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Il futuro non è nostro

redazione Racconti, SUR

El futuro no es nuestroPubblichiamo oggi il prologo all’antologia El futuro no es nuestro, curata dallo scrittore peruviano Diego Trelles Paz, che ringraziamo, e pubblicata in diversi paesi latinoamericani. Parte dell’antologia, dedicata ad autori latinoamericani nati tra il 1970 e il 1980, è consultabile qui.

«Il futuro non è nostro»
Prologo di Diego Trelles Paz
traduzione di Dajana Morelli

La novità e il presente. L’istante letterario catturato come in un’inquadratura fotografica per trasmettere la violenza del cambiamento. La possibile trascendenza, il possibile avvenire e nel mezzo di questo meccanismo incerto, l’antologista che si comporta come un demiurgo mentre, presa in prestito la frase del critico uruguayano Ángel Rama (1926-1983), si chiede segretamente: «Chi fra tutti resterà nella storia?»[1]

La domanda di Rama non è indiscreta, né pecca di impertinenza per svelare le leggi e la ragioni del genere delle antologie generazionali. Di fatto è abbastanza adatta a illustrare l’aspirazione segreta di colui che compila: i suoi criteri di valore, la forma in cui gerarchizza e delimita, raggruppa e rifiuta, cerca di trasmettere lo stato attuale della letteratura con il mirino sempre puntato verso un futuro annunciato e prefigurato da lui stesso. In questo modo, se uno dei suoi prescelti si mantiene ancora in vita nell’immaginario collettivo o se trascende con le sue opere la barriera fisica dell’esistenza, il trionfo sarà sempre condiviso tra lo scrittore popolare e colui che lo scopre, lo forgia, lo interpreta, lo presenta.

Nella storia narrativa dell’America Latina non sono poche le antologie di racconti che hanno cercato di illustrare l’attualità (storica, politica, sociale, economica, tecnologica, ecc.) attraverso i più svariati assi tematici: tuttavia, questo numero decresce in modo rilevante quando si mira alla realizzazione di un corpus regionale di autori contemporanei e rappresentativi di un dato momento storico. Una delle più lette e citate, Del cuento hispanoamericano. Antología crítico-histórica (1964) del critico statunitense Seymour Menton (1972), offre uno sguardo panoramico, piuttosto efficace per lo studente universitario, del divenire del racconto nell’America ispanofona. L’antologia di Menton svolge una funzione divulgatrice di questi progetti, sempre in nome di un obiettivo più accademico, e ordina gli autori dei diversi paesi in base ai movimenti letterari nei quali sono stati collocati dal canone critico. Nel suo testo, l’autore concepisce una radiografia dell’evoluzione formale e tematica del racconto nei nostri paesi e, come segnala Julio Ortega (1942), fa «del racconto una somma nazionale, e a volte persino regionale».[2] Così facendo, quindi, il suo interesse o punto focale non si articola intorno al presente come rottura da un qualcosa di precedente, ma in base a quanto c’è di continuo e coincidente in tutto questo processo storico.

Non è il caso di Onda y escritura, jóvenes de 20 a 33 (1971) di Margo Glantz (1930) che, pur concentrandosi solo sullo scenario messicano, a partire da un famoso racconto («¿Cuál es la onda?») di José Agustín (1944), battezza e definisce un movimento letterario di avanguardia (La Onda) dal quale i presunti integranti prenderanno le distanze fino al presente, come testimoniano le parole dello stesso Agustín pubblicate nel suo articolo «La onda que nunca existió»:

Non si trattava di un movimento letterario articolato e coordinato come gli estridentistas, i surrealisti, gli esistenzialisti, i beat o i nadaistas. Non eravamo nemmeno un gruppo senza gruppo come i Contemporáneos, visto che [Gustavo] Sainz e Parménides [García Saldaña] non sono mai stati amici e si sono frequentati assai poco. Non ci siamo mai riuniti per elaborare un manifesto de «La Onda», né abbiamo proclamato i nostri canoni. Neppure remotamente ci siamo proposti come modelli da seguire e facevamo libri per il gusto di scriverli. Condividevamo, questo sì, uno spirito generazionale per cui i primi lettori entusiasti sono stati giovani della nostra età che si sono sentiti rappresentati nei nostri libri.[3]

Se c’è una cosa che Glantz delimita con grande successo è la loro cornice temporale. Vale a dire, il fatto di raggruppare autori esordienti – e per estensione, del pubblico lettore al quale era principalmente diretto il testo – secondo un criterio pratico di età che si estende per tredici anni (dai 20 ai 33) e che non lascia il minimo dubbio riguardo la giovinezza dei partecipanti (quando vengono pubblicati, Agustín e García Saldaña hanno 27 anni e Sainz ne ha 31).

Definire uno spazio temporale segnalando i limiti di ciò che per un antologista è nuovo o giovane in termini letterari comporta sempre la debolezza dell’arbitrario, ed è per questo motivo che nella maggior parte delle antologie posteriori a quella di Glantz succedono due cose: 1) vengono utilizzati con estrema cautela termini come «generazione», «nuovo» e «gioventù», e 2) si tendono a stabilire date divisorie che non si riescono mai a rispettare del tutto. Faccio qui riferimento a questo valido antecedente per segnalare uno dei miei principali obiettivi nell’elaborare la presente selezione: il bisogno primario di stabilire una classe cronologica, non tanto perché dubiti della fondatezza delle obiezioni circa la relatività di concetti come «ciò che è nuovo» e «ciò che è giovane», ma perché ritengo che sia preferibile assumere questa limitazione metodologica nel tentativo di plasmare qualcosa che, per natura, in un mondo già radicalmente modificato nelle sue abitudini e nei suoi valori dalla tecnologia e contrassegnato dalla fine delle utopie di trasformazione politica e sociale, è percepito come sfuggevole e fugace.

Parlo, infatti, del modo di affrontare l’atto della scrittura – ciò che nella precedente citazione Agustín chiama «spirito generazionale» – di un gruppo di scrittori dell’America Latina nati subito dopo il maggio parigino del ‘68 e del massacro studentesco di Tlatelolco; educati durante le dittature militari in Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Repubblica Domenicana, El Salvador, Ecuador, Guatemala, Honduras, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù e Uruguay; adolescenti e giovani che sono stati testimoni della caduta del muro di Berlino, il massacro di piazza Tienanmen, il massacro di Srebrenica, la caduta della Perestroika e lo smembramento dell’Unione Sovietica, la fine della Guerra Fredda, la rivolta armata e la repressione militare sudamericana, la comparsa di Internet, il suicidio di Kurt Cobain, il metodico e prolungato omicidio di donne a Ciudad Juárez, l’auge della musica elettronica, il crollo delle Torri Gemelle a New York, gli attentati terroristici in Spagna e nel Regno Unito, il conflitto arabo israeliano, il carcere di Guantanamo, il genocidio in Darfur, l’elezione del primo presidente statunitense nero e, tra molti altri conflitti armati, le invasioni dell’Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica e dell’Iraq da parte degli Stati Uniti insieme a una coalizione internazionale.

La determinazione dei limiti di età, che in questa antologia include scrittori con opere pubblicate nati tra il 1970 e il 1980, si è basata su due premesse che cercherò di spiegare in questo prologo. La prima è la possibilità di differenziare questa promozione di autori da quella riunita nelle antologie McOndo (1996), Líneas aéreas (1997) e Se habla español (2000), le cui testimonianze, lette durante le giornate letterarie di Siviglia, compaiono nel libro Palabra de América[4](2003): un magnifico insieme di scrittori latinoamericani nati perlopiù negli anni Sessanta e che, definitivamente, erano giovani quando queste raccolte hanno visto la luce.

La seconda premessa è associata al titolo di questo volume, titolo di cui sono l’unico responsabile e che, così come il contenuto di questo testo iniziale, non rappresenta necessariamente l’opinione degli autori selezionati. Il futuro non è nostro nasce, in primo luogo, come risposta a una serie di malintesi associati all’idea demagogica, proclamata e ripetuta come slogan fino allo sfinimento, che il futuro appartenga ai più giovani.

Questo canto mal camuffato di sincera speranza tende a nascondere e aspira a giustificare un presente desolante: catastrofico in termini di equità e giustizia sociale, sinistro in materia di rispetto dei diritti umani, apocalittico per la salute ecologica del pianeta, cinico con gli sfavoriti dal fondamentalismo neoliberale di un mercato attualmente in caduta libera.

In una seconda accezione, Il futuro non è nostro si propone come una risposta anticipata alla domanda sul divenire letterario che si trasforma in argomento inevitabile una volta giunto il momento di fare i conti e le sostituzioni. Nella breve e intensa storia delle antologie generazionali in America Latina, l’interrogativo riguardante il futuro ha prevalso come colonna vertebrale del genere. L’inquietudine per la trascendenza o il perdurare degli autori era già presente in Novísimos narradores hispanoamericanos en Marcha (1981), selezione di Ángel Rama che precorreva i tempi, e, allo stesso modo, la formulazione di un avvenire anticipato dal presente e la sua successiva scoperta nelle nuove sensibilità di fine millennio sono la base dei due progetti antologici di Julio Ortega: El muro y la intemperie. El nuevo cuento latinoamericano (1989) e Antología del cuento latinoamericano del siglo XXI: Las horas y las hordas (1997).

Al riguardo, risulta interessante segnalare il modo in cui Ortega introduce al pubblico lettore il secondo dei suoi volumi:

Questa antologia parte da una convinzione: il futuro è già qui, e si anticipa e si precipita in alcuni testi recenti che aprono gli scenari in cui iniziamo a leggere ciò che saremo. Non si tratta di mero futurismo tecnologico, che è un calcolo di possibilità, ma di una sensibilità di fine secolo che annuncia le nuove soggettività, inquiete di futurità.[5]

La proposta di Ortega guarda con ottimismo alla proiezione di questo futuro verbalizzato, a tre anni dal cambio di millennio, attraverso racconti che

provengono dalla crisi di rappresentazione nazionale e si muovono verso lo spazio intermediatore di ciò che oggigiorno si chiama «la nuova internazionalità», vale a dire la nozione di un mondo più diverso e più internazionale, bisognoso di rete solidali capaci di resistere alle nuove egemonie.[6]

Anche se la proposta del critico era generosa nell’osservare la comparsa di questo nuovo spazio di creazione, multigenere e multinazionale, ciò che ha portato il futuro immediato si è mostrato meno benevolo del previsto. Già nel 1996, con l’uscita di McOndo,un’antologia compilata e prologata dagli scrittori cileni Alberto Fuguet (1964) e Sergio Gómez (1962), con un sano spirito provocatore e un’azzeccata selezione di racconti, sebbene limitata da una proposta teorica poco solida e un po’ balbettante per dar voce al vero cambiamento tematico, formale e linguistico che stava sperimentando la letteratura latinoamericana negli anni 90, questa «inquietudine di futurità» di cui parla Ortega sembra quasi esclusivamente legata alla figura totemica degli Stati Uniti come specchio concavo di fronte al quale lo scrittore latinoamericano del XXI secolo dovrebbe riflettersi.

Quello che Fuguet e Gómez hanno denominato il paese «McOndo» è stata una risposta energica più che al Macondo letterario di Gabriel García Márquez (1927-2014), allo stuolo di epigoni dello scrittore colombiano che tuttora vendono una versione bastarda del realismo magico in cui si mescolano magia, cucina miracolosa e folklore da asporto. Anche se l’idea principale del progetto restava interessante, e si è dimostrata addirittura coraggiosa per superare quella che Eduardo Becerra chiama «la paralisi esistente di un determinato passaggio latinoamericano che la propria narrativa ha aiutato a formare tempo addietro», il suo obiettivo barcolla e finisce per crollare perché «risponde alla omogeneizzazione macondiana con un’immagine ugualmente uniforme di un’America Latina dalla fisonomia troppo vicina a quella di qualsiasi città statunitense»[7].

Così, ciò che avrebbe potuto essere una genuina scommessa di rinnovamento stilistico e tematico, una riflessione acuta sulle nuove forme di raccontare e plasmare le contraddizioni che la modernità aggressiva stava generando nel continente, si ritrova convertita in un simulacro inoffensivo proprio di quanto Fuguet e Gómez cercavano di criticare: se nel peggior realismo magico l’America Latina è ridotta all’esotismo a richiesta del consumatore straniero e dei dipartimenti di spagnolo statunitensi ed europei, in «McOndo» questa figura deformata con la bacchetta magica è rimpiazzata dalla esclusiva realtà latinoamericana del lounge e del mall:

Se fino a qualche anno fa l’alternativa dello scrittore giovane era tra impugnare la penna o la carabina, ora sembra che la cosa più angosciante per chi scrive sia scegliere tra Windows 95 o Macintosh. […] In McOndo ci sono McDonald, computer Mac e condomini, oltre a hotel a cinque stelle costruiti con denaro riciclato e mall giganteschi. […] Tra l’altro, diciamo che McOndo è la MTV Latina, ma di carta e parole stampate.[8]

L’arrivo di Se habla español (2000), antologia in cui Fuguet ripete la ricetta, questa volta accompagnato dallo scrittore boliviano Edmundo Paz Soldán (1967), decreta il consolidamento di molti degli scrittori che erano già comparsi tanto in McOndo come in Líneas aéreas.[9] La selezione di Fuguet e Paz chiarisce sin da subito il suo carattere tematico – l’obiettivo è sì elaborare «un’antologia sugli Stati Uniti, ma [scritta] in spagnolo»[10] – ed espone un’idea abbastanza specifica di quello che i suoi autori cercano di (di)mostrare in essa:

L’idea dell’antologia era plasmare la colonia (il profumo, diciamo) dei tempi. Scrivere racconti, o testi, che, in un modo o nell’altro, captassero lo zeitgeist attuale. Sign o’ the Times, nelle parole di Prince. Una collezione che odorasse di French fries, buttered popcorn e Sloppy Joes ma anche di burritos, prodotti Goya, smoothies al gusto mango-guaiava e gelati Häagen-Dazs al dulce de leche.[11]

Sebbene Se habla español si dissoci radicalmente dalla critica al realismo magico che era stata intesa come un attacco personale a García Márquez grazie a una certa ambiguità nel prologo McOndiano e a molta ostilità giornalistica ed accademica, risulta difficile non vedere in questa raccolta una continuazione del primo progetto antologico di Fuguet. «Gli Stati Uniti – let’s face it – sono ovunque»[12], annuncia un testo che utilizza, in un modo un po’ forzato, lo spagnolo e l’inglese per andare a fondo della relazione ineludibile tra «l’America (già sapete quale America)» ed il «latinoamericano perso/intrappolato/sedotto»[13] da lei.

Con tutti i suoi vantaggi e svantaggi è tuttavia necessario rimarcare e celebrare qui un fatto incontestabile: tanto McOndo come Líneas aéreas e Se habla español sono riuscite a dare forma a una generazione di scrittori latinoamericani (e spagnoli) che, con uno sguardo proprio, sebbene con diversa fortuna, è riuscita a scrivere e a descrivere un mondo letterario ormai lontano dalle frontiere limitanti di quanto è nazionale, e il cui avvicinamento fecondo verso altri supporti e generi artistici ha aperto lo spettro della finzione per tutti coloro che, attenti e trepidanti, li seguivamo.[14] Di fronte a loro, Il futuro non è nostro si annuncia, qui e adesso, con il bisturi tra le dita e l’allegra certezza che nella letteratura, come in ogni forma d’arte, senza rotture non ci sono cambiamenti.


[1] La frase è attribuita a Rama dallo scrittore argentino Tomás Eloy Martínez (1934) nell’articolo «Por qué están los que están» comparso sul supplemento ADN del quotidiano argentino La Nación, il 5 marzo 2008.

[2] Julio Ortega (a cura di), El muro y la intemperie. El nuevo cuento latinoamericano, Ediciones del Norte, New Hampshire, 1989, pp. iv-v.

[3] José Agustín, «La Onda que nunca existió» in Revista de Crítica Literaria Latinoamericana, nº 59, Perù, 2004, pp. 13-14.

[4] La raccolta Palabra de América contiene gli interventi di queste giornate sivigliane di dodici scrittori ispanoamericani, la maggior parte dei quali nati negli anni Sessanta. D’altra parte, è necessario evidenziare che alcuni degli autori inclusi in Il futuro non è nostro sono comparsi anche in queste antologie. La ragione principale è che i confini temporali di quei progetti sono stati stabiliti con maggiore flessibilità (in generale, si è posto il 1960 come data di nascita limite).

[5] Julio Ortega (a cura di), Antología del cuento latinoamericano del siglo XXI: Las horas y las hordas, Siglo xxi Editores, Messico, 1997, p. 11.

[6] Ivi, pp. 12-13.

[7] Eduardo Becerra (a cura di), Líneas aéreas, Lengua de Trapo, Madrid, 1997, p. xxii.

[8] Sergio Gómez e Alberto Fuguet (a cura di), McOndo, Mondadori, Barcellona, 1996, pp. 13, 15 e 16.

[9] Alcuni degli scrittori messicani e colombiani che partecipano a queste antologie sono stati poi inclusi in due gruppi che non vengono analizzati nel presente prologo: il Crack messicano e la Nueva Ola colombiana. Più vicini alla curiosità pubblicitaria che alla seria formulazione di un movimento letterario; molto più attenti alla ripercussione e all’agenda mediatica che alla necessità espressiva o alla scoperta di una sensibilità comune; profondamente affascinati dal patrocinio dello scrittore riconosciuto che approva un movimento fantasma disposto ad aumentare –letteralmente: in qualsiasi modo– le vendite di romanzi nelle librarie spagnole, il Crack messicano e la Nueva Ola colombiana non possono essere prese in considerazione con serietà in questo testo.

[10] Alberto Fuguet e Edmundo Paz Soldán (a cura di), Se habla español. Voces latinas en «USA», Alfaguara, Miami, 2000, p. 14.

[11] Fuguet e Paz Soldán, op. cit., p. 15.

[12] Ivi, p. 14.

[13] Ivi, pp. 14 e 17.

[14] Utilizzo, qui e in altri passaggi del testo, la prima persona plurale (noi) perché Il futuro non è nostro è un progetto bipartito fatto e concepito da scrittori. La prima sezione è elettronica e di libero accesso. È formata da 63 autori di 16 paesi. È stata pubblicata nell’agosto del 2008 sulla rivista colombiana Pie de Página.

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