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Perché Cent’anni di solitudine è un’opera che ameremo sempre?

Pubblichiamo oggi un articolo sull’importanza letteraria e politica, a cinquant’anni di distanza, di García Marquez. L’articolo, pubblicato originariamente su Lithub [1], viene qui riprodotto per gentile concessione di autore e rivista.

di Scott Esposito
traduzione di Laura Talamona

All’inizio di quest’anno ho visitato la Colombia per la prima volta. Durante il soggiorno ho familiarizzato con molti degli emblemi che costituiscono l’immagine di questa meravigliosa nazione. C’è ovviamente il caffè, uno dei migliori al mondo, conosciuto negli Stati Uniti principalmente grazie al baffuto Juan Valdez; ci sono le antiche civiltà indigene, di cui i musei di tutto il mondo espongono gli squisiti manufatti; c’è il celeberrimo pittore Fernando Botero, che ha adattato il suo stile unico per raffigurare le innumerevoli icone nazionali e anche la tortura praticata dai soldati USA nella prigione irachena di Abu Ghraib. Ma prima di tutto, torreggiante sopra ogni cosa, c’è l’autore più amato della Colombia: Gabriel García Márquez.

C’è un aneddoto che viene raccontato spesso e va dritto alla ragione per cui García Marquez è un grande scrittore. Mentre scriveva Cent’anni di solitudine, si incontrava regolarmente con un altro grande autore colombiano suo amico, Álvaro Mutis, lo aggiornava sui suoi progressi e gli raccontava gli ultimi eventi descritti nel romanzo. C’era solo un problema: niente di ciò che García Márquez raccontava a Mutis venne realmente descritto nel libro. Di fatto aveva inventato un intero romanzo-ombra mentre scriveva uno dei libri più immaginativi e pieni di creatività nella storia della letteratura moderna. Tutto ciò rende l’idea di quante realtà parallele esistessero nell’insaziabile immaginazione di García Márquez.

Scrivo oggi di questo autore perché la sua opera più grande, Cent’anni di solitudine, compie cinquant’anni e vorrei capire perché ha avuto un successo così stupefacente. È stato detto che quest’immenso romanzo rappresenta lo sforzo di esprimere tutto ciò che aveva influenzato García Márquez durante l’infanzia. È stato descritto come una Genesi dei giorni nostri, la più grande opera in lingua spagnola dai tempi del Don Chisciotte (detto niente meno che da Pablo Neruda), e unica nel suo genere perfino secondo gli standard dei colossi dell’era del Boom. García Márquez lo scrisse a Città del Messico durante un anno euforico, probabilmente fumando sessanta sigarette al giorno, vivendo da recluso e confidando nella moglie per le necessità quotidiane. Per parafrasare il critico Harold Bloom, non vi è una singola riga che non sia inondata di dettagli: «È tutta storia, dove qualsiasi cosa – sia l’immaginabile che l’inimmaginabile – accade nello stesso momento».

Ci sono successi, e poi ci sono successi straordinari, e poi ancora ci sono razzi spaziali che arrivano su Marte: Cent’anni di solitudine fa parte di questi ultimi. Le stime parlano di cinquanta milioni di copie vendute in tutto il mondo, collocando il libro nella stessa categoria delle Avventure di Sherlock Holmes, Lolita, Il buio oltre la siepe e 1984. I programmi universitari possono certamente fornire spiegazioni riguardo queste cifre, ma se si considera anche solo il fatto che le vendite di García Márquez sovrastano quelle dei suoi grandi colleghi – Carlos Fuentes, Mario Vargas Llosa, e Julio Cortázar – qualcosa di più dell’istruzione universitaria dovrebbe essere chiamata in causa per renderne conto. Non è facile spiegare la diffusione globale di Cent’anni di solitudine: pubblicato in almeno quarantaquattro lingue, è l’opera letteraria in lingua spagnola più tradotta dopo il Don Chisciotte.

Penso che di questo libro si possa dire che è riuscito a catturare la vitalità delle esperienze storiche di centinaia di milioni di persone, non solo in America Latina ma anche in altre terre colonizzate. Nii Ayikwei Parks, il premiato scrittore britannico figlio di immigrati ghanesi, ha detto a proposito di Cent’anni di solitudine: «Ha insegnato all’Occidente a leggere una realtà alternativa, che a sua volta ha spianato la strada ad altri scrittori non occidentali come me e ad autori provenienti dall’Africa e dall’Asia». Ha poi aggiunto: «Oltre al fatto che è un libro straordinario, ha insegnato ai lettori occidentali ad essere tolleranti con chi ha un punto di vista diverso».

È dunque vero che ha trasportato l’essenza dell’America Latina in luoghi lontani, ma andrei ben oltre questo: definirei Cent’anni di solitudine il libro più letto nella storia dell’America Latina. Lo considero un romanzo che si può iscrivere all’interno della tradizione dei miti fondativi, come l’Eneide di Virgilio e l’Iliade di Omero (o addirittura, dato che ci siamo, la Bibbia), una moderna versione di queste opere che ha filtrato la storia attraverso le narrazioni di leggende ed eroi. Quando lo recensì per il New York Times nel 1970, l’anno in cui gli Stati Uniti poterono finalmente leggere il romanzo nella traduzione di Gregory Rabassa («migliore dell’originale», per parafrasare García Márquez), lo studioso Robert Kiely disse: «il libro non è la storia dei governi o delle istituzioni che riempiono i registri pubblici, ma di un popolo che, come i primi discendenti di Abramo, si arriva a conoscere meglio attraverso la sua relazione con una singola famiglia… È una Genesi sudamericana». Quarantaquattro anni più tardi, quando García Márquez morì, il Times riutilizzò quell’espressione per il necrologio scritto in onore del grande autore, descrivendo Cent’anni di solitudine come «la saga che delinea la storia sociale e politica dell’America Latina».

La fondazione che narra García Márquez non si può nemmeno lontanamente paragonare alle gesta eroiche descritte da Virgilio e Omero, al contrario, è disincantata e circolare, il lento processo di un continente alla ricerca della propria voce, vincendo gli sforzi che vogliono imporre su di esso una storia e una traiettoria. Ma sebbene García Márquez racconti la storia, includendo addirittura eventi realmente accaduti all’interno del libro, la narrazione non segue servilmente i fatti. Ispirato da Kafka e Joyce, García Márquez credeva che per rivelare la verità «non fosse necessario dimostrare i fatti: per l’autore bastava aver scritto qualcosa che fosse vero, senza nessun’altra prova tangibile che non fosse il potere del suo talento e l’autorità della sua voce».

Questo vuol dire che, sebbene Cent’anni di solitudine nasca dalla vera politica colombiana, trascende di gran lunga il suo contesto politico. Lo stesso autore ha detto che il romanzo ideale dovrebbe «perturbare non solo per il suo contenuto politico e sociale, bensì per il suo potere di penetrazione del reale; e, addirittura, per la capacità di capovolgere la realtà, così da poterne vederne il lato nascosto». E questo va dritto al cuore del suo dono: come esponente principale del realismo magico, Cent’anni di solitudine è pieno di seducenti tesori che catturano l’immaginazione del lettore. Oltre ad essere immensi – un’ondata di oblio, o una donna piena di grazia e bellezza che ascende direttamente al Paradiso – questi racconti hanno anche un’indiscutibile connessione con le nostre prosaiche vite quotidiane. Questo è ciò che il mito letterario può fare e che la storia fattuale no; come ha detto García Márquez, questa letteratura capovolge la realtà e ci mostra ciò che si nasconde al di sotto.

Quale miglior mito fondativo per un continente profondamente diviso per vicissitudini politiche, storiche ed etniche, ma ancora desideroso di esprimere un’esperienza comune… Oltre a ciò, questa storia permette anche a chi stava dalla parte opposta – cioè coloro che avevano creato le condizioni per l’oppressione e lo sfruttamento – di comprendere e apprezzare quest’esperienza condivisa. È stato attraverso questo sforzo di immaginazione che García Márquez ha forgiato i legami della comunità. Come disse nel 1982 durante il discorso di premiazione per il Premio Nobel per la letteratura, «Noi – poeti e mendicanti, musicisti e profeti, guerrieri e malandrini […] – abbiamo dovuto chiedere molto poco all’immaginazione, perché la nostra sfida più grande è stata l’insufficienza delle risorse convenzionali per rendere credibili le nostre vite. Questo, cari amici, è punto chiave della nostra solitudine».

Nel dare al mondo nuovi racconti, García Márquez ha aiutato ad alleviare quella solitudine. Ecco in che modo libri come Cent’anni di solitudine ci ispirano: ci offrono nuove immagini, nuovi miti, nuove idee, e nuove forme di comprensione che si oppongono a coloro che continuano a tenerci divisi e nell’ignoranza.

Sebbene un autore debba essere politicamente motivato per creare un’opera del genere, questo è intrinsecamente un atto politico, poiché la politica è fatta di narrazioni (o meglio, dipende da queste ultime come nessun’altra cosa) e tutte le volte che l’arte crea nuove, invasive narrazioni, contesta l’autorità dei nostri politici. Lasciatemi spiegare ciò che intendo. Quando ascoltiamo i discorsi dei politici, le campagne elettorali, quelle politiche legislative e così via, l’idea del «controllo della narrazione» è sempre presente. Le elezioni si basano sulla definizione della narrazione che vogliamo e speriamo abbia risonanza tra i votanti; poi, una volta in ufficio, dovremo riuscire a mantenere il controllo di tale narrazione per propugnare con successo quelle politiche per cui vogliamo raccogliere consensi. Imporre la propria narrazione preferita alla nazione è davvero essenziale per trasformare la volontà in legge.

Secondo questa nozione di politica, le narrazioni sono strumenti ad alto potere persuasivo. Ecco perché uomini danarosi e potenti (si tratta quasi sempre di uomini) hanno investito miliardi di dollari nel costruire imperi mediatici per poter veicolare la comunicazione nazionale. Così Fox News e Breitbart hanno convinto milioni di persone che alcune minoranze abusino di programmi di aiuto sociale, o che il deficit richieda sempre dei tagli alle spese di governo (eccetto quando si tratta di questioni militari), e i radicali islamici siano sempre sul punto di invadere la nostra nazione. Contro questi tipi di narrazioni la sinistra fa il suo gioco, e se personalmente mi considero un progressista è perché, prima di tutto, trovo che il racconto della sinistra sul mondo sia di gran lunga più convincente, compassionevole, autentico, onesto e produttivo di quello della destra.

È nel regno delle narrazioni che l’arte può esercitare la massima influnza sulla nostra politica. Non intendo ridurre un libro come Cent’anni di solitudine alla dicotomia «liberali contro conservatori»: anche se quest’opera affronta in maniera molto estesa la «Guerra dei mille giorni» della Colombia – che era precisamente una guerra tra liberali e conservatori – come qualsiasi opera d’arte veritiera, questo lavoro rifiuta tali binari già predisposti per mostrarci che il mondo è immensamente più misterioso e complesso. E difatti, questo offre una misura ulteriore del successo di García Márquez: ovvero, che l’autore ci ha dato libri che ci toccano nel profondo, anche se virtualmente non conosciamo niente del materiale da cui hanno avuto origine. I suoi romanzi hanno alterato le nostre narrazioni, anche resistendo alla semplice interpretazione, crescendo negli anni insieme alla società e rimanendo contemporanei e di importanza rilevante. Citando di nuovo Bloom, «García Márquez ha dato alla cultura contemporanea, nel Nord America e in Europa, così come in America Latina, diversi racconti necessari, senza i quali non ci comprenderemmo gli uni con gli altri né comprenderemmo noi stessi».

Nella storia moderna la grande arte ha sempre mostrato altri modi di vedere il mondo. Dovrebbe sempre ricordarci che nessuno ha il monopolio della verità, e che anche le narrazioni politiche che noi manteniamo più saldamente ferme, tutt’al più catturano solo una porzione di questo mondo, che è sempre molto più complesso di quanto il nostro pensiero e la nostra lingua possano esprimere. Fare esperienza di un’opera autorevole come Cent’anni di solitudine dovrebbe rammentarci l’umiltà che tutti noi dovremmo provare quando cerchiamo di stabilire ciò che è vero e ciò che è falso.

Naturalmente ciò non significa che i progressisti non debbano essere fautori di un mondo che noi desideriamo con compassione e convinzione (questo richiede la politica); significa che la nostra compassione e la nostra empatia dovrebbero anche essere sempre a portata di mano, non importa con chi abbiamo a che fare. E dovremmo sempre cercare di allargare la nostra visione del mondo attraverso i libri. Perfino in quest’era di ipersaturazione dei media – dove abbiamo film, tv, Facebook, trasmissioni 24 ore su 24, canali streaming, Twitter, e quant’altro – non credo ci sia mezzo migliore per comunicare delle stimolanti, dettagliate, originali e importanti, nuove narrazioni alle nostre menti. Sono proprio queste storie che hanno conservato la freschezza di un’opera come Cent’anni di solitudine, e che continuano a far sì che il mondo la legga.

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