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Un drago vero davvero

Laia Jufresa Autori, Laia Jufresa, SUR

Pubblichiamo oggi un breve e divertente pezzo di Laia Jufresa, una sorta di diario, in cui la scrittrice messicana racconta la quarantena a Edimburgo strappandoci più di un sorriso. L’articolo, uscito originariamente sulla Revista de la Universidad de Mexico, viene qui riprodotto per gentile concessione della rivista e dell’autrice, che ringraziamo. Buona lettura!

 

di Laia Jufresa
traduzione di Giulia Zavagna

 

Mia figlia è una dottoressa. È una dottoressa per draghi. Lo so perché me lo dice ogni giorno, tutto il giorno, ormai da un mese, da quando hanno chiuso gli asili. La sua convinzione si affievolisce solo a tratti, quando chiede: «Mamma, dove posso trovare un real dragón?» Intende un drago vero. Lo dice in spagnolo, però mette le parole nell’ordine inglese: prima l’aggettivo, poi il nome. Quando parla, praticamente lo fa in spanglish. Siccome ha tre anni e io non ho alcuna ambizione pedagogica, la mia unica missione durante la quarantena è correggerle lo spagnolo. L’unica missione di suo padre è portarla fuori al sole una volta al giorno. (Dire sole, qui in Scozia, è relativo. Diciamo: all’aria aperta.) Quindi la correggo: «Un real dragon è inglese, in spagnolo diciamo dragón real». «No», insiste, infastidita, «questo è un altro tipo di real dragón, questo è un real dragón real, un drago vero davvero». «Ah, ok», dico io, e mi ritengo soddisfatta.

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Mi sono ripromessa di non usare la prima persona plurale per parlare a mia figlia. È una promessa che infrango tutti i giorni, generalmente fin dalla mattina presto. Lei si infila nel nostro letto all’alba e dopo pochi minuti ecco che io già attacco: «Non diamo calci! Non graffiamo! No, no, non facciamo le puzzette in faccia agli altri, accidenti!»

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Non sappiamo se è diventata un dottore pensando che così l’avremmo lasciata uscire di casa. Nel dubbio, ormai sentiamo le notizie solo con le cuffie. Mentre le preparo la colazione sento in un orecchio il podcast della BBC sul Coronavirus. Mi sono ripromessa che questa sarebbe stata la mia unica fonte di informazione pandemica e lo divoro la mattina presto per ritrovarmi più o meno alle nove già in fase di post depressione globale e potermi dedicare ai miei doveri materni o, se quel giorno è il mio turno, chiudermi in studio a lavorare. Questa è un’altra promessa che infrango ogni giorno.

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Nel Regno Unito, nel momento in cui scrivo, abbiamo il permesso di uscire una volta al giorno per fare attività fisica. Quando esco da sola, corro. (Anche questo è relativo. Diciamo che trotterello.) Quando esco con mia figlia, la porto a pascolare per mantenerla a due metri di distanza dalle persone che incontriamo. Vorrei rendere la cosa divertente (come quando sentiamo passare un’ambulanza, e ci mettiamo a ballare e cantare niiino niiino), ma proprio non ci riesco. Dopo un paio di isolati, ecco che già attacco: «No, non ci avviciniamo alla gente!»

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Al Museo di Chirurgia di Edimburgo, che prima vedevo tutti i giorni dall’autobus ma che ora mi sembra un luogo incredibilmente remoto solo perché non è nel mio quartiere, un giorno ho sentito una cosa che ha cambiato completamente l’idea che avevo del passato – come quando un cugino porta a stampare le diapositive e si scopre che nel 1950 la nonna si laccava già le unghie di un arancio molto anni Ottanta. Ecco cosa ho sentito: «Prima dell’invenzione dell’anestesia, gli ospedali erano i luoghi più rumorosi al mondo».

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Amici che vivono in grandi città mi scrivono: «C’è un silenzio incredibile!» Amici che vivono in altre grandi città mi dicono: «Il rumore delle ambulanze è insopportabile!» A volte questi messaggi mi arrivano da amici che vivono in zone diverse della stessa grande città. La loro percezione, suppongo, è semplicemente e direttamente dovuta al fatto di vivere o no vicino a un ospedale. In una città zittita, gli ospedali e i loro tentacoli ritornano a essere l’epicentro del rumore.

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Ho notato che quando esco a trotterellare, se qualcuno non rispetta i due metri di distanza e io non ho modo di farmi da parte, trattengo il respiro. È un gesto che ha un fondamento scientifico pari a zero, ma è più forte di me. E sospetto di non essere l’unica. Devono esserci milioni di persone in tutto il mondo che fanno esattamente la stessa cosa. È una nuova sindrome. Apnea Involontaria Da Vicinanza Umana.

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Nella prima persona plurale non siamo mai stati così tanti. Non perché il virus ci renda più vicini, ovviamente, né men che meno perché ci rende tutti uguali, piuttosto è il contrario. Eppure non siamo mai stati così tanti a vivere una situazione così simile nello stesso momento e in così tanti posti. «Come va?», scrivo a un’amica brasiliana di cui non ho notizie da un decennio. «Come procede?», scrivo a un amico in India che non vedo da quindici anni. Rispondono tutti, tutti sanno a che cosa mi riferisco. I preamboli non sono mai stati così inutili.

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Mi affaccio in salotto per capire da dove viene un suono. È mia figlia che ha in mano un oggetto di plastica rosa non meglio identificato. Non so da dove sia uscito, sicuramente dal charity shop dove a volte compriamo giocattoli per cinquanta cent. Lo identifico: è uno di quei cosi per fare i massaggi. Lei però lo impugna con due mani e, allungando le braccia, lo fa zigzagare per tutto il corridoio. «Via!», gli ordina. «Via dal coronavirus!»

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Allo stesso modo, non siamo mai stati così tanti dentro casa. Siamo tre persone, a dire il vero, ma di persone vere davvero ce ne sono molte di più. La maggior parte le conoscevamo già da prima della pandemia. Cara, per esempio, vive con noi da più di un anno. All’inizio la sua onnipresenza mi ha dato un po’ fastidio. Ho chiesto alla maestra d’asilo se le sembrava normale che una bambina di due anni avesse amiche immaginarie così concrete. Mi ha risposto che in vent’anni di lavoro non aveva mai visto una cosa del genere, ma che di anormale non c’era nulla. Mi sono ritenuta soddisfatta. Eppure alla terza settimana di quarantena inizia a darmi fastidio veder spuntare da tutte le parti versioni invisibili degli amici veri. Scrivo ai genitori. Organizziamo disastrose videochiamate infantili.

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Un giorno sto facendo colazione in piedi, solo ed esclusivamente per poter incollare le natiche al termosifone, e d’un tratto mi accorgo che mia figlia mi guarda con curiosità da sopra il suo yogurt alla banana. «Che cosa fai?», mi chiede. Ecco, mi ha beccata a parlare da sola. Improvviso: «Sto parlando con la mamma di Cara». È molto soddisfatta della mia risposta.

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Da piccola ero invidiosa dei bambini che avevano amici immaginari, quindi mi sono inventata di averne diversi. Ora so che stavo solo barando. Gli amici immaginari di mia figlia sono reali, i miei erano di fantasia. Continuano a esserlo. Non so a che età ho cominciato a parlare tutto il giorno con persone vere davvero. Però so a che ora della giornata, nella vita normale non durante la pandemia, passo dalle notizie al romanzo, da mia figlia ai miei personaggi. È un passaggio che comincia appena suo papà la porta all’asilo. Ma adesso: come posso fare correttamente questo passaggio se siamo tutti chiusi nella stessa maledetta casa?

Mi diverte notare che tra il mio grande orrore (per i morti e i malati, per le molte crisi che sono ancora di là da venire) e i miei piccoli orrori (quello di ingrassare per via della clausura, quello di accorgermi che non abbiamo più vino o carta igienica), c’è un orrore intermedio. Non che la mia famiglia finisca per interferire con il mio romanzo, ma che finisca per finire dentro il mio romanzo. Non è ancora successo, e io già attacco: «No, no, non scriviamo autofiction, accidenti!»

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Trovo mia figlia che mette un cerotto all’oggetto rosa. «È il mio drago», mi informa: «si è fatto la bua». Il mio entusiasmo è genuino. Il real dragón ora è un drago vero davvero! Ha finalmente un corpo. Fine dell’impiccio ontologico. Forse sono stati i cinquanta cent meglio spesi della mia vita.

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A quanto ho capito, l’attuale impiccio è epidemiologico ma anche sistemico, epistemico, statistico, geopolitico ed economico. Etico, a volte. Epico, sempre. Ma non ontologico. Il virus è. E di fronte a tanta chiarezza, si fa nebulosa la nostra comprensione, in ordine cronologico e non di priorità, di quello che avrebbe dovuto essere, di quello che non è, di quello che sarà.

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La prima ministra scozzese ha da poco tenuto una conferenza stampa in cui, a differenza del governo inglese, ha sottolineato l’importanza della trasparenza. Così, con totale trasparenza e trattandoci – parole sue – da adulti, ci ha informato che la cosa più sicura è che… chissà.

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In agosto – forse, chissà – mia figlia comincerà la scuola materna. Andrà alla pubblica qui di fronte, che non è in inglese ma in gaelico scozzese, una lingua celtica che, almeno nella mia testa, ha lo stesso suono dell’elfico di Tolkien. Io in gaelico scozzese so dire solo «grazie». Ma alla quarta settimana di isolamento mi dico che ne ho abbastanza di correggere lo spagnolo, e comincio a cercare lezioni di gaelico. Immagino che anche mia figlia non ne possa più di certe cose, perché alla fine di una videochiamata con la sua amichetta, grida furiosa: «Voglio vedere gente VERA!»

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Il mio primo grande amore è cominciato via chat. Quando dico «fare una ricerca» generalmente mi riferisco a googlare qualcosa. Gli amici con cui mi scambio mail mi sembrano più vicini di quelli che ho qui vicino. Eppure mi faccio prendere dal panico al pensiero che mia figlia debba cominciare la materna online. Questo disprezzo per internet mi fa sentire vera, ma in modo vagamente moralistico. Al tempo stesso la mia dipendenza da internet mi fa sentire altrettanto vera, ma in modo più precario, più primario. Più umano?

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Ho anche notato, durante le mie camminate, che la gente che parla con persone vere davvero desta sospetti. Si sono dati appuntamento nonostante le regole dicano che non è permesso vedersi con gli amici? Perché, se vivono insieme, che cosa avranno mai da dirsi dopo tanti giorni di quarantena? È una vecchia sindrome. Diffamazione Per Invidia.

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«A cosa giocate?», chiede mio marito affacciandosi in cucina. Stiamo ripetendo suoni impossibili davanti a un video di youtube. «We’re counting in garlic!», dice mia figlia. «Gaelic», la correggo, «senza la erre». «Come si dice sette?», chiede il papà. «Tap-la», dico io, e lui si ritiene soddisfatto. (Però tap-la vuol dire grazie e io non ho idea di come si scriva.)

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Penso che dedicarsi a scrivere fiction richieda un equilibrio costante tra fascinazione e repelle per la gente vera davvero.

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Se l’avesse detto mia figlia, io le avrei risposto: «Non diciamo la repelle». Non riuscirei a dirle: «È un verbo, non un sostantivo», perché mi troverei a citare la hit di Ricardo Arjiona, «Jesús es verbo, no sustantivo», e davvero farebbe sballare il mio kitschometro. Però mia figlia non dice la repelle. Mia figlia non sa pronunciare la erre. O, come non si stancano di notare gli amici che ora si riuniscono davanti a Zoom come prima facevano davanti al bancone del bar: «Parla come una gringa».

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La bilancia del suo bilinguismo pende a seconda di quale nonna ha sentito per ultima su Skype. Se la sentiamo esclamare Oh, dear!, vuol dire che ha parlato con mia suocera. Se dopo averci raccontato qualche scemenza chiarisce: No es cierto, nomás andaba vacilando [tipica espressione messicana: «Non è vero, ti stavo solo prendendo in giro», ndt], significa che ha parlato con mia mamma. Anche il suo senso dell’identità cambia. Da soy una vaciladora passa a I’m so silly! Impossibile sapere che cosa dirà di sé quando imparerà il gaelico. Sono già malinconica all’idea che non la capirò.

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Non mi interessa infornare pane di pandemia. Mi lascia indifferente il repentino bisogno di piantare pomodori. Non provo altro che perplessità per chi pulisce febbrilmente casa. Però non registrare questo momento per iscritto mi fa sentire in colpa. Come sempre. Quando ero incinta stavo male all’idea di non descrivere le variazioni del mio corpo. Da quando ho partorito vivo con il senso di colpa costante di non annotare quello che dice mia figlia e non riempire quaderni interi con le mie elucubrazioni sulla maternità. Mi dispiace rendermi conto che in realtà non penso nulla sulla maternità. (È un verbo, non un sostantivo.) Ora mi sento in colpa perché non sto tenendo un diario della quarantena. O forse semplicemente sono già malinconica all’idea che non mi capirò.

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Questo è ciò che so della primavera del 2020, grazie alla quotidiana sbirciatina che ci è concessa: All’inizio del lockdown non c’erano fiori. I fiori sono spuntati. I fiori stanno cominciando a cadere.

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Il mio kitschometro si spegne il giovedì sera, alle otto in punto. È il momento in cui nel Regno Unito apriamo le finestre – io già avvolta in una coperta – e cominciamo ad applaudire e a fare cori per il National Health Service fino a sgolarci. Nemmeno il calcio ha mai fatto scattare il mio nazionalismo messicano, nemmeno il discorso della regina mi ha mai fatto saltare la vena antimperialista che qui mi mantiene al margine, eppure, tutti i giovedì, senza sconti, l’applauso all’NHS mi distrugge. Voglio pensare che quest’emozione non è patriottismo ma qualcosa di più simile all’umanismo, o all’universalismo. Che stiamo applaudendo a tutti i dottori e le infermiere del mondo. Che ci stiamo appropriando del rumore, alleggerendo per un nanosecondo il carico degli ospedali. Ma chi lo sa: abbiamo già visto come i sistemi sanitari non fanno che accentuare le differenze e le frontiere. E per farmi venire qualche altro dubbio, ecco che arrivano le cornamuse. Per strada una vicina, rigorosamente in kilt tartan, suona la sua a tutto volume (non c’è altro modo di suonare la cornamusa) per tipo dieci minuti, e la cosa contribuisce – ne sono sicura – a far durare di più il nostro applauso, oltre ad aumentare l’emozione che quel rituale suscita in noi. Mi chiedo allora se il nazionalismo scozzese non mi stia entrando in circolo come per osmosi, o come si prende un virus: per disattenzione. E mi chiedo anche se una persona non sia, forse un po’, anche del posto in cui crescono i suoi figli. Se una persona non è o non sarà, in parte, del posto dove ha trascorso questa quarantena. È un impiccio identitario ma non – almeno non adesso né per le settimane, forse i mesi, a venire – logistico. Siamo di dove stiamo. Siamo dove stiamo. E auguri a chi dovrà spiegare ai propri figli che parlano spanglish che in tempi normali quelli sono due verbi, non uno.

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Quando in futuro mia figlia mi chiederà come abbiamo passato il periodo del coronavirus, le darò questo testo. È un diario vero davvero, le dirò. E lei si riterrà soddisfatta.

 

© Laia Jufresa, 2020. Tutti i diritti riservati.

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