Soggiorno al Sud: poesie di Aurelio Arturo

redazione Ritratti, SUR

Presentiamo oggi dei versi del poeta colombiano Aurelio Arturo, preceduti da una breve nota biografica. Le poesie sono state pubblicate nel volume «Casa al Sud» (Il Ponte del Sale, Rovigo 2009). Ringraziamo l’editore e il traduttore, Stefano Strazzabosco.

Nota biografica

Aurelio Arturo nasce a La Unión, nel sud della Colombia, il 22 febbraio 1906.
Il padre, maestro di scuola, e la madre, appartenente a una famiglia di possidenti terrieri, lo crescono in una grande casa insieme agli altri sette figli, uno dei quali muore nel 1911 all’età di due anni. Il piccolo Aurelio viene affidato alle cure di una nutrice nera, che gli racconta favole e leggende. Nel 1925, morta la madre per una febbre tifoidea, Arturo si trasferisce a Bogotà, dove studia Giurisprudenza e inizia a pubblicare in rivista le sue prime poesie, alcune delle quali di chiara ispirazione socialista.
Nel 1941 si sposa con María Esther Lucio, dalla quale avrà quattro figli. Nel frattempo, ormai magistrato, impara l’italiano (più tardi lo insegnerà, e leggerà entusiasta la Commedia dantesca in originale) e perfeziona la conoscenza del francese e dell’inglese, ma continua anche a coltivare i suoi interessi letterari impartendo corsi, curando programmi radiofonici, traducendo dall’inglese, scrivendo poesie, recensioni, note.
Nel 1963 esce il suo unico libro, Morada al sur (Casa al sud), che vince il Premio Nazionale di Poesia. Undici anni dopo, nel 1974, Aurelio Arturo muore a Bogotà, Colombia, per la rottura di un aneurisma.

SOGGIORNO AL SUD
Traduzione di Stefano Strazzabosco

I

Nelle notti meticce che salivano dall’erba,
giovani cavalli, ombre curve, brillanti,
facevano tremare la terra con zoccoli di bronzo.
Nere stelle, denti d’oro, sorridevano nell’ombra.

Poi, filtrando in mezzo a grandi foglie, usciva lento il mondo.
L’ampia terra sempre coperta di pelli di soli.
(Erano arsi re, regine bianche, blande,
sepolte nel cavo degli alberi gemevano ancora nel folto).

Guardavo il paesaggio, i suoi occhi verdi, candidi.
Una vacca sola, piena di grandi macchie,
stravaccata nella notte di luna, quando la luna è sbieca,
è come l’uccello toche sul ramo, “fiammetta”, “mela di miele”.

L’acqua limpida, di vasti cieli, tortoreggia placida.
Ma già nel ristagno, salta la bella forza,
con la maestà d’una mandria di bovini che percorre i pascoli.
E un’ala verde, timida, solleva l’intera pianura.

Il vento viene, viene vestito di fogliami,
e si ferma e dubita davanti alle porte grandi,
aperte alle sale, ai cortili, ai granai.

E s’addormenta nel vecchio portale in cui il silenzio
è uno spicchio maturo di fragranti nostalgie.

A mezzogiorno la luce fluisce da quell’arancia,
al centro del cortile spazzato dai domestici.
(Il più vecchio di loro seduto per terra,
il suo sogno, una mosca che gli ronza sulla lenta fronte).

Non tutto era rudezza, un aureo filo di sogno
s’attorcigliava alla polpa dei miei incanti.
E se al nord il vecchio bosco ha un tic-tac profondo,
al sud il curvo vento porta frange di aroma.

(Io guardo le montagne. Sulle lunghe cosce
della nutrice, il sonno mi allunga i capelli).

II

E qui comincia, in questo torso d’albero,
in questa soglia levigata da tanti passi morti,
la casa grande tra i freschi rampicanti.
Nelle sue stanze, angeli d’ombra e di segreto.

In quelle camere io vidi il volto della luce pura.
Ma quando le ombre le riempivano di muschi,
lì, affettuosa e cauta, mi metteva fra le mani
le sue lune più splendide la notte delle favole.

*

Negli anni, negli alberi, attorniata
da un volo d’uccelli, attenta ghirlanda,
casa grande, bianco muro, pietra e pregiati legni,
al bordo di questo verde sbalzo, di quest’ondosità potente.

Sulla soglia di rovere indugiava,
è passato molto tempo, molto tempo sfiorito,
l’alto gruppo di uomini in mezzo ad ombre oblique,
indugiava nel fumo lento illuminato di ricordi.

Oh voci macchiate dal tenace paesaggio, piene
del rumore di bellissimi cavalli che galoppano
sotto incredibili rami.

Io salii sulle montagne, fatte anche di sogni,
io ascesi, io salii sulle montagne dove un grido
persiste fra le ali di colombe selvatiche.

*

Ti parlo di giorni circondati dagli alberi più pregiati:
ti parlo delle vaste notti illuminate
da una stella di menta che accende ogni sangue:

ti parlo del sangue che canta come goccia solitaria
che cade eternamente nell’ombra, illuminata:

ti parlo di un bosco estasiato che esiste
solo per l’udito, e che nel fondo delle notti pizzica
viole, arpe, liuti e piogge sempiterne.

Ti parlo anche: in mezzo a legni, a resine,
a migliaia di foglie inquiete, d’una sola foglia:

piccola macchia verde, di rigoglio, di grazia,
foglia sola in cui vibrano i venti che corsero
per i paesi belli dove il verde è di tutti i colori,
i venti che cantarono per i paesi della Colombia.

Ti parlo di notti dolci, accanto alle sorgenti, accanto ai cieli,
che tremano temendo in mezzo ad ali azzurre:
ti parlo di una voce che mi è brezza constante,
che muove ogni parola nei miei versi,
come quell’alito che muove ogni foglia al sud, dolcemente
ogni foglia, notte e giorno, soavemente al sud.

III

Sulla soglia di rovere indugiava,
è passato molto tempo, molto tempo sfiorito,
un vento già stremato, un vento ammansito
che ripeteva un’erba antica, fino alla noia.

Ed io tornavo, tornavo per i lunghi steccati
che avrei impiegato quindici anni a percorrere, tornavo.

E verso la metà del mio canto mi fermai tremando,
tremando timoroso, con un piede in una camera
incantata, e l’altro sul bordo della valle
dove ferve la notte stellata, la notte
che arde vorace in una fiamma tacita.

E alla metà del cammino del mio canto tremando
mi fermai, e non trema fra le sue ali rotte,
con tanta angoscia, un uccello che agonizza, come potè
tremare il mio cuore in lotta fra i cieli voraci.

IV

Adesso dormi nella camera della lancia rotta in battaglia.
Mani di cera volano sulla tua fronte dove mormorano
le api dorate della febbre, dormi, dormi.
Il fiume sale sugli arbusti, sulle liane, si avvicina,
e la sua voce è così vasta e la sua voce è così piena.
E gli dici, gli dici: sei mio padre? Riempi il mondo
del tuo respiro salutare, tu riempi l’atmosfera.
– Sono il profondo fiume dei manti sontuosi.
Dormi quindici anni fulgenti, la notte ha già cucito
dolcemente le tue ciglia, come due foglie nuove, al suo fogliame nero.

*

Non erano giardini, non erano atmosfere deliranti. Tu ti ricordi
di quella terra protetta da un’ala perpetua di colombe.
Tante, tante donne belle, forti, no, non erano
brezze visibili, non erano aromi palpabili, la luce che veniva
con abiti così cangianti, in mezzo ai lini, in mezzo a rose ardenti.
Era la tua dolce terra che cantava, la tua carne di miracolo, il tuo sangue?

*

Ogni cedro è silenzioso, ogni quercia è silenziosa.
E accanto all’albero rosso dove il cielo precipita,
c’è un cavallo nero con dei soli sulle anche,
nel suo occhio liquido dimora una scintilla.
C’è un cavallo, il mio, e sento una voce che dice:
“È il puledro più bello delle terre di tuo padre”.

*

Sulla soglia consumata persiste un vento fedele,
e ripete una sillaba che brilla intermittente.
Una foglia sottile porta ancora la sua delicata freschezza
da una all’altra estremità dell’anno.
“Torna, torna a questa terra dov’è dolce la vita”.

V

Ho scritto un vento, un soffio vivo
di vento tra fragranze, in mezzo ad erbe
magiche; ho narrato
il vento; soltanto un po’ di vento.

Notte, ombra fino all’ultimo, in mezzo ai secchi
rami, tra i fogliami, i nidi rotti – in mezzo agli anni-
rilucevano le lune di guscio di uovo,
le grandi lune piene di silenzio e spavento.

(Ictarus jamaicensis).

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