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«Senza genere, né passato. Chi siamo se non abbiamo origini?», un articolo di Laura Pezzino

Laura Pezzino Autori, BIGSUR, Catherine Lacey, Recensioni

«Prendete un essere umano. Toglietegli il nome, il sesso, l’etnia, la storia, la parola. Quello che rimane, chi è?»  Il nuovo romanzo di Catherine Lacey, A me puoi dirlo, parla proprio di questo: di genere e diversità, di sentimenti, di paure e di ipocrisie.
Pubblichiamo oggi la versione integrale dell’articolo di Laura Pezzino, uscito su Vanity Fair in versione ridotta. Ringraziamo la giornalista e la testata per la gentile concessione.
Buona lettura!

Senza genere, né passato. Chi siamo se non abbiamo origini? È il tema del romanzo di Catherine Lacey.

Prendete un essere umano. Toglietegli il nome, il sesso, l’etnia, la storia, la parola. Quello che rimane, chi è?

In A me puoi dirlo, che esce in Italia prima che negli Stati Uniti, Catherine Lacey, al terzo romanzo dopo Non scompare davvero nessuno (titolo bellissimo, uscito nel 2016) e Le risposte (2018), cambia ancora una volta pelle e si infila in quella trasparente di un personaggio che, un giorno, si sveglia sulla panca di una chiesa.

genere
Di lui, o lei, sappiamo solo che è piuttosto giovane, che non è bianco e che il suo passato è più simile a un’amnesia che a un ricordo. Si fa subito avanti una famiglia caritatevole del luogo, che è una qualunque cittadina della provincia americana, e si offre di ospitare Panca (da quel momento, tutti lo chiameranno così) a casa propria. Ma anche l’accoglienza ha le sue regole, non si può accogliere e basta: «Scusa se è una domanda imbarazzante, ma noi avremmo bisogno di sapere se sei un maschio o una femmina», gli chiede ripetutamente la mamma di famiglia, una tra le più in vista della comunità che scopriamo essere cristiana al limite del fanatismo – una volta all’anno si sottopone a un farsesco rito di scagionamento collettivo, dove ciascuno confessa pubblicamente i propri peccati, ma ciascuno tiene gli occhi bendati, un modo di evitare di fare i conti con qualsiasi conseguenza e che ricorda la macabra Lotteria di Shirley Jackson – fondamentalmente razzista e aperta al diverso purché la diversità venga presto cancellata o almeno incasellata.

Panca non risponde, mai, perché Panca si rifiuta di parlare se non per pochi monosillabi e solo con quelli che il vangelo chiamava gli «ultimi»: orfani siriani adottati, emarginati, bambini.

Attorno alla sua stranezza e al suo mutismo si avvicendano, come in un carnet di ballo, una serie di interlocutori che vedono in lui un’opportunità per aprirsi il cuore e che ricordano i monologhi dei figuranti di Rachel Cusk. Panca ascolta, e pensa. Pensa moltissimo, soprattutto al proprio corpo, che è croce dello scandalo: quello che Panca sogna è un mondo incorporeo, «dove idee possono contenere altre idee», perché in questo modo «i nostri corpi non ci avrebbero ostacolato come fanno qui. Non avrebbero determinato la nostra vita, le vite degli altri, il modo in cui due vite possono e non possono incontrarsi».

Più che un personaggio vero e proprio, Panca è una coscienza che ci interroga: che cosa siamo se non abbiamo un’origine? Che cosa significa accogliere veramente l’altro? Il finale del romanzo è in dissolvenza, e Panca esce dalle nostre vite così come ci era entrato, lasciandosi però dietro un modo diverso, quasi puro, di guardare il mondo: «Sembrava che ormai il cielo non lo vedesse più nessuno. A forza di starci sotto, uno si dimentica. Magari un giorno il cielo non ci sarà più e allora saremo in grado di capire che cos’era». E anche: «Come siamo fortunati ad avere la luna». Già.

 

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