Intervista a Ricardo Piglia 1/2

redazione Autori, Ricardo Piglia, SUR

Pubblichiamo oggi la prima parte di una recente intervista a Ricardo Piglia comparsa sulla rivista «Ñ», ringraziando l’autore e la testata.
La «Serie del Recienvenido» è la nuova occupazione di Piglia, che ha lasciato oramai l’insegnamento a Princeton. Si tratta di una collana che ha recuperato libri di Sylvia Molloy e Germán García, e continuerà con Ana Basualdo. Libri che, dice Piglia, sembrano aver generato poetiche, spazi a cui tornare per leggerli nel presente. Approfittando dell’occasione parla del canone e della moda di dire “racconto”.

di Raquel Garzon
Traduzione di Raffaella Accroglianò

Saranno le ciliegie che ha appena servito con un gesto da splendido anfitrione o lo stato d’animo tipico dell’estate? Comunque sia, il buonumore di Ricardo Piglia questo pomeriggio ispira un consiglio: per intervistare uno scrittore, è meglio scegliere sempre un posto che gli sia familiare; non i luoghi suggeriti dalla casa editrice o dal caso. Un posto dove lui o lei si sentano comodi come a casa. Qui nel suo studio in calle Marcelo T. de Alvear – librerie a tutta parete, immagini di Joyce come santo patrono, una locandina di Arancia meccanica di Stanley Kubrick, un tavolo e due sedie “nel cuore del centro della città” – Piglia conversa con un tranquillità invidiabile.
Scherza sulla geografia dell’appartamento, dove comandano le linee verticali – «l’architetto doveva essere un espressionista tedesco» –; si dice felicissimo di essere tornato a vivere a Buenos Aires – «sono andato in pensione, non faccio più lezione a Princeton» – e arriva a elucubrare ingegnose vendette quando la fotografa lo tormenta con una sventagliata di scatti: «Sto pensando di organizzare una mostra: dieci scrittori e dieci fotografi. Gli scrittori farebbero le foto e i fotografi dovrebbero scrivere almeno una riga sull’esperienza di essere ritratti. Allora potrei dirti “sii naturale”, e ti renderesti conto di come sia un invito a irrigidirsi».
La ragione dell’incontro non sono i successi che ha mietuto Bersaglio notturno, il suo romanzo più recente, che nel 2011, fra l’altro, ha ricevuto il premio Dashiell Hammett, quello della Critica spagnola e il Rómulo Gallegos; quanto piuttosto quella che Piglia chiama una delle sue “vite parallele”: la sua attività di editor, alla quale dobbiamo per esempio la Serie Negra, una collana di polizieschi che alla fine degli anni Settanta diffuse autori come Raymond Chandler, David Loeb Goodis e Horace McCoy.
Sotto la sua direzione editoriale cominciano a uscire questo mese, con un prologo di suo pugno, i titoli della Serie del Recienvenido, nome che omaggia Macedonio Fernández, autore dei Papeles del recienvenido (1929) e ammicca a una tradizione con la quale Piglia vuole far dialogare i testi scelti.
La collana, edita dal Fondo de Cultura Económica, propone il recupero di “grandi opere della letteratura argentina degli ultimi decenni del XX secolo” a un ritmo di 3-4 titoli l’anno, e il debutto giustifica l’attesa: sono già stati pubblicati En breve cárcel (1981), di Sylvia Molloy, e Nanina (1968), di Germán García. «L’idea» sintetizza l’editor «è cercare alcuni libri, romanzi e racconti, pubblicati in epoche distinte ma correlati ad alcune poetiche attuali, come se la letteratura avesse aiutato a costruire luoghi, per tornare a leggerli o per continuare a leggerli. L’immagine del recienvenido, una battuta di Macedonio, è anche questa: testi che si presentano sempre come nuovi ».
Tra quelli che vorrebbe pubblicare in seguito, Piglia include El mal menor, di C.E. Feiling; La pasarela del alcohol, un racconto autobiografico di María Moreno; qualche buona traduzione di “un libro della grande tradizione” come Días de ocio en la Patagonia, di Guillermo Enrique Hudson, e nel medio periodo testi latinoamericani come Morirás lejos di José Emilio Pacheco, «per fronteggiare la balcanizzazione dei grandi gruppi editoriali, che pubblicano gli autori latinoamericani solamente nei loro paesi d’origine».
Mentre finisce le ciliegie e serve due bicchieri d’acqua, Piglia si siede con le spalle a una finestra, dove il calore prodotto dal riverbero comincia a tramare in che modo convertirsi in qualcos’altro, per parlare senza fretta di questo progetto e di altri temi vari, come il canone letterario, il protagonismo che ha acquisito nella politica argentina l’idea del “racconto” e il dibattito su “cos’è il presente”, uno di quelli che, secondo lui, sta segnando la letteratura attuale.

In un’intervista precedente parlammo del suo desiderio di scrivere un saggio sui romanzi d’esordio. I due libri scelti per inaugurare questa serie lo sono. Questa collana ha a che fare in qualche modo con quel saggio? E in questo caso, con quali ipotesi ha lavorato?
Non ci avevo pensato, ma credo che anche Oldsmobile 1962, il libro di racconti di Ana Basualdo, terzo titolo della Serie, sia un’opera prima. Averli scelti, perlomeno, testimonia la persistenza di quel mio interesse. Sarebbe una bella cosa, visto che continuiamo a lavorare con questa idea di Macedonio Fernández di ciò che è possibile, di ciò che si potrebbe fare, definire una collana di romazi d’esordio. Perché questi presuppongono l’apparizione di una voce, qualcosa che si può identificare come un futuro già implicito, e ciò, di per sè, genera un’attrazione. Inoltre sarebbe un modo di attirare l’attenzione su un genere di solito mal visto dagli editori, che vogliono sempre scrittori famosi, e sulla possibilità di mettersi in gioco per individuare nuovi autori o stili. Ma scegliere prime opere non è stata una scelta cosciente.

Nella sua prefazione a En breve cárcel lei esalta l’intensità e la bellezza con cui è raccontata la storia. Una certa critica mette in discussione il valore della bellezza; perché continua a essere importante per lei?
Il romanzo di Sylvia Molloy narra la passione sentimentale tra due donne. Quando uscì, sembrò a tutti un libro straordinario, ma anche adesso si ritrova in dialogo con testi che hanno affrontato la questione quasi come se fosse un genere. Ciò che chiamiamo bellezza sarebbe un modo per ritagliare, nel fluire degli avvenimenti, alcuni fatti che sembrano avere una dimensione propria e sono indimenticabili per chi li vive. Anche questo ha a che vedere con i corpi e con l’amore, con il modo in cui i corpi diventano più belli con l’amore. Bisognerebbe associare la bellezza alla passione, non sono cose slegate: in questo libro il tema viene trattato in una maniera assolutamente notevole. Quando si dice «non posso smettere di leggere questo romanzo» è perché lì c’è qualcosa, una voce che sta narrando, oltre l’aneddoto o la trama, ciò che si vuole continuare ad ascoltare è questa voce che narra e svela una relazione particolare con la storia che racconta.

Da lì sorge la distinzione che lei fa tra tono e stile?
Sì, lo stile allude all’eleganza nella disposizione delle parole; il tono al ritmo e all’intensità della storia. Queste sono le cose che rimangono. Siamo tutti molto interessati a vedere cosa cambia e come possiamo adattarci; ma dovremmo anche riflettere su quello che rimane, perché ci interessa ciò che persiste, e quale virtù possieda per poter persistere. Nel mondo della narrazione, una questione che mi sembra importante segnalare è il tipo di voce che possiede il narratore, sia questo un personaggio reale, un personaggio interno alla trama o qualcuno che racconta la storia. Questo potrebbe intendersi come una persistenza. È qualcosa che la letteratura ci da: la sensazione di una voce interna che ci aiuta a comprendere ciò che si sta narrando in modo diverso da come si comprende un racconto audiovisivo, si tratti di un film o di immagini che si sovrappongono in qualsiasi formato. Questa relazione tra il linguaggio e i toni del linguaggio è qualcosa che la letteratura pratica e modula in modo unico. D’altra parte la letteratura, per la sua stessa dinamica, tende a pensare di più a ciò che non esiste. Si adatta ai cambiamenti e si adatta con grande fluidità ai formati, alle tecniche, a tutto ciò che sta rinnovando. Ma contemporaneamente può incorporare un dibattito, una discussione o una visione che ha l’aria di una pausa nel mezzo di un rumore rapido. Non dico che in questa Serie ci sia tutto questo. Sono le problematiche che girano intorno a cosa significhi pubblicare letteratura oggi; è un microscopico intervento su questo tema.

Una collana con queste caratteristiche, dato il posto che lei occupa nella letteratura latinoamericana, presuppone proporre nuovi classici, canonizzare. O no?
I canoni sono molteplici, ognuno ha il proprio, e c’è una discussione aperta sul valore, le gerarchie, sulla persistenza dei testi, sugli ordini e le rotture degli spazi troppo definiti a volte, che escludono certi testi. Ma si tratta di un dibattito distinto dal modo in cui circolano i libri.

Come imposterebbe lei questo dibattito?
Credo che affronterei la questione di come possiamo fare in modo che il mercato sfugga a questa specie di presente perpetuo nel quale i libri circolano rapidamente, e poi diventa difficilissimo trovarli. Questo lavoro è previo alla discussione sul canone, perché molte volte il canone non ha neanche a disposizione i libri che bisognerebbe mettersi a leggere. Io volevo regalare un libro di Cabrera Infante, per esempio, e oggi non lo si trova. Non riusciremo a sovvertire questa situazione, ma è importante recuperare un’idea di catalogo. In questo senso credo che questo progetto sia in linea con altri che negli ultimi dieci anni sono nati in Argentina. Esperienze di case editrici come Mansalva, La Bestia Equilátera o Eterna Cadencia, El Cuenco de Plata, Adriana Hidalgo, o quello che è stata Interzona: una certa tradizione dell’edizione più vincolata agli scrittori e alla persistenza di certe letture. Queste esperienze hanno cominciato a cambiare un poco il modo in cui i nuovi autori trovano spazi. Questa è la base per iniziare una discussione su ciò che sta accadendo nella letteratura argentina o latinoamericana negli ultimi anni.

E cosa sta accadendo secondo lei?
C’è una discussione sulle nuove tecnologie che produce una serie di prospettive poetiche, nuovi testi. Ma bisogna contenere l’euforia, perché queste hanno una dinamica che non è la stessa della cultura. È una periodizzazione veloce, che invecchia immediatamente le forme anteriori, estetizzando ciò che invecchia. Io per scherzo dico che presto ci sarà una grande retrospettiva di Twitter al Louvre. Questi sistemi aiutano la diffusione della cultura, ma anche i libri, in un certo senso, sono presenti in questi dibattito. È molto comune, per esempio, che giovani che fanno riviste digitali poi le pubblichino su carta, perché la pagina stampata ha ancora un spazio che funziona. In questo contesto esiste una discussione abbastanza intensa fra critici e scrittori su cosa sia la letteratura argentina attuale, quale sia la letteratura del presente, che tipo di caratteristiche abbia questa letteratura.

Qualcosa come un’urgenza di essere contemporanei?
Sì, e uno si domanda: in cosa consisterebbe? Nell’includere personaggi che si inviano mail o tweet? La discussione mi sembra interessante, ma credo che sia anche una problematica maggiormente legata al giornalismo piuttosto che alla tradizione di discussioni sulla letteratura. Non perché la letteratura non lavori con il presente; ma lo fa in modo più enigmatico, più discreto. L’esigenza sarebbe quella di domandare agli scrittori. Noi scrittori dovremmo stare molto attenti a non lasciarci sfuggire il presente, quando il presente, se c’è, funziona da solo. Dire “sono uno scrittore del presente” sembra veramente una condanna.

Come ricorda il suo “presente”, il momento in cui ha cominciato a scrivere?
Quando abbiamo iniziato, negli anni Sessanta, il problema era: come ci si mette in connessione con la realtà? Questa era la discussione. In che modo noi scrittori stabilivamo connessioni con la realtà e come la realtà entrava, se ci entrava, nella sintassi, nel lessico. Credo che i registratori abbiano aiutato a risolvere questo problema, per fare ancora una volta un esempio tecnico. Oggi mi sembra che la tensione sia la relazione con l’immagine. Nel caso dei libri della Serie del Recienvenido, partecipano alla polemica contemporanea pur essendo stati pubblicati in un altro momento, il che è già un modo per intervenire nella discussione: non sono contemporanei solamente i contemporanei.

Campanello. Arriva il resto della troupe: la cinepresa che renderà conto di questa intervista per il Web. Ancora ciliegie durante la pausa e acqua per quelli che arrivano accaldati dalla strada. «Va bene così l’aria?» domanda Piglia. Annuiamo, mentre gli obiettivi e i cavi si appropriano della luce e degli angoli.

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