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Io non ho conosciuto Roberto Bolaño

Pubblichiamo oggi un testo dell’ex ambasciatore cileno Luis Fernando Ayala González che ricorda Roberto Bolaño nel discorso di apertura a «2666. 650 anni prima [1]», convegno organizzato dall’Università degli Studi di Padova in collaborazione con l’Ambasciata del Cile.
Buona lettura!

di Luis Fernando Ayala González
traduzione di Ilide Carmignani

A differenza di tante altre persone che dicono di averlo conosciuto, di essere state sue amiche, confidenti, di avergli tenuto compagnia in viaggi, circoli letterari e lunghe serate di bevute e fumo, io non ho avuto la fortuna di conoscere Bolaño. E allora devo parlare di cosa ho imparato da lui attraverso i suoi romanzi, racconti, poesie e interviste. Mi piace guardarlo su YouTube per osservare le sue reazioni alle domande, vedere i gesti, la rapidità delle risposte, a volte qualche esitazione ma soprattutto la sicurezza dei suoi giudizi di natura estetica. Io però non ho conosciuto Roberto Bolaño. E ne soffro perché ho amici più o meno stretti che invece l’hanno conosciuto: hanno bevuto insieme, discusso, contemplato tramonti, lo hanno accompagnato a trovare Nicanor Parra a Las Cruces e hanno parlato di tutto e di nulla.

Pur non avendolo conosciuto, oggi Bolaño fa parte della mia vita. La sua scrittura mi è entrata dentro come un uragano, ha squassato e divelto fondamenta costruite in anni di letture, che oggi mi appaiono piatte in confronto alla forza e soprattutto ai tempi di una narrazione, profondamente affascinante, in grado di aprire una dimensione nuova in letteratura, quella dove l’opera si compenetra a tal punto col lettore che a volte mi è sembrato di essere uno dei personaggi del romanzo e di vedermi, dalla trama, immerso nella lettura. Spesso mi sono chiesto cos’è stato a sedurmi nella prosa di Bolaño e credo sia qualcosa di simile a ciò che avevo scoperto in Cortázar, nella mia precoce adolescenza, o anni dopo in García Márquez. O forse ha a che vedere con le mie esperienze personali, come il fatto di aver lasciato il Cile a ventun anni, dopo il golpe di Pinochet che ha cambiato per sempre la vita a migliaia e migliaia di cileni. Mentre io andavo in cerca della chimera in un paese che non esiste più, la Jugoslavia, Bolaño si trasferiva in Messico e a poco a poco assimilava la cultura latinoamericana, accogliendola in sé e nella sua scrittura, senza mai abbandonare la sua condizione di cileno ma ampliando e assorbendo sempre più la ricchezza di una diversità culturale che avrebbe poi completato nei suoi anni in Spagna.

Ho già detto che non ho mai conosciuto Roberto Bolaño, ma leggendolo ho imparato ad ammirare il suo impegno forte e netto nei confronti dell’America latina. Grazie all’inesauribile serie di testi che continuano ad arrivare dall’hard disk del suo computer, ho appena letto Lo spirito della fantascienza, l’ultima opera stampata dalla sua nuova casa editrice, Alfaguara. Il curatore, Christopher Domínguez, spiega nella prefazione che il romanzo è stato scritto agli inizi degli anni Ottanta, e cioè sul finire del periodo messicano. Ignacio Echevarría, che era stato designato dal Nostro per riordinare e pubblicare le sue opere postume presso Anagrama, fu il primo, credo, a darci la notizia che Bolaño aveva lasciato numerosi scritti nell’hard disk, come spiegava nella prefazione a Il segreto del male. Anche la moglie, Carolina López, nelle poche righe d’introduzione alle poesie e ai testi dell’Università Sconosciuta, ci parla dei file trovati nel computer. Così, in quest’ultimo libro pubblicato da Alfaguara, Domínguez ribadisce che in quell’hard disk ci sono ancora molti tesori da scoprire. Spero sia vero e non si tratti di una bassa manovra di marketing che potrebbe solo danneggiare il lavoro del Nostro.

Voglio essere ottimista e mi auguro di restare piacevolmente sorpreso in futuro da materiale inedito soprattutto per persone come me, che non hanno conosciuto Roberto Bolaño. Tornando al forte impegno nei confronti dell’America Latina che avverto nella sua opera e che è stato ben sottolineato da Echevarría nel prologo di Fra parentesi, vorrei citare un passo del «giovane Bolaño» in cui mi sembra che si possa percepire tale impegno nei confronti dell’avanguardia, degli emarginati, insieme al tentativo di trovare spazi per la creatività dei poeti esordienti contro i guru consacrati della letteratura dei nostri paesi, come ha fatto coi cileni in Notturno cileno o nei famosi articoli giornalistici in cui ha regolato i conti con vari di loro. Cito, da Lo spirito della fantascienza, l’incontro di Bolaño e del suo amico con il direttore del Boletín Lírico del Distrito Federal di Città del Messico, che i due consultano riguardo alla proliferazione delle riviste letterarie:

 

«Non le sembra, a dir poco, curioso che nel DF ci siano più di seicento riviste di letteratura?»

Il dottor Carvajal sorrise benevolmente.

«Non esageriamo. Il mio stimatissimo Ubaldo, sempre così tellurico, ha preso troppo sul serio queste cifre. Seicento riviste di letteratura? Dipende da che cosa intendiamo per riviste e da che cosa consideriamo letteratura. Più di un quarto di queste riviste sono in realtà fogli fotocopiati e spillati assieme, con una tiratura non superiore a venti esemplari, in certi casi inferiore. Letteratura? Sì, per me sì; per Octavio Paz, tanto per fare un esempio, no: scarabocchi, ombre, diari personali, frasi misteriose come una guida telefonica; per un professore universitario, scie lontanissime, a stento l’eco di un fallimento sconosciuto; per un poliziotto, nemmeno roba sovversiva. In ogni caso: parole dotate di una certa a-storicità letteraria. Naturalmente, ha ha ha, non mi riferisco alle riviste ufficiali».

 

Più avanti Bolaño il giovane si batte per il riconoscimento della poesia latinoamericana:

 

La poesia per me in quegli anni, e forse ancora oggi, era la disciplina letteraria che aveva raggiunto risultati maggiori in America latina. Che si parlasse male di Vallejo, che non si conoscesse a fondo l’opera di Gabriela Mistral o che si confondesse Huidobro con Reverdy era una cosa che prima mi faceva star male e poi mi mandava fuori dai gangheri. La poesia dei nostri poveri paesi era un motivo di orgoglio, forse il più grande, per quel giovane turco che una volta alla settimana si impossessava di me. (Ovviamente non si riferiva ai giovani turchi di cui si sente parlare in questi giorni nella politica italiana.)

 

Bene, ho già detto che non ho conosciuto Roberto Bolaño, ma ho fatto mia quell’identità latinoamericana che ho scoperto da studente a Zagabria, nella seconda metà degli anni Settanta, quando ho condiviso con studenti argentini, boliviani, colombiani, venezuelani, messicani i sogni di una rivoluzione che prima o poi sarebbe inesorabilmente arrivata nel nostro continente. Nelle fredde notti del socialismo autogestito, in mezzo a un viavai di bottiglie e al fumo di sigarette a buon mercato, ho imparato i modi di dire, gli accenti, le altre maniere di parlare lo spagnolo in Sudamerica grazie a interminabili conversazioni non solo sulla lotta rivoluzionaria ma sulla poesia e la letteratura in genere, sul boom degli scrittori latinoamericani che dominavano la scena culturale internazionale, scrittori di cui ci passavamo i libri di mano in mano come fossero piccoli tesori, noi studenti poveri.

Tutta questa letteratura lineare a cui eravamo abituati è cambiata per sempre con la pubblicazione dell’opera di Bolaño. Ma quando mi domando cos’è che mi ha emozionato e mi ha spinto a leggere e rileggere i suoi libri, credo, suppongo, sia stato il fatto che ha cambiato il modo di narrare, di strutturare un romanzo, di sviluppare i personaggi, di tracciare descrizioni che ci restano impresse nella memoria come quadri surrealisti, abitati da figure indimenticabili, ad esempio il professor Amalfitano.

Io non ho conosciuto Roberto Bolaño, e non sono nemmeno un critico letterario, ma nei suoi libri in qualche modo ho ritrovato me stesso, mi sono visto riflesso in certe sue pagine e vi ho letto la mia storia, la nostra storia di un secolo terribile com’è stato il ventesimo secolo, e spesso mi è sfuggita una lacrima d’emozione.

Non sappiamo dov’è adesso Bolaño, ho letto qualcosa dei suoi ultimi giorni a Barcellona, della sua preoccupazione per il futuro dei figli, delle conversazioni con Jorge Herralde e delle istruzioni lasciate a Ignacio Echevarría sulle pubblicazioni postume, ma sono piuttosto sicuro che resterà per sempre nelle pagine della grande letteratura. Io non ho conosciuto Roberto Bolaño, ma ne ho costruito uno a modo mio ed è con lui che mi consulto sul valore letterario di altri scrittori e poeti. Immagino le sue risposte e mi diverto, ma a volte penso che non deve aver avuto vita facile, consapevole come era di doversene andare quando aveva ancora così tanto da dire. Forse Bolaño si può accostare al grande Fernando Pessoa, il cui più grande problema, disse una volta, era che «non aveva mai imparato a esistere».

© Luis Fernando Ayala González, 2017. Tutti i diritti riservati.