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Antonio Ortuño, esercizi di brutale xenofobia

Pubblichiamo oggi la recensione di Stefano Tedeschi alla Fila indiana [1] di Antonio Ortuño [2]. L’articolo, uscito originariamente sul Manifesto, viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore.

di Stefano Tedeschi

Come rappresentare la violenza più brutale e i suoi effetti devastanti? La letteratura latinoamericana si è posta questo problema così tante volte da farne una cifra costante, anche sotto le maschere del realismo magico o del fantastico. La questione diviene più pressante quando la furia della realtà supera ogni limite preesistente e la crudeltà degli uomini oltrepassa, per efferatezza e numero delle vittime, anche la più sfrenata immaginazione.

Succede riguardo alle donne del femminicidio di Ciudad Juárez in 2666 di Bolañó, oppure negli accadimenti descritti da Antonio Ortuño in La fila indiana (traduzione di Silvia Sichel, Sur, pp. 206, € 16,50) dove la violenza viene descritta senza sconti estetici o compromessi al ribasso. È un romanzo feroce, centrato sul destino dei migranti centroamericani diretti verso gli Stati Uniti, che rimangono intrappolati nelle maglie perverse della Conami, l’organismo governativo deputato a gestire quei flussi e che spesso diventa invece focolaio di corruzione e di sfruttamento. Sarebbe assai riduttivo, tuttavia, leggere il romanzo solo in questa chiave: la scrittura di Ortuño – una voce chiave della nuova narrativa messicana – si distingue per la sua rapidità fatta di capitoli brevi, incisività delle frasi, e per una polifonia diffusa, come se solo la pluralità delle voci potesse dar conto della complessità del Messico contemporaneo.

Qui, a contrapporsi sono essenzialmente due voci, quella di Irma la Negra, mandata dalla Conami a gestire gli effetti di una strage di migranti che la malavita organizzata ha perpetrato nell’immaginaria città di Santa Rita, e quella del marito da cui è separata, il Benpensante, rimasto a Città del Messico da dove osserva e giudica la situazione. Entrambi entreranno in contatto con due donne centroamericane, vittime di atroci violenze, le quali – ognuna per suo conto – stanno pianificando forme di vendetta nei confronti dei loro carnefici. Alla narrazione si intrecciano comunicati stampa, articoli di giornale, voci anonime del paese, tessendo una sorta di coro che costruisce il contesto generale, segnato dal disprezzo e dalla xenofobia diffusa della società messicana verso i migranti centroamericani.

Mentre le brutalità perpetrate ai loro danni, in particolare contro le donne, colpiscono fatalmente la sensibilità del lettore, si diffonde nel romanzo una forma di violenza più sottile determinata dalla indifferenza in cui quelle efferatezze cadono, così che la tragedia più recente cancella quella di qualche giorno prima, e l’impunità diffusa sembra anestetizzare l’opinione pubblica, fino a farla diventare di fatto complice di quegli eventi: Irma si sente fisicamente attratta da un collega che si scoprirà essere poi legato ai trafficanti di esseri umani, e il marito trasforma in schiava sessuale la ragazza centroamericana presa in casa come domestica.

Nessuno può davvero sfuggire al labirinto costruito dai carnefici che si combattono tra loro per assicurarsi la maggiore fetta del commercio dei migranti. Persino le migliori intenzioni – il tentativo di Irma di salvare Yein, la giovane centroamericana del cui destino si prende cura, o quella del giornalista che cerca una verità che finirà per schiacciarlo – vengono ingoiate da un Golem che non rispetta niente e nessuno.

Ortuño non teme di caricare i toni e riesce a evitare la caricatura semplicistica o il disegno manicheo dei personaggi, rischio in cui sarebbe stato molto facile cadere, affidando al continuo oscillamento e al veloce cambio dei registri un racconto che cresce in forma di spirale verso il finale in cui la fuga appare come la sola opzione possibile.

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