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Da Góngora a Proust: un’intervista a José Lezama Lima

redazione Interviste, José Lezama Lima, SUR

Domani, 28 febbraio 2017, Luca Scarlini racconta Paradiso di Lezama Lima all’IILA di Roma. Pubblichiamo oggi una lunga intervista di Gabriel Jiménez Emán all’autore, originariamente pubblicata sulla rivista Talud. Buona lettura!

di Gabriel Jiménez Eman
traduzione di Alessandra Callà

La presente intervista è avvenuta già più di quarant’anni fa a L’Avana, due anni prima della morte di José Lezama Lima. In questa occasione lo scrittore cubano mi rivelò una serie di questioni che mi sembrano essenziali per la letteratura ispanoamericana, oltre alle sue allusioni a numerosi scrittori sudamericani di vari paesi, e ai processi letterari ed estetici che fanno parte del tessuto della nostra cultura. Tra queste c’è l’allusione al fenomeno del barocco, di cui si è tanto discusso e su cui ci si è tanto soffermati, che qui Lezama chiarisce in modo definitivo. Presentiamo l’intervista con una nuova prefazione e la voglia di rendere contemporanee molte delle idee lasciateci da questo poeta, come contributi sostanziali per la decifrazione della cultura ispanoamericana. Stiamo parlando del poeta di Muerte de Narciso (1937), Enemigo rumor (1941), Aventuras sigilosas (1945), La fijeza (1949), Dador (1960), Fragmentos a su imán (1978)). Del romanziere di Paradiso (1966) e Oppiano Licario (1977). Del saggista e pensatore di La expresión americana (1957), Analecta del reloj (1953), Tratados en La Habana (1958), Esferaimagen (1970), La cantidad hechizada (1970), Las eras imaginarias (1971), Introducción a los vasos órficos (1971) e di alcuni racconti come Juego de las decapitaciones o El patio morado. Lezama realizzò anche una Antología de la poesía cubana (1965) e pubblicò alcune Conversaciones con Juan Ramón Jiménez (1938). Fu fondatore delle riviste Verbum (1937), Espuela de plata (1939), Nadie parecía (1942) e la importante Orígenes (40 numeri, 1945-1956). La sua opera ha meritato di essere tradotta in numerose lingue e di essere inclusa in innumerevoli antologie. Tra gli esegeti della sua opera troviamo Octavio Paz, Julio Cortázar, Carlos Monsiváis, Juan Ramón Jiménez, Severo Sarduy, José Agustín Goytisolo, Claude Fell, Roberto Fernández Retamar. A partire dagli anni Settanta si è riacceso un enorme interesse nei suoi confronti che non accenna a diminuire.

Gabriel Jiménez Emán, 2016

 

Quando a L’Avana andai in calle Trocadero per fare visita a José Lezama Lima l’autobus mi lasciò a uno o due isolati di distanza, così mi vidi mentre camminavo di notte, al buio, attraversando i viali con una certa perplessità e un certo incanto, lo stesso che mi suscitò la lettura di Paradiso quando all’epoca della scuola tornavamo su quelle pagine.

Bussai alla porta. Mi aprì la moglie di Lezama, o meglio, mi aprì un sorriso che usciva dalla respirazione di quella sala dove Lezama era seduto.

Iniziammo subito a conversare. Gli dissi che venivo dal Venezuela, gli parlai un po’ del mio paese e lui parlò del suo con piacere. Io mi preparavo a fare un giro dell’isola e lui me ne descrisse la geografia.

«Varadero è molto bella», disse. «È l’aggettivo che più le si addice».

Passavamo da un argomento all’altro con la stessa facilità con cui lui accendeva i suoi sigari cubani. Distraevo gli occhi con i quadri, i ritratti, gli oggetti e nel frattempo facevo domande mano a mano che lui creava lo spazio necessario alla conversazione. Mi fece perdere i limiti generazionali e mi ritrovai a parlare indifferentemente con un bambino o con un saggio, con un saggio bambino, il Lao Tsé, la statuetta del Lao Tsé, conservata in una vecchia vetrinetta dove si possono ammirare sculture, dragoni cinesi, bambole russe e volumi rimaneggiati di autori antichi; quadri di René Portocarrero, di Arche, di Mariano Rodríguez, tra gli altri e una grande fotografia di suo padre, il colonnello José María Lezama y Rodda, e un’altra di sua madre, Rosa Lima.

Continuammo a parlare, bevemmo un tè freddo preparato da sua moglie. Io gli dissi: «È il tè più squisito che abbia provato», (un tè servito in tazze di finissima porcellana). Lui mi disse: «Come sa, lo zucchero cubano è il migliore del mondo e il tè che prepara mia moglie è il miglior tè di L’Avana».

Lei sorrise ancora una volta e ancora una volta anche il suo sorriso parlò al posto di tutte le parole mentre sistemava le cose, propiziando un ambiente unico di armonia.

«Mia moglie è la mia migliore amica e consigliera», disse, per mettere alla prova quello che stavo pensando.

Lezama è un uomo pieno di humour, parla con molta enfasi e con un accento malinconico, direi con una nostalgia paradisiaca. Inoltre la sua asma lo obbliga a fare pause prolungate quando conversa, silenzi che hanno alimentato il mistero della piccola sala dove parlavamo delle ultime matite inviategli da Julio Cortázar (matite di un rosa molto chiaro, sfumato – disse sorridendo benignamente), o degli ultimi gemelli con cui Gabriel García Márquez lo aveva ossequiato, arrivando persino a parlare dei poeti metafisici inglesi.

Lezama vive nella casa di Trocadero da quasi trent’anni, dagli anni della fondazione della rivista Orígenes. Proprio in quei giorni di dicembre – il 19 – compiva sessantaquattro anni. In quella data gli inviai un telegramma che diceva: «I suoi sessantaquattro anni fusi nel tempo pitagorico e forse nel fiume eraclitano».

Mi disse che non sapeva quale fosse realmente la sua età e fece riferimento a Pitagora come parametro del suo tempo, o del suo non tempo. Per esempio, dopo appena un giorno che mi trovavo a L’Avana, mi chiese se avessi conosciuto questo o quell’artista o scrittore. La moglie gli ricordò che ero arrivato da poco.

«Mi perdoni», disse. «Per me, lei sta da circa cinque anni a L’Avana».

Fu una notte di aneddoti infiniti, di un ambiente caldo e favorevole per parlare di letteratura. Prima di andarmene gli annunciai che una volta tornato a L’Avana gli avrei fatto di nuovo visita per parlare del Barocco e che mi interessava portare via le parole di Lezama per diffonderle. Infatti tornai e registrai la conversazione che proponiamo adesso. Mi regalò un numero – il penultimo, 39, della rivista Orígenes e mi fece una dedica in un libro intitolato Órbita de Lezama Lima che recita così: «Per Gabriel Jiménez Emán, per la visita a casa mia, in una notte di inverno-estate, che potrebbe sorprenderlo. Cordialmente da José Lezama Lima, 15 dicembre del 1974». Alla fine dell’intervista prendemmo il tè, lui prese un altro dei suoi sigari e poi restammo in silenzio. Io ero pronto a congedarmi, aprii la porta e prima guardai il ritratto di un militare, il più grande di quelli che erano lì.

«È mio padre», disse Lezama. Fu colonnello, ingegnere e matematico. Allora io pensai al colonnello Eugenio Cemí.

 

GJE: Prima abbiamo parlato del suo romanzo La Vuelta de Oppiano Licario, perché Oppiano e perché Licario?

JLL: Ah, Oppiano viene da Oppianus Claudium, un senatore stoico di epoca romana e Licario dall’icare, Icaro, che prova l’infinità, che prova l’impossibile, e da qui ho formato questo androide, questo mostriciattolo che è Oppiano Licario, una specie di diamante, un ente dotato di un intelletto sopraffino, archetipo, che cerca la città tibetana, l’eros della lontananza, la terra dove si confonde il reale con l’irreale, quello che già gli antichi chiamavano la orplide, un posto indistinto ideale, la lontananza di alcuni romantici tedeschi. L’Icaro che in un quadro di Brueghel cade con le ali sciolte mentre alcuni contadini lo osservano, soddisfatti del suo fallimento.

GJE: Che tipo di relazione c’è tra Oppiano Licario e José Cemí?

JLL: Lui si avvicina a quello che potremmo considerare, secondo gli antecedenti di Cemí, che si vede nel corso del romanzo, lo Zio Alberto, che è quello che lo conduce sia alla casa che appare nel romanzo e sia quello che rivela a Cemí il potere creatore delle parole. Poi, quando il colonnello sta agonizzando nei suoi ultimi momenti, si avvicina anche José Cemí. Allora l’ultima raccomandazione che gli fa il colonnello – che è il padre di José Cemí, come sa – è: «Conosca mio figlio. Si preoccupi di trasmettergli un po’ della sua saggezza».
Questo si verifica nel capitolo due o tre del romanzo, quando Oppiano Licario vede accanto a sé una persona che ha un braccialetto con le iniziali J.C. e allora pensa: “Questo dev’essere il figlio del Colonnello José Eugenio Cemí”. E gli dice: «Incontriamoci in Calle Espada». Il numero sommato è il numero misterioso di cui parla Dante nella Divina Commedia, credo sia il 612. Quindi si incontrano lì.

GJE: Questo José Cemí non è in nessun modo Lezama Lima?

JLL: Certo il romanzo, come qualsiasi romanzo, ha un aspetto in cui si comunica qualcosa delle proprie vicissitudini, della propria esperienza, del proprio sviluppo; è e non è l’espressione della mia persona. Ha molto di me nel senso che non ci si può mai cancellare del tutto, ma allo stesso tempo non si può definire un personaggio strettamente biografico.
Tutti i personaggi del romanzo partono da una realtà circostanziale, in una parola circuns e estancia, come dicevano i latini, intorno a dove uno vive. Ma allo stesso tempo c’è un elemento di imago. José Cemí è l’uomo che cerca la conoscenza attraverso l’immagine, cioè il poeta.

GJE: Qual è l’immagine che la ossessiona di più in questo momento?

JLL: Una parola, un verso o una frase?

GJE: Una qualsiasi di queste.

JLL: Be’, questa è una domanda difficile a cui rispondere, dovrei improvvisare qualcosa, no? Ovvero, quello che mi ossessiona di più in questi momenti è come due cose formano un terzo sconosciuto. In una mia poesia sviluppo il concetto secondo cui se un gatto si accoppia con una martora non genera una martora con gli occhi fosforescenti, né un gatto dal pelo maculato genera una tigre. Quello che più mi interessa è la parte che può nascere da due cose sconosciute.

[…]

GJE: […] Tornando a José Cemí. Mi sembra di capire che è asmatico.

JLL: Anche mia nonna. Nella mia famiglia gli asmatici abbondano, anche mia sorella, una sorella maggiore che è già morta.

GJE: In che modo ha inciso l’asma sulla sua scrittura?

JLL: Alcuni critici hanno fatto notare che l’asma ha creato un senso della pausa, una specie di ortografia, di punteggiatura speciale, che le mie frasi sono fatte di respirazioni verbali, più che da un ritmo di relazione sintattica.
Credo che ci sia qualcosa di questo, credo che la respirazione sia senza dubbio il movimento razionale e che il discorso si prolunga, nel modo in cui lo intendo io, con la propria respirazione. Credo che in un modo o nell’altro, respirare sia una forma di scrittura, un modo, in cui lo spazio visibile comunica con quello invisibile, perché l’uomo inspira il visibile e restituisce i seni delle proprie viscere. La poesia deve possedere molte di queste cose.

GJE: Cosa pensa di Johann Sebastian Bach?

JLL: Come immaginerà, lo ascolto e ho scritto molte volte su di lui. Come diceva Villalobos è stato il grande folklorista, il grande creatore di folklore, perché è una musica universale che ha qualcosa sia di popolare sia di colto. Con ogni probabilità è una delle persone che, come diceva un filosofo, si è aggrappato nel modo più duraturo all’immortalità, ovvero è uno degli uomini più sicuri sulla sua immortalità; una figura venerabile, è sempre stato un uomo semplice, un organista di paese in Germania.
Un giorno fu chiamato al palazzo di Brougham da Federico il Grande, il fondatore della Grande Germania. Quando era a palazzo invitò Federico ad accompagnarlo con il flauto, perché lei sa che Federico il Grande fu un bravo flautista; quindi questo monarca, che era molto arrogante, gli disse: «Non sum dignus», cioè non sono degno di accompagnarlo con il mio strumento. Allora sua moglie Magdalena disse: «Quel giorno si capì che in Germania c’erano due re: Johann Sebastian e Federico il Grande».
Lo abbiamo ascoltato molto, non ci stanchiamo di ascoltarlo, è sempre in noi, come sa si usa dire l’architettura dei protestanti, le loro grandi messe, le loro grandi cantate, i loro grandi offertori, tutto questo è come una grande cattedrale.
Sono molto contento, sono contento che mi abbia fatto questa domanda. È una parentesi molto piacevole nella conversazione, facciamo già tanta fatica per ammirarlo nella sua totalità, è sempre più necessario.

GJE: Lezama, dove si fonde (o fondono) per lei il barocco e l’ermetismo?

JLL: In realtà tutta l’arte antica è un’arte ermetica, perché per i greci un’arte semplicistica, elementare, era un’arte brutta. E poi, nel medioevo, esistette con grande riverenza il cosiddetto Trobar clus, cioè, i trovatori ermetici, i trovatori colti. L’ermetismo è stato sempre considerato un compagno della poesia. Ma paradossalmente nei tempi antichi i poeti avevano una maggiore formazione rispetto ad oggi per decifrare un testo ermetico.
Per esempio a noi un poeta come T.S. Eliot sembra ermetico, tuttavia con San Juan de la Cruz, il Bhagavad Gita o in alcuni testi di Bergson, abbiamo il concetto di tempo ed eternità elaborato da Eliot nei suoi Quartetti. Invece qualsiasi lettore di buona poesia del Medioevo – un Petrarca o un Ossian – aveva in testa le opere di Platone, di Aristotele, i tesauri medioevali, ecc. con cui potevano capire perfettamente qualsiasi tipo di poeta. A me sembra che i poeti di altre epoche, per esempio i contemporanei di Dante, un Guido Guinizzelli, un Cino da Pistoia, lo stesso Dante, avevano più strumenti di apprendimento per la poesia, e più conoscenza e una situazione più favorevole come lettori rispetto a noi.
Se un poeta conosce alcune cose è già un erudito, ma non ha il sapere necessario che deve avere un poeta. Allora può constatare che testi molto difficili del Medioevo non sono passati come ermetici eppure ora sono considerati tali.
I poeti che si considerano difficili nella nostra epoca, un Paul Valéry, un Rilke, molti non hanno gli strumenti necessari di apprendimento per conoscere i loro testi. Ciò non succedeva con i grandi poeti medioevali. Non si può avere un poeta più complesso e più difficile e con più formazione di Dante, che include persino elementi islamici nella sua opera; lui fu letto nel suo tempo, ma fu letto con comprensione vera in momenti posteriori.
Io sostengo che è la non conoscenza attuale dei poeti che rende molti testi ermetici e difficili. Per altre epoche, nel Medioevo, o per gli stessi greci dell’epoca alessandrina – per esempio, un contemporaneo di Licofrone – non sarebbero difficili.

GJE: A cosa è dovuta secondo lei questa non conoscenza?

JLL: La cultura della psiche si è impoverita molto. Quello che c’è adesso è la cultura della physis della fisica. Si conosce di più la tecnica degli elementi di cultura meccanicistica rispetto alla cultura dello psichismo. Per un lettore antico il procedimento era inverso, perché la tecnica quasi non esisteva. Lei sa che l’Impero Romano è andato perduto – come ha detto qualcuno – per una mancanza di tecnica.
Anche i greci andarono decadendo perché la loro fisica non fece mai il passo avanti verso una fisica qualitativa, una fisica delle proprietà della materia, ma è andata così. Un lettore in possesso di una buona formazione e al contempo di una sensibilità poetica, non potrà trovare nessuna difficoltà nella lettura di una poesia di Paul Valéry, per esempio. Prendiamo le allusioni fatte da Valéry sul tema della freccia, se quest’uomo conosce qualche aporia di Zenone di Elea, la freccia che non arriva mai a destinazione, non può avere difficoltà di fronte a Paul Valéry. Ricordo, ora che lei mi parla di questo, [che] una volta alla Sorbona ci fu un dibattito su certi testi di Paul Valéry, allora si giunse alla conclusione che molte frasi, molte immagini di Omero erano più difficili e più indecifrabili di quelle di Valéry. Quando Omero dice: “E la cicala dalla voce di giglio” è un testo assolutamente indecifrabile; ora, dietro a ogni metafora di Paul Valéry c’è sempre un concetto, una concettualizzazione […] Perché lei come decifrerebbe il verso “la cicala con una voce che è di giglio”? Il giglio non ha voce e l’immagine in sé è logicamente indecifrabile.
Tuttavia per chiunque abbia sensibilità poetica – e questo è tutto ciò che si chiede a un poeta, che penetri nell’oscuro, nell’invisibile, nell’irreale – è assolutamente decifrabile. Il poeta attuale ha un complesso di inferiorità molto grande, ovvero, ci sono molte cose che bisogna includere nella poesia che rimangono fuori. Inoltre le dirò una cosa, non credo che nella vita possa esistere qualcosa di non coerente, dato che tutto ha un senso meraviglioso. La coerenza può esistere solo per gli spiriti errabondi. Quando un uomo ha individuato il suo onfalo, il suo ombelico, non può trovare niente di incoerente nella vita.

[…]

GJE: In che modo si prosegue Paradiso in La Vuelta de Oppiano Licario?

JLL: In Paradiso appare questo personaggio misterioso, lontano – come le dicevo – che è Oppiano Licario, di una saggezza che possiamo classificare come infinita.
Questo personaggio è in Paradiso, ma come si è formato, come si è trasformato, come è andato alla ricerca della madre è ciò che accade in La Vuelta de Oppiano Licario. Perché come è scritto in San Matteo: «Costui che ora si chiama San Giovanni un tempo si chiamò Elias». Quindi Oppiano Licario narra del suo apprendistato a Fronesis, che è quasi la seconda parte di Paradiso.
Qualcuno che mi è sembrato intelligente ha confrontato Paradiso – nell’intenzione, sicuramente, non nella realizzazione – con Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister, di Goethe. Questa mi sembra un’affermazione vera, perché questo romanzo prova a insegnare a formarsi, è un romanzo essenzialmente formativo.
Certe persone che si sono soffermate eccessivamente su alcuni passi hanno dichiarato che il romanzo ha dei momenti pornografici. Questo è un grande errore, perché si tratta proprio di cercare il riempimento dell’uomo, il suo aspetto formativo, come si sviluppa un uomo di fronte alla vita. E penso che questo non possa mai essere pornografico, non crede?

GJE: Non è in alcun modo la ricerca del tempo perduto di Marcel Proust?

JLL: Si è parlato fin troppo, credo, dell’influenza di Marcel Proust – per il quale ho una grande ammirazione – e di Góngora nelle mie opere. Credo che sia arrivato il momento di chiarire le cose.
Góngora non può esercitare un’influenza diretta, Góngora può esigere un’influenza nel frisson, nello scossone della lingua in una ricerca. Quando Góngora dice «riccio è l’involucro della castagna», questo può esercitare un’influenza. Góngora mi ha semplicemente influenzato nel linguaggio, nel modo di esprimersi, nell’impeto provocato a ognuno di noi da quest’uomo che ha cercato una parola nuova, che ha cercato attraverso la poesia un nuovo linguaggio, un linguaggio universale, un linguaggio di tutti.
Góngora non può esercitare un’influenza nell’aspetto letterario, piuttosto nell’aspetto dell’argomento, nello spazio di ragno che circonda ogni poeta.[1] Per quanto riguarda Marcel Proust, alcuni ingenui, poiché nelle mia opera dimostro una grande devozione per mia madre e poiché sono asmatico, e anche Proust è stato edipico e asmatico, questo è già sufficiente per parlare di un poeta. Però se facciamo un passo ulteriore e cerchiamo delle cose più essenziali, ci accorgiamo che il tema che ha preoccupato per tutta la vita Marcel Proust è stato quello del tempo. A me il tema che interessa è il tema dell’immagine, che non ha niente a che vedere con Proust.
Ora, con questo non voglio dire che le dichiaro di non aver letto Proust, o che non lo conosco per sembrarle troppo furbo, e che nessuno pensi a questa immagine.
Proust è uno dei miei autori preferiti, ma io credo in questa influenza di cui molti parlano con una sicurezza così convinta, più che convincente. I temi essenziali di Proust non sono i miei temi essenziali. Così questa influenza di Proust e di Góngora che si riconosce sempre nelle mie opere, che viene sempre segnalata e sottolineata, mi sembra più ipotetica che effettiva. In sostanza, non credo che né Marcel Proust né Góngora possano esercitare un’influenza che sia unicamente vantaggiosa, quando questa influenza è proprio una recherche in Proust, una ricerca, e nel caso di Góngora, un nuovo scossone della lingua.

GJE: Credo di aver letto una volta che per lei l’immagine è la realtà del mondo invisibile.

JLL: Sì, dell’invisibile, dell’irreale, e di tutte le possibilità. L’immagine per me è la vita. In questo ho una radice Paulina, vediamo attraverso gli specchi in un’immagine. La conoscenza della vita non è diretta; la comunicazione da creatura a creatura, da persona a persona, non è diretta, avviene attraverso un’immagine. Queste cose si trovano già in testi di filosofia molto avanzati, come I Dialoghi di Hylas e Filonous di Berkeley, che sviluppano il concetto dove esiste unicamente la rappresentazione. E anche se io affermo questi eccessi, per me l’immagine è ciò che è fondamentale, è l’essenza e il fondamento della poesia e dell’uomo. Non vado oltre perché nella mia opera ci sono molti saggi su questo tema, molti riferimenti, e di certo non miro ad annoiare ma a fare chiarezza.

GJE: Capisco. Io non le farei altre domande, ma possiamo continuare a conversare.

JLL: Bene, ora tocca a me. Ho alcune domandine che mi farò da solo, se lei me lo permette.

GJE: Faccia pure.

JLL: Molto frequentemente si parla di uno scrittore come barocco. Questa parola è stata ripetuta con molta insistenza nel mondo artistico contemporaneo, ed è meglio precisare sin da subito questo termine, perché per tutti un’arte esuberante e prolissa è un’arte barocca. E il barocchismo non consiste esattamente in quello, perché c’è un barocco così freddo come la freddezza di certe statue ricostruite.
In America, negli ultimi tempi, si affibbia l’etichetta di barocco a qualsiasi scrittore che si immerge in una proliferazione, in una esuberanza. Quello che le sto per dire adesso ha una relazione diretta con questo concetto.
È innegabile che nelle differenti forme di espressione che ha vissuto l’America, l’elemento barocco è sempre esistito in un modo o nell’altro. Nei Cronisti delle Indie, per esempio, quando gli uomini che venivano dall’Europa si trovavano di fronte un paesaggio nuovo, quando parlavano della nostra frutta, dei nostri alberi, già a quel punto inizia un barocchismo americano; perché era un uomo stanco dell’Europa, stanco dell’erudizione, della formazione umanistica, che per la prima volta vedeva un paesaggio nuovo. Lì ci sono elementi barocchi.
Anche nel Romanticismo, grazie alla sua stessa ricchezza che a volta fu dannosa, proliferante, ci sono elementi barocchi, elementi di una certa vastità. Per esempio nella stessa Silva a la Agricultura della Zona Tórrida del suo compatriota, ci sono elementi barocchi, certo molto mescolati con cose neoclassiche, con elementi dei primitivi, dei primi poeti classici, ma senza dubbio c’è anche del barocchismo. Nel mondo autoctono americano, che sia giunto nel secolo scorso o che stia emergendo attualmente, c’è anche il primo elemento barocco di formazione di uno stile. Bisogna inoltre sottolineare che il primo gongorista, il primo in assoluto che commentò Góngora fu proprio un indio americano del 1600: Espinoza Medrano. E io credo che nonostante Góngora fosse di Córdoba, lo stile gongorista dove ebbe maggiore sviluppo nella nostra lingua fu in America.
Per esempio, la prima grande figura della poesia americana che è allo stesso tempo il migliore poeta della sua epoca in spagnolo è Sor Juana Inés de la Cruz, in cui c’è senz’altro del barocco. Ma cosa diceva Karl Vossler, che differenziava il barocchismo di Sor Juana da quello di Góngora? Che in Sor Juana c’era un paesaggio, e che in Góngora non c’è paesaggio. Questo elemento, questa somma del paesaggio, quello che io chiamo lo spazio gnostico, lo spazio che si conosce per sé stesso, si osserva di più negli americani che negli spagnoli.
Nella poesia di Góngora il paesaggio è assente e qualcuno ha anche affermato che nella pittura di Picasso non appare mai un paesaggio. Da quando venne pronunciata questa affermazione, Picasso nei quadri posteriori collocava degli alberelli dietro le finestre, come per dimostrare che c’era un paesaggio. Però ovvio, Picasso è sempre stato un uomo dalla grande intelligenza maliziosa.
Per me il barocchismo è una condizione a noi propria, è una condizione molto americana. Direi che due elementi definiscono le condizioni del nostro barocco, una la simultaneità, cioè quello che per gli europei è successivo per l’americano è simultaneo e provoca un fracasso che irrompe nel pensiero.
E poi un elemento del nostro barocco è la parodia degli stili, la presa in giro degli stili. In molti degli elementi barocchi che rientrano nel nostro insieme c’è un innegabile fattore grottesco, una innegabile burla di quello che è veramente lo stile americano. Non è quindi l’esuberanza, non è la proliferazione la caratteristica del barocco. Io direi: quello che in Europa si è succeduto in epoche distinte, nel barocco americano si stringe e si riassume in un solo istante nel tempo, e allo stesso momento c’è un elemento di ironia, di un’ironia intelligente e più ombrosa, più profonda che intelligente se vogliamo, che è poi questa parodia degli stili europei.
Bisogna fare molta attenzione, le ripeto, perché si insiste sul concetto del barocco e lo si mette a qualsiasi clown, sia a un clown lunare che a un clown sublunare, un clown che vola come un uccello sconosciuto che potrebbe apparire di nuovo.

[…]

GJE: Capisco maestro, grazie per le sue parole.

JLL: Amico Jiménez Emán, mi perdoni alcune reiterazioni, alcune insistenze, alcune sottolineature, alcune approssimazioni, ma non sono abituato all’esercizio orale, piuttosto a un silenzio continuato che a volte, alcune volte, riesco a rompere. Ma le dirò la verità, faccio fatica a parlare, ho molto rispetto per la parola e le parole devo strapparmele con difficoltà da me stesso.
Mi perdoni, quindi, se in alcuni momenti sono tornato sopra il detto e ridetto.
© Gabriel Jiménez Eman, 1974. Tutti i diritti riservati..

 

  1. Quando chiesi a Lezama cosa intendesse con spazio di ragno mi spiegò: «Il ragno crea uno spazio che è l’elettricità della tela, la sua comunicazione con lo spazio invisibile, e questo ambito è superiore a quello dell’uomo, perché il ragno stesso lo delimita e lo elabora. Anche il poeta deve delimitare il suo spazio».

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