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Testo a fronte: José Luis Rico Carrillo

redazione Poesia, Scrittura, SUR, Traduzione

veleros y el oleaje Il testo a fronte di oggi è dedicato alla poesia: vi presentiamo un giovanissimo autore messicano, José Luis Rico Carrillo, con due poesie tradotte da Stefano Strazzabosco. Buona lettura!

«Pantitlán»
di José Luis Rico

Hoy me siento sábado soleado
y café bajo los toldos, me siento los veleros y el oleaje
que se ven desde unos cuantos
jardines de la tierra.
Mientras voy en un vagón
por el túnel de ratas de este martes
qué imágenes me salen de la frente:
esas chicas mentoladas
que trotan por la costa
y cenan salmón ahumado con espárragos,
los relumbres de diamante
en la noche del joyero y tanto más.
Pero aquí
la ventana es una cueva que se mueve
y el faquir les da de codos
a los vidrios de su hambre.
Me siento asfixiado pero al menos
vivo algo justo ahora
que se hunden mis costillas
y se vuelven a expandir.
Los vidrios abren callos y yo acepto
la cifra que me encarna, la mínima migaja, la discordia
de la cuerda del violín, alegre
de que no exista una palabra
que agrupe así nomás
a tanto incauto rútilo
y nadáfagos de trapos en los pies
y engañadas que amanecen
en un cuarto de granito.
A empellones y quitándome
de enfrente el pelo ajeno
acepto a cada quien con su salmón
y con su herida.
Importa la cadena que nos pudre,
el habemos, las piernas de aluminio
del borgoña, eso y más.
Pero huele a verduras y a molduras
en este faquir que me despuebla.
Hay chillidos de metales en las voces
y una cueva de piel de dinosaurio.
Hoy la playa inalcanzable me penetra.
Le doy gracias a mi túnel,
este mínimo respiro
me transforma.

«Vuelta»

Voy zumbado entre breñales
en el camión por una tráquea
de dunas descorriéndose
y brota la ciudad
y el olor de sus cadáveres
me empuja hacia el pasado.
Voy a casa. Las llantas hacen por llegar entre las moscas
de carne rota y sed en ese viento
y la media flama azul no quema los olores,
la flama azul que es el verano
sólo curva la distancia y aquí voy,
yo, su costilla, a entrar en la ciudad en la que llueve
ácido, para palparla desde dentro
y no sufrirla en su piedra desde fuera, no sufrirla con los ojos
cerrados en una habitación que me cercaba con cuatro pensamientos. Aquí, en ella, en su polvo
rodando contra todos los objetos, en su lástima de plantas espinosas
que comen carne infecta. Voy en mis riñones vivos
a 2 kilómetros, sentado, inmóvil, desde hace 25
horas y años, hacia ustedes,
Hugo, Simona, Luis Alberto, para el único estirón
después de los campos de Chihuahua, esperando como bestia
entre alambres que suicidan a las vacas
y ¡run! ¡run! y más atrás y abajo vuelvo
de un perro de petróleo demográfico, de densísimo tezontle,
vuelvo al patio
donde aún sostienen lo que fui, paleando zopilotes,
durando en la dislocación de lo sagrado,
junto a barrios de cuchillo y horas secas.Una liebre huye de las púas amarillas
de no sé cuál potencia de hambre
en el lento girar de la maleza.
Entre dunas se adensa la ciudad y sobrenada
ruinas de balnearios, drástico galope
de sus canas cada vez, al verla
arrastrando la falange cuerpo arriba
por la curva del país, perdiendo lo que somos,
traicionándonos con naves industriales
que en su vana soledad son como lunas,
flotando en aguijones de la época,
la descubro fábrica por fábrica,
la voy tocando con lúbrico esperar,
y así le tengo sed:

cosa de raíz, relámpago podrido, adonde quiera que yo iba,
por teléfono, en silencio mentiroso,
rompían mi cabeza tus ladrillos, me degollaba
tu viento viejo como un trapo.
Y ahora entro en la tormenta. Entre banquetas melancólicas,
para ver qué sale de la boca de los rifles,
para ver, para sentarme
bajo el pino excéntrico donde se toma el agua oscura
y parar balas o enterrarme con ustedes en la nada, así, como grises espectáculos
de arena, como si no hubiera pasado,
como si no estuvieran arrancándonos
esta última miseria, el oxígeno del rostro,
en la calina, vuelvo,
estoy aquí.

«Pantitlán»
traduzione di Stefano Strazzabosco 

Oggi mi sento sabato assolato
e un caffè sotto le tende, mi sento i velieri e le onde
che si vedono da qualche
giardino della terra.
Mentre viaggio in un vagone
nel tunnel di ratti di questo martedì
che immagini mi escono di fronte:
le ragazze mentolate
che trottano lungo la costa
e cenano salmone affumicato e asparagi,
il luccichio dei diamanti
nella notte del gioielliere e molto altro.
Ma qui
il finestrino è una spelonca che si muove
e il fachiro dà di gomito
ai vetri della fame.
Mi sento asfissiato ma almeno qualcosa vivo proprio ora
che le mie costole s’infossano
per poi tornare a espandersi.
I vetri aprono calli e io accetto
la cifra che m’incarna, la minima briciola, la discordia
della corda del violino, contento
che non esista una parola
che dica pienamente
tanto incauto splendente
e i nullòfagi con le pezze ai piedi
e le donne tradite che si svegliano
in una stanza di granito.
Spintonando e togliendomi
di dosso i capelli degli altri
accetto ciascuno con il suo salmone
e con la sua ferita.
Importa la catena che ci guasta,
l’essere insieme, le gambe di alluminio
del borgogna, questo e altro.
Ma c’è odore di verdure e di modanature
in questo fachiro che mi svuota.
Ci sono strilli di metalli nelle voci
e una spelonca di pelle di dinosauro.
Oggi la spiaggia irraggiungibile mi penetra.
Rendo grazie al mio tunnel,
questo minimo respiro
mi trasforma.

«Ritorno»
Vado ronzando in mezzo a queste fratte
nella corriera per una trachea
di dune che si evacuano
e spunta la città
e l’odore dei suoi cadaveri
mi spinge indietro, nel passato.
Vado a casa. Le ruote stanno per
arrivare fra le mosche
di carne rotta e la sete in questo vento
e la mezza fiamma azzurra non brucia gli odori,
la fiamma azzurra che è l’estate
curva soltanto la distanza, e io entro,
io, la sua costola, entro ormai nella città in cui piove
acido, per palparla dall’interno
e non soffrirla in pietra dall’esterno, non soffrirla con gli occhi
chiusi in una stanza che mi murava
coi suoi quattro pensieri. Qui, in lei, nella sua polvere
rotolando contro ogni oggetto, nella sua pena di piante spinose che mangiano carne infetta. Vado nelle mie reni vive
a 2 chilometri, seduto, immobile, da 25
ore e anni, verso di voi,
Hugo, Simona, Luis Alberto, per l’unica tirata
dopo i campi di Chihuahua, aspettando come una bestia
in mezzo al filo spinato che suicida le vacche
e run! run! e più indietro e più sotto torno
da un cane di petrolio demografico, di densissimo tezontle,[1] torno al cortile
dove conservano ancora ciò che sono stato, bastonando avvoltoi,
durando nella dislocazione del sacro,
accanto a quartieri di coltello e d’ore secche.

Fugge una lepre dalle spine gialle
di non so quale potenza di fame
nel lento girare delle erbacce.
Tra le dune si addensa la città e sorvola
rovine di piscine, drastico galoppo
dei suoi capelli bianchi ogni volta, vedendola
trascinare la falange col suo corpo in alto
lungo la curva del paese, perdendo ciò che siamo,
tradendoci con capannoni industriali
che nella loro vana solitudine sono come lune,
galleggiando in pungiglioni dell’epoca,
la scopro fabbrica per fabbrica,
la tocco poco a poco con lubrico sperare,
e allora ne ho sete:

cosa di radice, lampo putrefatto, ovunque io andassi,
per telefono, in un silenzio menzognero,
mi rompevano la testa i tuoi mattoni, mi decapitava
il tuo vento vecchio come un cencio.
E adesso entro nella tua tormenta. Tra marciapiedi malinconici,
per vedere cosa esce dalla bocca dei fucili,
per vedere, per sedermi
sotto il pino eccentrico dove si prende l’acqua scura
e fermare pallottole o seppellirmi con voi
nel nulla, così, come grigi spettacoli
di sabbia, come se non fosse successo,
come se non ci stessero strappando
quest’ultima miseria, l’ossigeno del volto,
nella foschia, io torno,
sono qui.

José Luis Rico (Ciudad Juárez, 1987) Poeta, traduttore. Si è formato nel Laboratorio di Creazione Letteraria dell’INBA (Instituto Nacional de Bellas Artes) nella sua città natale, sotto la guida di César Silva Márquez. Ha usufruito di borse di studio della Fundación para las Letras Mexicanas nel periodo 2010-2012; del Seminario Internacional de Formación de Jóvenes Traductores, promosso dall’IFAL e dall’Ambasciata di Francia, nel 2012; e del Programa de Estímulos a la Creación y Desarrollo Artísticos “David Alfaro Siqueiros” dell’ICHICULT (Instituto Chihuahuense de Cultura), nel 2014. Vincitore del Premio Nacional de Poesía para Jóvenes Escritores “Guillermo López Muñoz” 2012; del Premio Chihuahua de Ciencias y Artes 2014 nella categoria “Letteratura” (poesia); e del Premio Nacional de Poesía Joven “Francisco Cervantes Vidal” 2015. Blanco (2012), la sua prima plaquette, è stata pubblicata dalla casa editrice indipendente La Dïéresis. Duna, la sua seconda plaquette, è stata edita dal Fondo Editorial Tierra Adentro nel 2013. Ha tradotto in spagnolo autori come Bill Mohr, Edward Myers, Annie Ernaux, Michel Butor e Ludovic Halévy. Vive prevalentemente a Città del Messico.

[1] Tezontle: pietra rossastra o nerastra, leggera e porosa, di origine vulcanica, impiegata nell’edilizia fin dai tempi preispanici.

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