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José Donoso racconta Juan Carlos Onetti

José Donoso José Donoso, Juan Carlos Onetti, SUR

Pubblichiamo oggi la prefazione che José Donoso scrisse per l’edizione spagnola Salvat de Il cantiere di Juan Carlos Onetti (1971).

di José Donoso
traduzione di Violetta Colonnelli

È molto probabile che i premi letterari siano stati creati da qualche demiurgo sarcastico per sottolineare la risata sonora con cui il tempo si vendica delle certezze. In ogni caso i premi sono utili come mezzo per scrutare il panorama e, vergognoso, uno si chiede come sia possibile che ciò che oggi appare evidente, ieri possa essere sembrato anche solo dubbioso. Esemplare dei cambi di prospettiva all’interno della letteratura latinoamericana fu il concorso internazionale del 1941, al quale parteciparono il peruviano Ciro Alegría e l’uruguaiano Juan Carlos Onetti, entrambi del 1909. Fu il peruviano ad aggiudicarsi il premio, con grande tran tran di dichiarazioni, peripli di conferenzieri intercontinentali e il beneplacito generale per il nuovo romanzo latinoamericano, che non aveva timore di esaminare la realtà locale e denunciare errori e crudeltà.

Ma la nostra letteratura, essendo ansiosa, vitale, impetuosa, è ricchissima di omissioni, occultamenti, apparizioni e sparizioni, terremoti che alterano bruscamente la prospettiva. Come conseguenza di una di queste calamità, la polvere ha coperto il vincitore Ciro Alegría fino quasi a seppellirlo, mentre Onetti, attuale e fiammeggiante, esce tardivo dal territorio silenzioso dove ha incubato i dodici libri di finzione che costituiscono la sua opera, per avvicinarsi e raggiungere i suoi compagni di generazione: Cortázar, Lezama Lima, Rulfo, Sabato.

Non è difficile capire perché fu premiato Ciro Alegría e non Onetti. Il romanzo del peruviano, realista, catalogo di disgrazie, ingiustizie, costumi e paesaggi, rappresenta un cul-de-sac in cui agonizza la vecchia tradizione del romanzo latinoamericano: fa del romanticismo sotto la maschera del realismo, nel prendere posizione e nel denunciare; l’eccellenza letteraria sembra proporzionale alla passione e alla puntualità con cui il romanzo segnala cose importanti situate al di fuori di esso, nella storia, nella politica, nella sociologia, nelle rivoluzioni, nella pampa, nella città e nella foresta, nelle razze e nei miti.

Come nei romanzi La voragine [di José Eustasio Rivera, 1924], Donna Barbara [di Romúlo Gallegos, 1929], Quelli di sotto [di Mariano Azuela, 1916], Don Segundo Sombra [di Ricardo Güiraldes, 1926], la preoccupazione di Ciro Alegría è quella di delimitare un settore della realtà latinoamericana accettata a priori in termini di bene e male, utile e inutile, bianco e nero. È per questo che, quando nel celebre concorso apparve l’ombra di Onetti vestita di grigi dubbiosi e bugiardi, non seppero premiarlo: si doveva premiare una letteratura assertiva, non una letteratura di ambiguità inquietanti.

La sensibilità del pubblico lettore dovette tardare quindici, venti anni a percorrere il cammino che separa un Mallea da un Borges, un Ciro Alegría da un Onetti. I primi erano quelli che allora leggevamo con entusiasmo. Non è impossibile che il pendolo, nella sua prossima oscillazione, ci imponga la necessità di sostituire Onetti e Borges con dei nomi appena scoperti, o ci indichi di tornare indietro, ai vecchi. In ogni caso, dal fragile ma appassionante punto di vista odierno, si verifica questa strana confluenza dei romanzi più brillanti che una generazione ha prodotto tardi – Rayuela. Il gioco del mondo di Cortázar, Il cantiere di Onetti, Paradiso di Lezama Lima, Sopra eroi e tombe di Sabato – con la generazione successiva – García Márquez, Fuentes, Vargas Llosa – che costituisce questo celebrato e bistrattato boom del romanzo latinoamericano.

Nessuno meno indicato di Onetti per partecipare a qualcosa di così spettacolare come un boom letterario. Nelle nostre lettere la creazione trasforma lo scrittore nel personaggio pubblico, prodigo di sentenze, adesioni e avventure. Ma Onetti è riuscito nel miracolo di mantenersi privato. Si sa poco di lui. Si sente dire, da amici di amici, che vive a Montevideo, dove è nato nel 1909, o che non vive più lì, che parla poco e ride meno, non discute di quei temi che ad altri del suo rango sembrerebbero vitali, fugge da interviste e dichiarazioni, per un periodo della sua vita ha lavorato come giornalista a Buenos Aires, ha letto molto e molto presto Faulkner, visto che appartiene a quella generazione che ha definitivamente smesso di temere l’onta di essere «poco latinoamericana» perché si è lasciata invadere volentieri, nel suo percorso, dalle influenze statunitensi ed europee.

Per ricordare Onetti scar­seggiano gli aneddoti che pullulano intorno agli altri scrittori: sembra uno dei suoi stessi personaggi, quasi privi del solito passato che spiega il presente, che si lasciano raccontare, invece, da una serie di gesti essenziali portati a termine in un presente dubbioso. Il presente di Onetti, necessario e tuttavia mai autobiografico – ma chi lo può sapere? – è rappresentato dalle sue opere: dodici libri di finzione, a cominciare da Il pozzo (1939) e Tierra de nadie (1941), passando per i racconti di Un sogno realizzato (1951), fino ad arrivare alla compiuta maturità del Cantiere (1961), considerato il suo capolavoro, e Raccattacadaveri (1965). Da notare che l’opera di quest’uomo intelligente include romanzi e racconti, ma esclude il saggio.

Il fatto è che l’onnipresente intelligenza di Onetti non ha una forma riflessiva e discorsiva – parlo soprattutto del Cantiere – ma al contrario si rivela incarnata, passo dopo passo, nel suo modo di ordinare immagini e avvenimenti, personaggi, situazioni, luoghi, atmosfere. Il cantiere abbandonato, dove si arrugginiscono ferri e vite, Angélica Inés, illuminata dalle candele del bersò sul fiume, il vento, vicino alla casupola di Gálvez, certi atteggiamenti di Larsen al bar, i cani che saltano attorno a una donna… Questi fantasmi in cui il suo pensiero si incarna illuminano qualcosa che non resta al di fuori del romanzo, ma è dentro di esso, che non segnala verità né significati esterni al romanzo, ma nel suo corso, nell’esperienza della sua lettura e del lasciarsi avvolgere da quella realtà fittizia parallela alla «realtà» e che, essendo parallela, non la tocca mai.

Dubito che Onetti si appassioni ai problemi sociali dei villaggi abbandonati sulle sponde del Río de la Plata. Dubito che prevalga in lui un’intenzione cosciente di parodiare l’inumanità dannata delle grandi società commerciali e industriali. Dubito che si sforzi di dotare i suoi personaggi di una stretta verosimiglianza psicologica. Dubito, anche, che ci proponga Il cantiere come una metafora per una cosmogonia o una metafisica univoche. Al contrario. In Onetti tutto è equivoco, sospettoso, polivalente. Nonostante costruisca la sua realtà parallela con dei dati reali – l’odore di fritto, il rum scadente, il grasso di un collo, il vento che fende la pampa – la sua creazione resta imponderabile, allucinata, ma sempre curiosamente lucida. Ci offre un mondo soggettivo ed espressivo mascherato, attraverso questi dati realistici, da mondo oggettivo. Il suo mondo soggettivo, dove troviamo i dati della realtà trasfigurati in cifre espressive, è il mondo del Cantiere, dove l’esasperante intelligenza onettiana, così lontana dalla saggistica e dal poetico, forgia un piano puramente romanzesco; perché Il cantiere è, soprattutto, un romanzo aperto, non circolare, che Onetti usa per scoprire o avventurarsi in quello che lui stesso e il mondo possono essere, non per proporre una teoria e dimostrarla. Dopotutto, non si scrive Il cantiere se si può riassumere il suo contenuto in un’altra cosa che non sia la sua forma precisa.

Man mano che ci si addentra nel Cantiere ci si rende conto fino a che punto la forma sia contenuto e il contenuto forma, fino a che punto la forma di questo romanzo sia saggia. Le triadi di aggettivi o di frasi aggettivali che tradizionalmente si usano per definire e chiudere, tra le mani di Onetti perdono quella facoltà superata, e lo vediamo mentre le usa per aprire il sostantivo, per imprimere la sua univoca chiarezza: il sostantivo, così, cresce minaccioso acquisendo molte possibilità, e monda le famose triadi di ogni sospetto di accademismo. A livello stilistico sono un’altra espressione della perplessità onettiana, del suo disperato, sebbene ironico, lucido umanesimo.

È attraverso il punto di vista spezzato, diviso e suddiviso, che Onetti consegue i suoi effetti più spettacolari. La fluttuazione della voce narrativa è chiara, indagatrice, a volte onnisciente, a volte del dottor Díaz Grey – un abitante di altri romanzi che compongono l’universo che l’uruguaiano ha costruito sulle sponde di un Río de la Plata immaginario, che potrebbe essere un fiume qualsiasi ma è il Río de la Plata, benché sia soprattutto il fiume dei romanzi di Onetti. Nel caso del dottore, la sua versione non è altro che uno specchio capace di riflettere parzialmente gli avvenimenti a cui lui, appena un personaggio, quasi non prende parte. Larsen è un altro punto di vista parziale, un’intelligenza contorta, ostinata e ingannevole, che si dimena con esasperazione dentro i suoi stessi limiti. Petrus, Gálvez nella sua casupola, anche loro comprendono frazioni, nonostante aspirino a impadronirsi della verità totale degli avvenimenti. Da questi diversi punti di vista, il racconto si frammenta; non si è mai sicuri se chi parla sia collocato nella realtà e nel presente, o sia il riflesso di un altro personaggio o dell’onniscienza che lo sta pensando.

Il presente stesso del Cantiere rimane dubbioso. Il tempo narrativo del romanzo, nei suoi innumerevoli ritorni su se stesso, nelle molteplici false partenze, parentesi e ritorni al punto di partenza per andare da un’altra parte e in un’altra epoca, è un altro modo di frammentare l’univoco e condurre il lettore per un cammino che sembra sicuro, ma è pieno di trappole, false prospettive (la sensazione – per il resto a volte veritiera – che le spiegazioni di attitudini e fatti non spiegati si possano trovare in altri romanzi dell’autore, o in romanzi che non ha ancora scritto), un trompe-l’œil che porta all’esasperazione, lasciando il lettore indifeso a incassare l’impatto del Cantiere. Come i personaggi del romanzo, schiacciati tra la carenza di passato e la carenza di futuro, non ci rimane altro da fare che credere e sopportare il peso del presente romanzesco di Onetti.

Probabilmente i romanzi non sono buoni o cattivi perché si iscrivono o meno in una tradizione, e non sono neanche grandi perché concludono qualcosa. La qualità è sempre solitaria, non relativa. Da qui la fallacia dei premi. Se si stabilisce la qualità in relazione ad altre cose, corriamo il pericolo di fare storia letteraria che, anche se valida, è una disciplina e non ha niente a che vedere con l’innocenza con cui il lettore deve recepire un capolavoro. Per questo è necessario fare riferimento alla forma più che alla tradizione. Voglio insistere sul fatto che Il cantiere è un romanzo immenso non perché appartiene al vero o al falso boom, non perché avvicina e chiarisce una realtà latinoamericana, non perché è una metafora della sordida incertezza dell’essere umano, non perché propone una galleria variegata di tipi umani. Credo che Il cantiere sia grande perché il suo mondo aperto ma soffocante ci convince dell’esistenza del suo tempo e delle sue fluttuazioni, perché la forma, magistralmente assemblata, dei diversi piani porta alla luce fondi e doppifondi dentro lo stesso romanzo, che sorge, in ultima istanza, come causa ed effetto, come principio e fine di se stesso, e ci illumina l’intelligenza e ci aguzza l’emozione, senza darci soluzioni ma avanzando una concatenazione di domande. Chi risponderà? Nessuno, è evidente. Nemmeno Onetti.

Chissà, forse vedremo Larsen, Angélica Inés, Petrus in altri romanzi, situati nel passato o in un falso avvenire, e troveremo in loro la chiave. Ma non importa la chiave: servirebbe solo per entrare e uscire fuori dal romanzo. E non vogliamo che questo accada.

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