo è uscito un testo postumo, La novela luminosa, che si affianca a una produzione ampia e variegata: i romanzi della cosiddetta «trilogia involontaria»: La ciudad, París, El lugar, e poi El alma de Gardel, Dejen todos en mis manos, oltre alle raccolte di racconti: La máquina de peensar en Gladys, Aguas salobres, Irrupciones, il «diario» El discurso vacío, e infine i due folletines Nick Carter se divierte mientras el lector es asesinado y yo agonizo, e La banda del Cempiés.

Levrero però merita un discorso più ampio: ci torneremo. Ho comunque una buona notizia: qualcuno in Italia si è accorto della sua esistenza: Loris Tassi, che ha tradotto e inserito il racconto che presentiamo oggi ai lettori del blog nella bella antologia Inchiostro sangue. Antologia di racconti e saggi del Rio de la Plata (a cura di Loris Tassi e Antonella De Laurentis), Edizioni Arcoiris. Intanto è interessante l’idea di riunire in un libro racconti e saggi che vertono sulla tematica del poliziesco, ingaggiando un corpo a corpo fra i testi e la critica. Poi, insieme a nomi imprescindibili (Ricardo Piglia, che vi figura sia con un saggio sia con un racconto, Juan José Saer, Horacio Quiroga, Mempo Giardinelli, Juan Sasturain) fanno capolino autori ancora sconosciuti da noi, come Carlos Gamerro e appunto Mario Levrero.

«Una confusione nel noir»
di Mario Levrero
traduzione di Loris Tassi

«…mi ero lasciato irretire dal fascino di uno spaghetto…»
M. L., Confusiones cotidianas

«Mi porti questa famosa beefsteak della casa, con contorno di patate fritte e insalata» dissi senza prestare troppa attenzione al cameriere, anche se non potevo smettere di pensare alla sua testa completamente rasata, del tutto fuori luogo in quel ristorante di prima classe. «Da bere, una bottiglia di acqua minerale con due bicchieri».

Il cameriere assentì con un rapido cenno della testa e si ritirò. Per ingannare l’attesa, mordicchiavo pezzetti di crosta di pane e facevo palline con la mollica; non è un comportamento che rivela buona educazione ma ero sicuro che nessuno guardasse verso il mio tavolo e, comunque, a causa dell’illuminazione modesta dell’ambiente, avrebbero visto ben poco anche se ci avessero provato; la cosa certa è che lo striptease della famosa Lou Carrington stava raggiungendo il culmine e tutti gli sguardi, incluso di tanto in tanto il mio, attendevano il momento magico in cui Lou si sarebbe tolta la scarpa destra per scoprire il prodigioso dito che l’aveva portata rapidamente al trionfo, allontanandola per sempre da me. Guardai di nuovo verso di lei, nonostante fossi perfettamente consapevole dell’inganno; lei, ovviamente, non era Lou. Lou ha smesso di esibirsi anni fa e ora si limita a farsi dare da tutte le sue sosia una percentuale, senza dubbio piuttosto alta, dei loro guadagni in cambio del diritto a usare il suo nome. Osservai con sdegno la rozza contraffazione che faceva trattenere il respiro a tutto il ristorante; per me era evidente che quel dito non era e non avrebbe mai potuto essere l’alluce di Lou.

«I suoi vermicelli, signore» disse il cameriere, collocandomi il piatto sotto il naso con fare cerimonioso. Mi girai di scatto e lo guardai negli occhi; erano affascinanti e chiari; con le palpebre di quello destro mi fece un cenno di complicità, mentre, con un movimento gentile del mento, mi indicava il piatto. Subito dopo mise sul tavolo la bottiglia di acqua minerale e i due bicchieri e aggiunse un enorme, inutile posacenere di cristallo.

Restò in attesa un minuto. Il braccio sinistro rigido, ad angolo retto, reggeva un tovagliolo bianco piegato con eleganza; la mano destra sosteneva il vassoio, stringendone il bordo tra l’indice e il pollice in modo da mantenerlo perfettamente perpendicolare al pavimento. Osservai il piatto con i ripugnanti vermicelli al vongoli1 e alzai di nuovo lo sguardo per fissare con aria interrogativa gli occhi del cameriere; lui rifece l’occhiolino, mosse il mento in avanti, accennò un sorriso e se ne andò.

All’improvviso, la mia attenzione fu attirata dalla risata di una donna alle mie spalle. Iniziò con un grazioso tintinnio che faceva pensare a una donna giovane, deliziosamente delicata e bionda, quasi immateriale; poi cominciò a crescere di intensità fino ad acquistare una certa somiglianza con il nitrito di una bestia in calore e si concluse con un prolungato, interminabile chioccio di gallina malata. Avevo iniziato a risucchiare il lunghissimo spaghetto, ne avevo inghiottito alcuni metri senza essere arrivato all’altra estremità e mi mantenevo inclinato a metà sul piatto per evitare che gli schizzi di salsa mi macchiassero la camicia bianca. Detesto interrompere l’assorbimento di uno spaghetto, ma al tempo stesso la mia attenzione era richiamata con urgenza da quella risata che mi faceva ardere dal desiderio di conoscerne la proprietaria; così, senza lasciare lo spaghetto, sollevai lentamente la testa verso l’alto, cercando di non perdere del tutto l’inclinazione sul tavolo, e poi lentamente la girai verso destra.

Questo movimento, tuttavia, non fu sufficiente a far entrare la donna nel mio campo visivo; doveva trovarsi proprio alle mie spalle, tra le due scapole. Cominciai allora a ruotare il busto sui fianchi, con la testa sempre nella stessa posizione, che quasi toccava la spalla destra; allo stesso tempo controllavo con la coda dell’occhio che lo spaghetto non formasse un arco troppo teso né troppo floscio e restasse lontano dalla mia camicia; ma anche così mi fu impossibile riuscire a vedere la donna, o qualunque cosa fosse, allora pensai di ripetere la manovra verso il lato sinistro, anche se non immediatamente, per non attirare l’attenzione. Iniziai anzi a riportare la testa in posizione normale, succhiando lo spaghetto rapidamente affinché non ne rimanesse nulla. Mi domandavo, osservando il piatto con grande inquietudine, quale fosse l’esatta lunghezza dello spaghetto, quando sentii una presenza vicino al mio tavolo, non proprio di fronte a me ma ad alcuni centimetri alla mia destra.

Alzai lo sguardo e trovai fissi nei miei gli occhi del maître, con uno smoking impeccabile. Un piccolo sussulto mi fece stringere involontariamente i denti e spezzare lo spaghetto; ingoiai la parte che avevo in bocca e l’altra estremità cadde fuori dal piatto, sulla tovaglia bianca. Mentre la raccoglievo con la forchetta cercai di osservare il maître con cortese indifferenza; lui sorrise e mi strizzò l’occhio come già aveva fatto il cameriere, anche se con minor grazia e senza muovere il mento. Subito dopo riprese il suo percorso tra i tavoli, come se volesse controllare che tutti fossero soddisfatti – cosa che in verità non aveva la minima importanza, dal momento che nel giro di pochi minuti avrebbe avuto inizio la parte dello show in cui la falsa Lou Carrington è posseduta da un nano tra le capriole di una mezza dozzina di foche ammaestrate e a nessuno importa cosa gli abbiano servito nel piatto. Io rimasi a osservare il mio, incredulo nel vederlo inalterato, vale a dire pieno di vermicelli come se non avessi mangiato nulla.

L’impatto tra i denti, che mi aveva costretto senza volerlo a spezzare lo spaghetto, li aveva scomposti, procurandomi quella sgradevole sensazione che conoscevo bene. Portai il tovagliolo alla bocca fingendo di pulirmi le labbra sporche di salsa, con un abile movimento della lingua spinsi la protesi superiore in fuori e verso il basso e riuscii a farla cadere sul tovagliolo; ci misi la mano sopra, l’avvicinai a uno dei due bicchieri e ve la lasciai cadere dentro. Poi coprii il bicchiere con il tovagliolo mezzo aperto. E dal momento che non ero più impegnato dallo spaghetto mi voltai del tutto, ruotando contemporaneamente il corpo e la testa, ma nessuna donna entrò nel mio campo visivo. Quattro impettiti signori inglesi mi lanciarono con aria severa una rapida occhiata e tornarono subito ai loro bicchieri di whisky. Mentre rigiravo la testa verso il piatto, spiai senza darlo a vedere i tavoli vicini ma nemmeno questa volta avvertii una presenza femminile. Allora mi misi a riflettere sul mistero dei vermicelli: non credevo ai miracoli né alla generazione spontanea; quell’eccesso di pasta doveva avere per forza una spiegazione razionale. Ero sicuro che nessuno si fosse avvicinato tanto da poter aggiungere qualcosa nel mio piatto e, a ogni modo, lo spaghetto il cui prolungato ingerimento era stato interrotto quando il maître mi aveva fatto sussultare era tanto lungo da riempirlo da solo. Osservando di nuovo il piatto mi sembrò che fosse perfino più pieno di prima. Inevitabilmente la conclusione non poteva essere che una: grazie a un meccanismo segreto i vermicelli che consumavo venivano subito reintegrati. Era forse un modo per attirare la mia attenzione, sottolineato dalle strizzatine d’occhio del cameriere e del maître? Un sommesso latrato di foche, proveniente da qualche luogo dietro le cortine di velluto, mi fece capire che molto presto si sarebbero spente le luci principali: le prove erano giunte al termine. Ne approfittai per prendere la forchetta e rigirare la pasta cercando il fondo del piatto.

In effetti, non mi ci volle molto per scoprire un orifizio, perfettamente tondo e con un diametro non più grande di quello della base di una sigaretta, attraverso il quale sorgeva uno spaghetto. Avanzava millimetro dopo millimetro con brevi scossoni, come una pellicola cinematografica tra i denti del proiettore. Ma anche se era quello che stavo cercando, la mia attenzione fu attirata molto di più dalla scoperta, sul fondo del piatto, sotto la pasta, di un messaggio scritto con lettere stampate diseguali – probabilmente ritagliate da diverse sezioni di un giornale. C’era scritto: «Avvertimento. Non si immischi nel caso Morrison» e a caratteri più piccoli: «per maggiori informazioni veda il conto».

Senza farmi notare, cercai di spostare il piatto sulla tovaglia; non ci riuscii. Ciò confermò la mia idea: lo spaghetto che spuntava da quell’orifizio doveva provenire dalle viscere dello stesso tavolo e senza dubbio passava attraverso una delle gambe, svuotata e collegata a chissà quali complessi meccanismi installati in chissà quali complessi labirinti sotto il lussuoso parquet del pavimento. Era evidente che il cameriere aveva posizionato il piatto con estrema precisione, in modo da far coincidere l’orifizio con una piccola pompa metallica, sicuramente retrattile, che con la pressione del piatto era passata attraverso un buco praticamente invisibile della tovaglia, era penetrata nell’orifizio e da lì aveva iniziato a fornire sempre nuovi, lunghissimi vermicelli. Ciò spiegava perché non era stata soddisfatta la mia richiesta della beefsteak con patate fritte e insalata.

Ebbene, doveva esserci un errore. Era il classico messaggio di avvertimento, o di minaccia, che si invia ai detective privati per evitare che si intromettano in qualche affare. Ma io non conoscevo nessun Morrison e, ovviamente, non somigliavo affatto a un detective privato, ero solo un modesto scrivano al soldo di Williams & Perkins, la vetusta ditta di importazioni, e l’unico contatto che avevo avuto con il «sottosuolo», se così si può chiamare, era stato il mio breve e sfortunato matrimonio con Lou Carrington.

Le luci, regolate in modo sapiente per mezzo di reostati, cominciarono a spegnersi e un sonoro applauso mi fece capire che Lou, la falsa Lou, stava comparendo in quel momento davanti al pubblico; non volli guardare. E così riuscii ad accorgermi che, accompagnato da un lieve «clic», il tovagliolo che copriva il bicchiere con la protesi iniziava un movimento discendente fino ad appiattirsi completamente sulla tovaglia: il bicchiere era stato fatto sparire con un procedimento simile a quello che faceva comparire i vermicelli. Vidi che il cameriere non era lontano e sembrava guardare verso il mio tavolo, gli feci pertanto un cenno perché mi portasse il conto – da un lato desideravo andarmene senza dover sopportare quella parte dello show, dall’altro speravo di ricevere il messaggio promesso e capire così che cosa stesse succedendo. Dopo qualche minuto il cameriere si avvicinò e depositò sul tavolo un piattino con il conto che mi sembrò un poco eccessivo. Pagai con un biglietto da cinquanta dollari e, mentre aspettavo il resto, ripensai alla frase che avevo cercato e trovato vicino alla cifra; era scritta con una matita morbida e mi fu difficile leggerla in quella luce fioca, un bagliore che imitava la luminosità di una notte di luna crescente. La frase era: «Prima di andarsene, si avvicini all’angolo dietro al vaso con la palma, accanto alla colonna di sinistra, in prossimità dell’entrata». Mi confondevano sicuramente con un’altra persona, ma volevo seguire le istruzioni per cercare di capire qualcosa di tutta questa storia o, perlomeno, presentarmi e dimostrare la mia estraneità.

Guardai distrattamente in direzione del palcoscenico. La falsa Lou piroettava in aria, passando dal naso di una foca al naso di un’altra foca, tra un mucchio di grandi palle variopinte, mentre il nano aspettava a piè fermo, nudo ed eretto, al centro del semicerchio formato dagli animali, che la donna gli venisse lanciata da una delle foche con la solita, assoluta precisione. Un altro «clic» mi spinse a osservare nuovamente il tavolo. Il tovagliolo riprese a sollevarsi, in modo lento e ritmico, fino a tornare nella posizione iniziale; senza dubbio il bicchiere era tornato al suo posto. Con gioia pensai che avrei potuto recuperare la protesi: quantunque a volte mi causasse dei problemi, fino a quando non mi fossi deciso a cambiarla per un’altra mi serviva almeno a nascondere il brutto vuoto che avevo in bocca a seguito di un curioso incidente avvenuto alcuni anni prima. Tolsi il tovagliolo ostentando una certa nonchalance e poi avvicinai il bicchiere; all’interno non trovai la protesi ma uno sgualcito biglietto da mille dollari. Mi sembrò che, come ricompensa per non intervenire nel caso Morrison, fosse una somma disprezzabile; ciononostante me lo misi in tasca, pensando anche che in fondo non era tanto male dal momento che comunque non dovevo occuparmi di nessun caso Morrison e che anche volendo non avrei mai avuto la possibilità di farlo. Forse prendere quel biglietto era un atto compromettente; ma, una volta chiarito l’equivoco, potevo sempre restituirlo a chiunque avessi incontrato nell’angolo dietro la palma.

Il cameriere tornò con il resto, al momento di prendere la mancia disse «grazie» con un soave sussurro e se ne andò. Io, a mia volta, aspettai un minuto e mi alzai dalla sedia, cercando di far sì che la mia deviazione verso la colonna sembrasse, agli occhi di un improbabile osservatore, causata dalla disposizione dei tavoli  – cosa che, del resto, non era molto lontana dalla verità. Ma non seppi scegliere il momento giusto; non prestai attenzione allo show, che stava raggiungendo il punto culminante – come senza dubbio poteva capire chi, come me, lo conosceva a memoria, giacché in quell’istante le foche interpretavano Minnie the moocher, premendo con il muso una serie di clacson ben accordati – e diedi visibilmente fastidio a diverse persone che si agitavano furiosamente dietro i tavoli per evitare che il movimento del mio corpo interrompesse per un istante la visione di quello spettacolo a parer loro appassionante.

Arrivai, a ogni modo, senza altri inconvenienti all’angolo indicato nel messaggio. Dietro il vaso con la palma, in un luogo che rimaneva perfettamente nascosto agli sguardi, mi aspettava il cameriere. Quando mi avvicinai, mi prese nervosamente per il bavero e mi attirò a sé con veemenza.

«Baciami, John» disse e incollò le sue labbra alle mie senza darmi il tempo di reagire. Nonostante avessi trovato molto attraenti i suoi occhi chiari, come del resto il suo dolce mento, e adesso la sua voce fosse risuonata sorprendentemente femminile, provai un senso di repulsione e lo allontanai da me con una spinta; ma poi, guardandolo da una certa distanza, capii di colpo che in realtà era una donna. Allora cercai di prenderla a mia volta per il bavero e attrarla nuovamente a me, ma la sua giacchetta bianca non aveva il bavero e mi ritrovai come uno sciocco a muovere le dita nel vuoto.

«Adesso no, John» disse con voce roca. Mi chiesi come facesse a conoscere il mio nome. Allora pensai che forse non si trattava di un equivoco. E che avevo guadagnato mille dollari. Ma Morrison chi diavolo era?

«Chi diavolo è Morrison?» sussurrai. Lei dischiuse le labbra carnose e lasciò sporgere fuori la punta della lingua rosa.

«Ora te lo spiego» disse, e si avvicinò un poco di più a me, abbastanza perché, quando si udì quel sibilo, una goccia di sangue schizzatale dal collo venisse a macchiare la manica sinistra della mia giacca; poi cadde lentamente in avanti, piegando le ginocchia e chiudendo gli occhi, e mentre la prendevo tra le braccia, la testa le si afflosciò scoprendo, incastrata nel collo sotto la mandibola destra, una freccetta metallica con delle piumette verdi a un’estremità.

Dolcemente deposi il cadavere sul pavimento e mi allontanai dall’angolo, cercando di fare presto. Non vidi nessuna figura sospetta nei dintorni. Probabilmente avevano sparato la freccetta con una pistola ad aria compressa, attraverso le foglie della palma, da una distanza apprezzabile. Mi diressi rapidamente verso il guardaroba e consegnai all’incaricata il cartellino di plastica gialla su cui era stampato un numero a caratteri rossi sgargianti. Lei, una bionda piccola e graziosa, dotata di curve molto attraenti, scomparve per un istante dalla mia vista per ricomparire con una pelliccia e un cappello pieno di fiori che depositò sopra il banco.

«È la tua unica opportunità, John» sussurrò, con tale gravità da far scomparire le graziose fossette che fino a quel momento avevano costantemente illuminato le sue guance. «Vestiti e fuggi, sbrigati, per Dio».

In fretta e furia mi misi addosso la pelliccia e, dopo un attimo di esitazione, spinto dalla bionda che per mettermi fretta muoveva i suoi begli occhi verdi, facendoli quasi uscire dalle orbite, indossai il ridicolo cappellino con lo spesso velo di tulle nero che, per caso o per un preciso disegno, mi copriva la faccia quasi completamente. Piuttosto nauseato, barcollando, uscii in strada, senza essere riuscito nemmeno a salutare la ragazza.

«Si sente bene, signora?» domandò con cortesia il portiere, un nero robusto con l’aspetto di un pugile. «Le chiamo un taxi?».

Dissi di no con la testa e affrettai il passo per arrivare all’angolo della strada, pregando che il portiere non si accorgesse delle scarpe e dei pantaloni che avevo dimenticato di rimboccare e spuntavano goffamente sotto la pelliccia; ma prima che ci fossi riuscito sentii una voce, probabilmente quella del portiere, che mi gridava di fermarmi.

Aumentai la velocità. Qualcosa mi fischiò vicino all’orecchio destro prima che riuscissi a girare l’angolo, ma non sentii nessun impatto sul corpo. Giunto in una strada laterale, cominciai a correre all’impazzata e continuai a correre a zig zag attraverso vicoli oscuri fino a rimanere senza fiato. Da allora non ho più rimesso piede in quel ristorante.

(1983)

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