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Diario americano | 3

Continua il viaggio di Marco Cassini negli Stati Uniti per i 100 anni di Lawrence Ferlinghetti [1]. Pubblichiamo oggi un nuovo episodio del suo diario.

[Clicca qui [2] per l’episodio precedente.]

 

Quattro

Non vorrei aver fatto stare in pensiero qualcuno qui al Caffè Trieste: sono arrivato solo alle 6.51 e si saranno senz’altro tutti chiesti che fine avessi fatto stamattina. Lo scenario è diverso da quello dei giorni scorsi: ci sono già una decina di persone, anche se naturalmente nessuno ha osato sedersi al mio tavolo. Ci sono gli aficionados: il signore elegante (che oggi sfodera un completo più primaverile: il gilet sembra lo stesso ma la camicia è bianca e invece del cappotto ha uno spolverino leggero; anche il borsalino è chiaro e decisamente meno invernale dell’altro); la mamma di Julie/Giulia alla panca abituale; e ZZ Top con una nuova coppola di cotone bianco. Il barista non è di turno, oggi c’è un normale barman. Nonostante il mio arrivo ritardato, le brioches non sono ancora nella loro vetrinetta e quindi oggi opto per il cookie, di diametro accettabile per gli standard del luogo, non peserà nemmeno un chilo. Non siamo a New York, e si capisce dal fatto che in tutti questi giorni qui non è entrato nessuno con un cane al guinzaglio o – credo a North Beach sia espressamente vietato dal regolamento comunale – che spunta da una borsa. In questo momento sono l’unico fra i tredici clienti a non avere i capelli del tutto bianchi (non includo la mamma di Julie/Giulia, la sola altra non canuta, solo perché ormai ho deciso che non è una cliente ma parte dell’arredamento).

Ieri è stata la giornata di Ferlinghetti, il C-Day (anche se in numeri romani i calcoli sono sbagliati: sono passati settantacinque anni, e non quattrocento, dal D-Day a cui Lawrence partecipò «proprio come in quel film, Salvate il soldato Ryan», ha detto in un’intervista). E se cento sono gli anni che compie, molte di più sono le sue poesie che sono state lette, recitate, perfino cantate, evocate, mandate a memoria, interpretate, durante la lunga giornata di celebrazioni. Lo dico subito così mi levo il peso dell’imbarazzo di dover fare la figura della mammoletta: c’è stato un momento clou nel quale non sono riuscito a trattenere le lacrime ed è stata una sequenza di due interventi nel pomeriggio: il primo, quando un membro della giunta comunale ha letto, in nome del sindaco (meno male che qui non c’è il problema linguistico di dover dire sindachessa, sindaca, o la sindaco ecc. ma è semplicemente «the mayor») London Breed, il pronunciamento con cui la Città di San Francisco ha decretato il 24 marzo come il «Lawrence Ferlinghetti Day» da qui all’eternità, e le motivazioni lette mi hanno fatto pensare che l’essere arrivato a cento anni è solo un dettaglio in più che rende la sua figura davvero leggendaria: il resto è nei fatti, nell’aver creato un punto di aggregazione e di incontro, di aver scritto e pubblicato, di aver testimoniato e promosso, di essere stato il centro e al tempo stesso sempre, anche, la periferia di qualcosa che resta. Subito dopo, è stata la volta di Nancy Peters, dal 1971 braccio destro (e da trentacinque anni anche socia) di Ferlinghetti alla casa editrice City Lights. Nelle sue parole – e confesso che durante ogni secondo del suo discorso un unico filo di lacrime, discreto ma continuo, è sceso da ciascuno dei miei occhi confluendo nel bicchiere di champagne che tutte le centinaia di presenti avevamo ricevuto per poter brindare al festeggiato – una semplicità estrema, «in tutti questi anni Lawrence ha fatto una cosa sola: esserci». E ha sciorinato una serie di date o momenti in cui Lawrence c’era. Quando il 6 giugno c’è stato lo sbarco in Normandia, Lawrence c’era. Poche settimane dopo la bomba atomica su Nagasaki, Lawrence c’era. In Nicaragua, durante la rivoluzione sandinista, Lawrence c’era. Negli ultimi giorni della rivoluzione cubana, all’Avana, Lawrence c’era. A Parigi nel 1968 quando gli studenti scrivevano sui muri versi di poeti surrealisti come fossero slogan, Lawrence c’era. Quando in questo paese la censura vietava agli artisti di creare, e agli editori di pubblicare, e ai galleristi di esporre, opere d’arte che fossero ritenute oscene Lawrence c’era, e stava sul banco degli imputati e con quel processo ha contribuito a una modifica importantissima della costituzione americana (proprio domani, sempre a City Lights, verrà presentato un libro che racconta la cronaca di quel processo e dei suoi effetti sul Primo Emendamento). E cosa significava esserci? Nelle parole di Nancy Peters, essere lì, dimostrare vicinanza, organizzare supporto, scrivere poesie, fare cronaca, far girare la voce, sostenere, diffondere. «Stamattina», ha raccontato Nancy, «mentre ricordavamo i tanti anni passati fianco a fianco, abbiamo fatto un calcolo approssimativo giungendo alla conclusione che insieme abbiamo fatto circa seimila pranzi di lavoro: con poeti, scrittori, politici, artisti, editori, traduttori, intellettuali, cineasti, attori. Ci piaceva incontrarli, parlarci, ascoltare i loro progetti. Ma a Lawrence è sempre piaciuto anche ascoltare le persone comuni, è un individuo curioso per il quale parlare con un cliente della libreria o un turista di passaggio o un lettore è sempre stata un’occasione per scoprire qualcosa, ed era altrettanto importante che discutere con un poeta o un artista». E se c’è un’eredità che Lawrence può lasciare a tutti noi, ha concluso, è questa: cercare di esserci, di esserci sempre e – che sia con una poesia, un film, un articolo, un disegno – documentare. A vantaggio di quelli che non ci sono.

Il resto della giornata è stato un allegro, perenne viavai tra il caffè Vesuvio, dove per ore scrittori e avventori si sono alternati leggendo versi da A Coney Island of the mind, Starting from San Francisco e gli altri libri di Lawrence; il Jack Kerouac Alley dove un enorme biglietto di auguri è stato firmato da centinaia di persone mentre una compagnia teatrale metteva in scena le sue Routines; lo Zoetrope Cafè di Francis Ford Coppola che si è riempito fino all’inverosimile per ascoltare altre performance di artisti, gruppi vocali e poeti. Alle 13 in punto al piano terra della libreria avevano iniziato due dei testimoni e protagonisti dell’epoca d’oro della poesia di San Francisco: il primo a leggere è stato Michael McClure, che partecipò a quello che molti definiscono, oltre che un evento storico della letteratura americana, l’atto di nascita della beat generation ossia il famoso reading alla Six Gallery di Fillmore Street, il 7 ottobre 1955 (si tramanda che all’indomani Ferlinghetti inviò un telegramma ad Allen Ginsberg, che quella sera aveva letto una prima versione di Howl, per chiedergli il manoscritto) e subito dopo Jack Hirschman, amico di Ferlinghetti da sessant’anni, autore e traduttore per City Lights e poeta laureato a sua volta. Ho deciso ancora una volta di seguire il suggerimento di Damon Krukowski ed essere analogico. Non ho registrato, non ho mandato messaggini whatsapp per dire dov’ero e cosa facevo e senti qui che bello; e non ho scattato foto col cellulare, non ho fatto filmini: di quelli ne troverò a centinaia in rete ben presto e saranno riproduzioni moooolto simili, ma mai del tutto identiche, a quello che ho visto e ascoltato io: l’ascolto, stare lì a sentire i sibili dei microfoni e i suoni distorti dell’amplificazione, guardare dal basso quando chi leggeva parlava dal ballatoio dove c’è l’ufficio della casa editrice che si affaccia sulla sala principale della libreria, e chiedere scusa per spostarsi o far passare chi vuole arrivare più vicino alla fonte del suono, e seguire parte delle letture con il podio impallato da un leggio nero, stare lì e sentire tutto con gli occhi e guardare tutto con le orecchie (ed è stato un vero lapsus questo che ho appena scritto e quindi non lo correggerò) e non attraverso uno schermo di pochi pollici o un microfono digitale, è un’esperienza che solo io potevo fare. C’erano centinaia di persone intorno a me, certo, ma solo io potevo fare proprio quell’esperienza lì, come l’ho fatta io, perché io mi sono spostato di punto in punto nel quartiere in certe ore e con una determinata velocità, ho perso delle letture e altre le ho ascoltate due volte in posti differenti, mi sono distratto in certi momenti e non in altri, ogni tanto sono entrato nella stanza dove qualcuno stava stampando dei segnalibri celebrativi con una pressa manuale, e mentre qualche poeta leggeva sono andato nella poetry room a vedere scorci di documentari d’archivio che venivano proiettati in loop, e poi ho spostato il peso del corpo su una gamba e poi su un’altra, e ho urtato qualcuno nel passare e qualcuno ha urtato me, ho chiesto al mio vicino di ripetere un nome che non avevo capito, e qualcuno ha chiesto lo stesso a me, ho afferrato al volo da un vassoio che passava sopra le teste di tutti un bicchiere di champagne e più tardi quando me ne hanno offerto dell’altro ho detto di no e poi più tardi quando me ne hanno offerto dell’altro ancora ho detto di sì, ho salutato persone, ho provato a entrare nella porta dietro la quale si organizzava tutto questo pensando che non sarei potuto entrare e invece sono stato accolto da Elaine Katzenberger con cui ho scambiato mail per anni senza mai esserci incontrati di persona, e poi ho riabbracciato Nancy che non vedevo da tanti anni (conservando però gelosamente una foto che conservo gelosamente perché in quella foto indosso una camicia impossibile e non credo sia giusto che qualcuno la veda, di nuovo brindando, con lei e Lawrence, nel 1997, in quel loro stesso ufficio dietro quella stessa porta, alla nascita di City Lights Italia, un progetto che loro mi approvarono, ma che poi passò ben presto in mani di altri che lo fecero altrettanto ben presto naufragare) e che aveva accompagnato me e Lawrence in una indimenticabile gita a Big Sur, forse quello stesso anno, forse proprio il giorno dopo quel brindisi e quell’imprimatur, e tutto questo mentre ancora qualcuno leggeva al piano di sopra e qualcuno leggeva al piano di sotto lì dove c’è quella famosa porta di quella famosa foto con quella famosa scritta «I am the door» e qualcuno recitava nel vicolo intitolato a Jack Kerouac e dove Angel ieri sera mi aveva mostrato per la prima volta i murales che conoscevo benissimo e qualcuno recitava nel bar accanto e qualcuno mi offriva dell’erba e qualcuno mi chiedeva se ero Marco e qualcuno mi presentava Mauro e qualcuno mi raccontava che il suo festival LitQuake quest’anno compie vent’anni e qualcuno assomigliava a Richard Dreyfuss e qualcuno forse lo era e qualcuno mi raccontava della sua libreria di Valencia e qualcuno mi diceva che Dave Eggers era appena andato via e non eravamo riusciti a incontrarci che peccato e qualcuno comprava l’ultima delle duecento copie dell’ultimo libro di Ferlinghetti di cui la libreria disponeva quel giorno e qualcuno gliela stava vendendo e qualcuno diceva sono il tuo editor prêt-à-porter e qualcuno aveva un cappellino giallo e qualcuno aveva una barba lunghissima e qualcuno un neo sulla schiena e qualcuno una bici pieghevole e qualcuno uno stuzzicadenti in bocca e una camicia a quadretti e qualcuno si abbracciava e qualcuno si baciava e qualcuno si stringeva la mano e qualcuno diceva nice to meet you e qualcuno diceva ho bevuto la tonica ma aspetto ancora il gin e qualcuno fumava e qualcuno regalava libri di poesia all’angolo della strada e qualcuno faceva bolle di sapone con ampi gesti del braccio e qualcuno e qualcuno e qualcuno ah sì e qualcuno aveva un buffo paio di pantaloni larghissimi e qualcuno aveva una giacca che era un’opera d’arte e qualcuno si attaccava un bigliettino simpatico sulla giacca e qualcuno chiedeva se la spilletta costava un dollaro e qualcuno chiedeva permesso e qualcuno si sedeva a terra sul marciapiede e qualcuno si spegneva una cicca sulla fibbia della cinta dei pantaloni e qualcuno era biondo e qualcuno si complimentava e qualcuno mi diceva ah per un momento ho creduto che fossi la mia fidanzata e qualcuno che invece ero io gli rispondeva buon per te che non lo ero e qualcuno che non avevo mai visto in vita mia mi si avvicinava e mi diceva bisognerebbe piangere molto nella vita e io lo correggevo dicendo ma no basterebbe piangere solo ogni tanto e qualcuno guardava l’insegna di un negozio The Baked Bear e diceva oh no! e qualcuno scattava foto e qualcuno chiedeva scattami una foto e qualcuno posava per una foto e qualcuno autografava una foto e qualcuno dipingeva un quadro e qualcuno si appoggiava sulla schiena di qualcun altro per scrivere un numero di telefono su un foglietto e qualcuno diceva i tuoi fiori stanno bene e qualcuno accordava uno strumento e qualcuno soffiava dentro qualcosa e qualcuno urlava di gioia e qualcuno raccontava di quando e qualcuno chiedeva ti ricordi quando e qualcuno chiedeva sì ma quando e qualcuno si domandava fino a quando e qualcuno era presente e qualcuno be’ sì qualcuno era assente qualcuno era andato via qualcuno stava tornando qualcuno avrebbe voluto esserci qualcuno avrebbe potuto esserci qualcuno avrebbe dovuto esserci e qualcuno diceva ma di preciso quando arrivi a Los Angeles e qualcuno scivolava e qualcuno l’afferrava per un braccio e poi di nuovo qualcuno offriva champagne e qualcuno beveva e qualcuno regalava quadernetti celebrativi e qualcuno celebrava e qualcuno era celebre qualcuno era celere mentre qualcuno era lento qualcuno era addirittura fermo e qualcuno era lì qualcuno era altrove qualcuno mancava qualcuno mancava tantissimo e qualcuno rideva qualcuno sorrideva qualcuno piangeva qualcuno le tre cose insieme e forse questo qualcuno ero io qualcuno invece era decisamente Ishmael Reed e qualcuno era Paul Beatty e qualcuno era un poeta che non conoscevo Alejandro Murguía e leggeva con passione civile una poesia e qualcuno la ricordava a memoria e qualcuno non la conosceva affatto e qualcuno sapeva che quella poesia era stata scritta da Ferlinghetti nei diciassette giorni passati nella prigione di Santa Rita dopo essere stato arrestato a Oakland durante una manifestazione contro la guerra in Vietnam nel 1968 e qualcuno forse voleva sapere qual è questa poesia e allora eccola:

Salute

To every animal who eats or shoots his own kind
And every hunter with rifles mounted in pickup trucks
And every private marksman or minuteman
with telescopic sight
And every redneck in boots with dogs
& sawed-off shotguns
And every Peace Officer with dogs
trained to track & kill
And every plainclothes-man or undercover agent
with shoulder-holster full of death
And every servant of the people gunning down people
or shooting-to-kill fleeing felons
And every Guardia Civile in any country guarding civilians
with handcuffs & carbines
And every border guard at no matter what Check Point Charley
on no matter which side of which Berlin Wall
Bamboo or Tortilla curtain
And every elite state trooper highwaypatrolman in custom-tailored riding pants
& plastic crash helmet
& shoestring necktie & sixshooter in silver-studded holster
And every prowl-car with riot-guns & sirens and every riot-tank
with mace & teargas
And every crack pilot with rockets & napalm under wing
And every sky-pilot blessing bombers at takeoff
And any State Department of any superstate selling guns
to both sides
And every Nationalist of no matter what Nation in no matter
what world Black Brown or White
who kills for his Nation
And every prophet or poet with gun or shiv and any enforcer
of spiritual enlightenment with force and any
enforcer of the power of any state with Power
And to any and all who kill & kill & kill & kill for Peace
I raise my middle finger
in the only proper salute.

© Marco Cassini, 2019. Tutti i diritti riservati.