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«Voi avete il potere»: un estratto da Fragole e sangue

È in libreria, per la prima volta in traduzione italiana, Fragole e sangue [1] di James Simon Kunen, un classico della controcultura giovanile americana (1968). Pubblichiamo la prefazione dell’autore e un estratto.

di James Simon Kunen
traduzione di Anna Rusconi e Carla Palmieri

Prefazione dell’autore all’edizione Brandywine Press (1995)

«Voi avete il potere», scrivevo ventisette anni fa in Fragole e sangue. «Voi fate soffrire milioni di persone […] Bene: allora dateci un taglio, no? Piantatela e basta. Se non la piantate voi, ve la faremo piantare noi». Il «noi» a nome del quale immaginavo di parlare erano gli studenti contestatori degli anni Sessanta, e il «voi» gli uomini distanti e potenti che sfruttavano e opprimevano «il Popolo». A distanza di trent’anni appare drammaticamente chiaro che la mia generazione non ha cambiato poi tanto il mondo. La domanda allora è: quanto il mondo ha cambiato noi?

In quanto giovani «radicali», ci consideravamo la coscienza del paese. Per noi la guerra in Vietnam era un delitto morale, non una questione politica, e reagivamo anzitutto in termini morali, più che politici. Grazie alla forza della nostra gioventù avremmo trovato il modo di strappare il paese alle grinfie della morte, di purificarlo, di rinnovarlo. Eravamo un «movimento» privo di linea politica e programmatica e a definirci era soprattutto la vita condivisa del campus, il fatto che milioni di noi si facessero le canne e ascoltassero i Beatles, l’essere contrari alla guerra. Oggi quella guerra è finita da tempo e noi abitiamo mondi privati.

Ciononostante quando mi ritrovo a parlare con i miei vecchi amici «radicali», la cui vita però di radicale ha ormai ben poco, noto che i nostri valori di fondo non sono cambiati granché. Lo scivolamento a destra del paese ci lascia sgomenti e inorridiamo di fronte ai drastici tagli alle politiche sociali. Perché allora non ci facciamo sentire? Perché non siamo in piazza a protestare?

Paradossalmente, da diciottenni che ancora non andavano a votare ci sentivamo di gran lunga più responsabili delle azioni del nostro paese di quanto non ci accada oggi. Prendevamo le cose in modo più personale. Ci sembrava che a bombardare il Vietnam fossimo noi, che fossimo noi a permettere che i meno ammanicati della nostra generazione andassero laggiù a morire. Oggi diciamo che sono i repubblicani ad aver dichiarato una guerra senza quartiere ai poveri e agli inermi.

Non crediamo più di poter ricostruire il mondo. Anzi, ci adattiamo e ci andiamo coi piedi di piombo, perché abbiamo molto di più da perdere: abbiamo le nostre carriere. Negli anni Sessanta del boom economico, viceversa, la preoccupazione principale dei giovani benestanti era come evitare di fare carriera. La carriera era parte integrante del Sistema, all’interno del quale successo e sfruttamento, lavoro e guerra erano inestricabilmente legati. («Studia! Lavora! Fai strada! Uccidi!», urlavamo ai cortei.) Oltretutto intraprendere una carriera significava accettare le costrizioni dell’età adulta. Io pensavo che evitando di sistemarmi sarei rimasto giovane per sempre. Mi sbagliavo. Che indossi una cravatta o no, invecchi comunque.

Da «ragazzo», qualifica che ci applicavamo fino alla soglia dei trenta, dichiaravo la mia profonda avversione per la ricchezza. Io, dicevo, volevo solo crescere i miei figli in una casa decorosa e potermi permettere qualche settimana al mare. Proprio come adesso, solo che ho imparato che anche obiettivi tanto modesti richiedono una disponibilità di mezzi enorme. Difficile abbandonare il materialismo quando è il materialismo ad abbandonare te.

L’istinto borghese (subliminale, incrollabile) a «diventare qualcuno» e a fare qualcosa per la società ci ha portati quasi tutti sulla strada dell’Establishment; una volta lo chiamavamo vendersi. Ci piace pensare che, grazie alle nostre carriere, oggi possiamo agire secondo certi principi in modo più efficace di quanto non ci fosse dato da studenti. Cerchiamo contemporaneamente di fare bene e di fare strada.

Intanto c’è gente che dorme sotto i ponti. E lo sappiamo, che dovremmo trovare il tempo e il coraggio di risolvere il problema. (Cose da fare oggi: chiamare assicuratore, fare versamento per fondo pensione, abbattere lo stato.)

Se non altro abbiamo un passato da tenere alto. Abbiamo contribuito a far finire una guerra, cosa che ancora oggi trattiene il nostro paese dal lanciarsi in nuovi conflitti. È bello sapere che un tempo abbiamo difeso ciò in cui credevamo – ma questo, lo impariamo tirando avanti, non succede ogni giorno.

James S. Kunen
Brooklyn, N.Y.
giugno 1995

Premessa 1. A proposito del libro

La questione è semplice: chi sono io per scrivere un libro? Non lo so. Lo scrivo e basta. E voi lo leggete. Inutile preoccuparsi di questo.

Premessa 2. Chi ha scritto il libro

L’ho scritto io.

Vorrei precisare subito che il fatto puramente casuale di essere nato nel 1948 non significa che quel che ho da raccontare in quanto diciannovenne vale di più di quello che avevano da raccontare i diciannovenni del 1920, tanto per sparare un anno a caso. Dire che i giovani sono il fenomeno del momento è un’idiozia. I diciannovenni sono sempre esistiti. Tutti compiono diciannove anni, solo in momenti diversi. Questo culto della gioventù è una fregatura per tutti. Prevedo già che compiere vent’anni sarà un brutto colpo, e non so come farò quando mi scadrà la carta giovani. Quanto alla menata del «non fidarti di nessuno sopra ai 30», diciamo che in linea di principio sono d’accordo, ma dovrebbero levare lo zero.

Qual è lo studente tipo che viene arrestato alla Columbia? Non saprei. Io sono stato arrestato alla Columbia, e sono a favore, fra le altre cose, degli alberi (e, per estensione, delle foreste), dei fiori, delle montagne e delle colline, anche delle valli, del mare, dell’astuzia (usata a fin di bene), dei bravi bambini, della gente, delle nevicate da record, degli uragani, delle nuotate sott’acqua, dei poliziotti simpatici, degli unicorni, delle partite di baseball che vanno ai supplementari fino al dodicesimo inning, dei martelli pneumatici (non troppo vicini), delle dune di North Truro a Cape Cod, della liberalizzazione dell’aborto e delle bambole di pezza di Raggedy Ann.

Non mi piacciono il Texas, quelli che vanno allo zoo per fare gli alternativi, il Ministero della Difesa, il nome «Ministero della Difesa», la mosca che mi sta ronzando intorno mentre scrivo, i dazi protettivi, le nevicatine che si riducono subito in poltiglia, le giornate corte d’inverno, le partite che vanno ai supplementari oltre il dodicesimo inning, il termine «consumatori», i martelli pneumatici proprio sotto la finestra e i soldatini. E il razzismo, la povertà e la guerra. Contro questi ultimi tre sto cercando di fare qualcosa.

Ma non sono un nichilista. Ci sono cose che mi piacciono.

Forse dovrei aggiungere che quando mi trovo in un luogo sopraelevato non riesco a non immaginare di buttarmi.

Premessa 3. Chi siamo

La gente vuole sapere chi siamo e qualcuno crede di saperlo. Qualcuno crede che siamo un branco di mocciosi. Difficile dire chi siamo davvero. Il moccio al naso non ce l’abbiamo. Abbiamo invece speranze e paure, o alti e bassi, come li chiamano.

Spesso e volentieri siamo molto infelici, e cerchiamo di tirarci su pensando. Pensiamo che siamo fortunati a poter andare a scuola, ad avere vestiti belli e cose belle e roba buona da mangiare e soldi e la salute. Fortunati, davvero. Ma restiamo comunque infelici. Poi ci arrabbiamo con noi stessi perché ci stiamo autocommiserando, e allora diventiamo più infelici, e più infelici ancora per questa stessa tristezza.

Siamo infelici a causa della guerra, e della povertà, e dell’inettitudine della politica, ma anche perché a volte veniamo scaricati da una ragazza o da un ragazzo, a seconda del caso, e ci sentiamo malinconici e soli e persi.

Il fatto è che siamo persone che vivono a New York.

New York è la città più esaltante del mondo, e anche il posto più schifoso dove vivere che riesca a immaginare. La città dove quelli che incontri in metropolitana sai già che non li rivedrai mai più. La città dove le vie sono morte di gente che si sfiora senza fermarsi, come granelli di sabbia nel letto di un fiume ormai asciutto, trascinati dalle folate di un vento infame. La città dove cammini e cammini sul pavimento duro di un gigantesco labirinto dalle pareti molto più alte delle persone, di cui è pieno. La città è un’isola e tale sembra; spazio insufficiente, molto isolata da tutto il resto. Puoi seguire percorsi solo ad angolo retto, non vedi dove vai, solo dove sei e solo un pezzetto angusto di cielo, le stelle mai. È un gigantesco labirinto che attraversi a fatica, come un ratto, ma diversamente dal ratto alla fine non ti aspetta nessuna ricompensa. Perché non c’è una fine, e non sai neanche cos’è che devi cercare.

Diversamente dal ratto, inoltre, non sei da solo. Caso mai ti senti solo. Di quella solitudine che si può provare soltanto in mezzo a un’infinità di persone che non ti conoscono, a cui non frega niente di te, che non gradiscono che ti interessi di loro.

Ovunque tu vada senti un ticchettio. Il ticchettio dei tuoi passi non ti abbandona mai, e ti ricorda costantemente che ti trovi sul fondo di una scatola. La terra è intrappolata sotto l’asfalto e il cemento e tu non puoi raggiungerla. Non cresce niente.

Tutto questo ci rende tristi. E tutto questo lo trovi alla Columbia, è la Columbia, perché la Columbia è New York. Lasciare l’università o la città non serve. Una volta che abiti a New York ci sei imprigionato dentro, e New York è imprigionata dentro di te.

Il ticchettio ti segue sulla spiaggia e nel bosco, continui a portarti in giro il marciapiede sotto le scarpe. E le pareti le hai tutt’intorno, perché hai vissuto tra la gente ma distante dalla gente. Ormai come va il mondo lo sai: lo vedi quanto sono lontane le persone. E sei proprio triste.

Ma finché riesci ad arrabbiarti la tristezza non si trasforma in disperazione. E noi alla Columbia ci siamo arrabbiati. Non essendo disperati, siamo in grado di vedere una serie di cose contro cui è necessario lottare, e lottiamo. Abbiamo lottato, stiamo lottando, lotteremo.

Premessa 4. Come è nato il libro

Scrivere un libro è come avere un bambino; in entrambi i casi si tratta di mettere al mondo qualcosa che prima non c’era, ed entrambi sono una bella rottura.

Questo libro è stato scritto su tovagliolini e pacchetti di sigarette e cartelli dell’autostop. Era sparso dappertutto, ma così funziona la mia testa. Ho una tendenza spiccata a dimenticare le cose. Riesco a ricordarne massimo tre per volta. Se penso a una quarta, dimentico la prima. Come un distributore di sigarette: tiri fuori un pacchetto, e tutti gli altri scendono di un livello. Un’analogia perfetta in ogni particolare degno di nota.

Se volete leggere questo libro nel modo migliore e più autentico, stracciatelo e sparpagliate i brandelli per tutta la casa. Dopodiché, ogni volta che vi imbatterete in un pezzo, leggetelo, oppure non leggetelo, a seconda di come vi gira. Anzi, meglio ancora: tenetelo da parte fino alle quattro del mattino, ora in cui preferireste fare qualunque altra cosa, e a quel punto leggetelo. Soprattutto, però, a leggerlo non metteteci troppo, perché io non ci ho messo troppo a scriverlo.

Noterete che gran parte di questo libro si limita a raccontare piccole cose che ho fatto e pensato. Il che può sembrare del tutto irrilevante, per quanto riguarda la Columbia. Ma tant’è.

© James Simon Kunen, 1968, 1969, 1995. Tutti i diritti riservati.