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Sulle tracce di Clarice Lispector / 2

Pubblichiamo oggi la seconda parte di una crónica della scrittrice cilena Andrea Jeftanovic, che si è messa sulle tracce di Clarice Lispector. L’articolo è uscito su Letras Libres [1], che ringraziamo. Qui [2] potete leggere la prima parte.

di Andrea Jeftanovic
traduzione di Giulia Zavagna

[Leggi qui [2] la prima parte della crónica]

Il giardino dei sentieri che si biforcano

Ho seguito le tracce di Clarice Lispector da Barcellona a Rio de Janeiro, nei suoi libri, negli studi sulle sue opere, nei materiali inediti, nella sua città. Quando ho iniziato a leggerle, ero giovane e single, ora sono adulta, sono sposata e ho due figli, come la donna che fugge per la città nel magistrale racconto «Amore». Anche io sono una donna di casa, tra le altre occupazioni, e ora sto prendendo un autobus diretto al Jardim Botanico cercando un cieco che mastica una gomma. Sì, come la protagonista Ana, che mentre torna dalla spesa si siede per caso di fronte a un cieco che mastica una gomma, e basta questo a causare una rottura nella sua vita tranquilla. Da quel momento, l’abisso, i dubbi dell’età adulta. La sensazione d’amore per il cieco e per la vita la sopraffanno al punto da lasciar cadere le uova dalla borsa e restare paralizzata in mezzo a un gruppo di passeggeri che la osservano straniti. La protagonista perde la sua fermata e scende all’ingresso del Jardim.

Il mio autobus si ferma per qualche minuto al centro commerciale Botafogo, e salgono una decina di persone adulte. Io continuo a cercare il cieco che mastica una gomma. Un uomo con retine bianche e mandibole battenti. Costeggiamo la lagoa e incontro solo un miope con degli enormi occhiali correttivi e due ragazze giovani dalle mascelle cadenzate che parlano veloci. Spero nel Jardim. Quando imbocchiamo il viale, prenoto la fermata e scendo dalla porta sul retro.

Il Jardim Botanico è forse una delle oasi naturali più impressionanti al mondo. Di gran lunga superiore, secondo me, a Central Park di New York, o a Hyde Park a Londra. È un parco che ha duecento anni, con cinquantacinque ettari di alberi, orti, serre, un lago e un giardino sensoriale pensato per persone con problemi agli occhi. Avanzo lungo calle de las Palmeras attraversata da vari chiaroscuri, giro intorno alla Palma Imperiale. Man mano che procedo, i sentieri diagonali si biforcano, spargendo i cartellini con i nomi scientifici delle piante: Roystonea oleracea, Theobroma cacao L., Mangifera indica. Si sentono i timidi rumori di animale e insetti in agguato nel Río de los Macacos. Cala la sera e appare un tamandua, uno di quei formichieri dal muso allungato, che riesco al volo a fotografare sotto lo splendido albero di Ipê-roxo. Centinaia di grilli pullulano nei dintorni del Lago Frei Leandro. Chiudo gli occhi nel giardino sensoriale e seguo i puntini del braille che spiegano le specie vegetali senza riuscire a far altro che accarezzare papaveri, e da una parte, come una trappola, un cactus, le sue spine pungono le punte delle dita come un piccolo castigo.

Quale sarà la panchina dove si è seduta Ana e ha lasciato scorrere il suo fiume personale?

La morale del Giardino era un’altra. Ora che il cieco l’aveva guidata fin là, rabbrividiva alla soglia di un mondo scintillante e torbido, dove le –régias , enormi ninfee, galleggiavano mostruose… Ma tutte quelle cose gravi lei le vedeva attraverso uno sciame di insetti venuti dagli spazi più sottili dell’esistenza… Il Giardino era tanto bello che lei ebbe paura dell’inferno.

Clarice Lispector non solo scrisse di donne di casa, ma anche di bambini e animali. Bambine illuminate. Animali mistici.

 

Tutti i fiumi portano al mare

Clarice Lispector non trascorse tutta la vita a Rio de Janeiro. Si sposò con un compagno dell’università, Maury Gurgel Valente, con cui ebbe due figli, e che seguì nel suo lavoro di diplomatico in Italia, Svizzera e Stati Uniti, fino alla separazione avvenuta nel 1959, quando tornò in Brasile. In quegli anni consolidò i legami con la sua città attraverso un’estesa corrispondenza con le sue sorelle e le amiche.

Parallelamente tracciò una Rio immaginata, di cui aveva nostalgia, abbozzata, scritta nei suoi personaggi. E anche un altro rio, un fiume interiore. Sfilava il fiume personale dei suoi personaggi, le cui coscienze e desideri fluivano dalle caverne della sua psiche. Una cartina di Rio de Janeiro e una cartina di soggettività si incrociano nell’affluente dei suoi personaggi, nella sorgente infinita delle loro coscienze, nella scoperta della bellezza nel quotidiano, l’impatto della trivialità, in quell’arduo processo di conquista della libertà, che è sempre una nuotata controcorrente.

Nei suo girovagare, nella fase da donna separata, di ritorno a Rio, appare il suo angolo preferito della città: il Largo do Boticário. Un passaggio con sette case ottocentesche e la vegetazione esuberante della foresta atlantica, che si trova a pochi metri dalla salita al Corcovado, nel quartiere di Cosme Velho, che vale la pena visitare. Lì viveva il suo amico artista Augusto Rodrigues, lì cenavano, bevevano, era il suo spazio bohèmien. Ci sono passata tante volte da fuori, senza sapere nulla di quella piazzetta circondata da casermoni incomprensibilmente abbandonati tra le felci. Spio attraverso le finestre le prove di un antico splendore.

In quel periodo consolida la sua attività di giornalista su diverse testate, scriverà parecchio di quello che le succede nel suo girovagare per la città. Perché la Clarice vera si muoveva in taxi e conversava con gli autisti. Lo definiva il suo capriccio borghese. Molte delle sue crónicas raccontano quelle brevi interviste, sembra che, in ogni istante, stesse analizzando l’anima. Nel tragitto da Leme al centro imperiale della città era solita chiedere: «Che cos’è per lei l’amore eterno?», «Si è mai ustionato?»; tra il Museo Nazionale e il suo vecchio quartiere di Catete: «Ha sentito la morte nella sua stanza?», «Come ci si dimentica di qualcuno che fa soffrire?»

Ora il viaggio lispectoriano mi porta lontano, in una zona fuori dal centro turistico. Tre autobus, uno sbagliato, quattro persone che mi danno indicazioni e mi fanno perdere la strada. Cammino per viali di terra battuta sotto il sole furioso di mezzogiorno. Tutto questo per arrivare fino a São Cristovão, un quartiere vicino all’aeroporto, più rurale e povero. È inutile essere ingenui, ogni città ha il suo risvolto della medaglia. Da qui osservo la funivia che offre un percorso nelle favelas per turisti alla ricerca di un «set» di qualche film terzomondista. Alla fine, trovo il cancello della Feria Nordestina de São Cristovão dove cerco Macabea, la timida protagonista dell’Ora della stella, la ragazza semianalfabeta che lavora come dattilografa e vive in un’infima pensione. Rio può essere intimidatoria per una ragazza di provincia, e lei cerca fra le bancarelle di questa festa popolare qualcuno che parli con il suo accento, che balli la sua musica. Inevitabilmente, quella che sto cercando è la ragazza minuta e dalla pettinatura all’antica che era stata protagonista dell’adattamento cinematografico di Suzana Amaral. La cerco nella piccola locanda dove mi prendono per gringa e mi parlano in inglese, e dove riesco a comprare un acarajé bahiano tutto unto.

Qual è stata la verità della mia Macabea? Basta scoprire la verità perché la verità non esista più: il momento è passato. Chiedo, cosa esiste? Risposta: non esiste.

Seguo le tracce del mio percorso carioca. A qualche metro di distanza, nei dintorni di São Cristovão, c’è lo zoo della Quinta da Boa Vista. Mi sembra strano entrare in uno zoo senza i bambini che vogliono vedere l’elefante o la giraffa, o che mi chiedono compulsivamente zucchero filato e pop corn. Passo una gabbia dopo l’altra senza prestare molta attenzione alle specie in mostra perché quello che cerco è il bufalo, seguendo i passi della donna del racconto «Il bufalo», che decide di superare una delusione amorosa di fronte all’animale rinchiuso. Come si fa quando qualcuno non ti ama più? Il crimine può essere non amare in modo corrisposto. La protagonista implora amore e odio alla bestia ma questa le restituisce solo uno sguardo calmo, e lei si sente travolta dal desiderio di commettere un omicidio.

 

Archivi e macchie

Clarice LispectorUna mattina mi immergo negli archivi della Fundação Casa de Rui Barbosa. Di fronte al palazzo dell’archivio c’è un tranquillo giardino pieno di bambini nel bel mezzo del quartiere Botafogo. Ho preso appuntamento con anticipo e mi assegnano un tavolo con matita e fogli di carta riciclata formato A4. Sono stata qui dieci anni fa e so che ora hanno sbloccato materiale nuovo che chiedo in consultazione. I nuovi documenti appaiono uno a uno: l’atto di divorzio di comune accordo e la pensione che garantisce che un terzo dello stipendio del marito vada alla moglie. Nella pagina successiva, c’è la lettera dell’ex marito diplomatico, che chiede a sua madre di dare una mano a Clarice al suo ritorno a Rio de Janeiro e di trattarla «come se non fosse successo nulla», che lei e i bambini avranno bisogno del suo aiuto. Di sé racconta di essere tranquillo, ma non si pente di quegli anni di convivenza, «se tornassi indietro farei la stessa cosa». Ci sono anche lettere di editori stranieri che le fanno i complimenti per la sua opera, ma che si astengono dal pubblicarla o le fanno sapere che gli aneddoti che racconta sono banali; nessuno sospettava che la si sarebbe paragonata ai filosofi più significativi del Novecento.

Che cosa cercava Clarice Lispector? Lo verbalizzò in vari scritti: «Pegar a coisa» (arrivare alle cose). Un veemente desiderio di raggiungere il nucleo delle cose, di captare l’«it». Una costante riflessione sul linguaggio e, in particolare, sui limiti della parola; lei stessa lo descrisse così:

La parola ha un limite terribile. Oltre questo limite cè il caos organico. Dopo la fine della parola comincia il grande grido eterno.

Ci sono anche molte foto. Nel corso degli anni queste immagini sono diventate per me familiari. In tutte lei è magra, con un volto dai tratti cubisti, gli occhi grandi, le palpebre delineate, gli zigomi alti e brillanti. Il bel ritratto che le fece De Chirico. La foto con il suo cane Ulises ai piedi, mentre digita sulla macchina da scrivere. O l’altra immagine, in cui inclina la testa per annusare l’aroma di un fiore in sud Italia, e si delinea la sua fronte curva. In un cappotto con il colletto in pelle, e, sullo sfondo, i figli che giocano con la neve a Washington DC. Le sue lunghe gambe sugli sci in un centro invernale in Svizzera, o con un fazzoletto in testa, in Polonia, che le dà un’aria da contadina russa. Tra alcuni oggetti c’è un pettinino per capelli che le manda in dono la scrittrice di São Paulo Lygia Fagundes Telles; me lo provo come se quel gesto mi permettesse di prendere qualche filamento del dna dell’amicizia tra le due scrittrici.

Donna enigmatica, intorno a lei girano tante leggende: che fu ricoverata in istituti psichiatrici, che aveva letto poco o che era una lettrice raffinata. Che era intontita dai farmaci, che era nevrotica, insopportabile, incantevole, solitaria e dipendente. Che era sempre circondata da amici, che non andava sola nemmeno al cinema. Che era l’amante di Olga Borelli, la sua segretaria e amica intima. Che costruì amori impossibili nella sua vita da donna separata. Per esempio, esiste un aneddoto crudele secondo il quale, prendendosi in giro da sola, chiarisce al direttore del giornale in cui lavora le sue difficoltà nell’intraprendere una relazione di coppia: «Non capisci, io non posso fare sesso con nessuno, ho tutto il corpo bruciato».

Del suo lato materno conosciamo la stretta relazione che aveva con Paulo, il figlio minore, esiste un’abbondante corrispondenza tra loro nel periodo che il figlio trascorre negli Stati Uniti con il padre. Lettere affettuose, piene di benedizioni, scherzi e consigli lispectoriani: «Paulo, il sentimento della solitudine è uno dei più difficili da vivere, ma tu saprai trarre vantaggio da questa esperienza. Vedrai». E allo stesso tempo, gelosa, gli chiede di non abituarsi troppo alla sua «famiglia americana». All’epoca Maury Gurgel aveva una seconda moglie. Gli racconta che Pedro, l’altro figlio, non sta per niente bene, e che questo le toglie la gioia di vivere. E si congeda dicendogli: «Tu sei il miglior libro che io abbia mai scritto, su questo non c’è dubbio».

Dei suoi amori si sa poco. Una relazione proibita sembra averla delusa; il materiale al riguardo è ancora disperso o chiuso da qualche parte. Non so perché mi viene in mente la voce di Joana, la misteriosa protagonista del suo primo romanzo:

Cercare la base dell’egoismo: tutto ciò che non sono non mi può interessare, è impossibile essere al di là di ciò che si è – eppure io mi oltrepasso anche senza il delirio, sono senza nient’altro che me stessa, così normalmente –, ho un corpo e tutto quel che faccio è proseguimento del mio inizio.

Clarice LispectorÈ il 1969 e la sua calligrafia è cambiata, il suo stile di redazione anche. Dice che è mentalmente affaticata. Che scrive male e a mano perché i medici le hanno detto di esercitarsi dopo l’incidente. Le lettere dei suoi amici cercano di contenerla durante le sue crisi nervose e attacchi di depressione; è evidente che naviga in un oceano di angoscia. E come un’ulteriore prova di quel periodo difficile spicca una nota scritta a mano di Maria Bonomi: «Clarice, solo gli stupidi riescono a essere felici, la felicità è una promessa del capitalismo». In un foglio conservato nell’archivio, proveniente forse da un quaderno di appunti dei suoi progetti, dice riguardo alla correzione del suo libro Acqua viva: «Abolire la critica, la critica prosciuga tutto». D’improvviso un disegno su un cartoncino di trenta centimetri per venti. Dipingeva? Un disegno dai colori terrosi e dalle forme prolungate tra i documenti.

Sorrido, rido in quest’affluente intimo.

E quando il mistero della sua vita e della sua opera si riassume in costanti ritrovamenti e incontri mancati, mi imbatto nel risultato del test di Rorschach realizzato dalla psicoanalista Clarisa Valente, otto pagine scritte a macchina in francese. Perché un documento così personale figura tra i materiali di pubblica consultazione? Perché è scritto in francese? Quello che dice il test non è quello che ha sempre detto la critica letteraria? Immagino i suoi esotici occhi verdi descrivere le forme delle macchie del test. Macchie, dice il relazione, che alludono a un’intelligenza superiore. Macchie per indicare i molteplici talenti e le lotte interiori. Macchie che concentrano energia e precisione. Macchie che indicano che deve regolare la funzione logica. Si è soliti dire che la perseveranza è una ricchezza. Una macchia scura per abbozzare un carattere capriccioso ed egocentrico. Nella sua relazione con il mondo si raccomanda di far convergere le intenzioni, non perdere alcun dettaglio. Oscillare tra i grandi valori e l’intuizione artistica e l’astrazione scientifica. Capacità di contemplare e pensiero plastico. Riprendo in mano il disegno che ho trovato come se lei stessa avesse dipinto alcune delle schede del test. Si intuisce un costante intervallo degli affetti, che cosa vorrà dire? Forse significa amare come qualcosa di discontinuo. Bisognerebbe chiedersi dove si trovano i risultati di tutti i test di Rorschach che sono stati fatti come terapia, nei colloqui di lavoro. Bisognerebbe incendiare la costanza delle nostre miserie e dei nostri dolori.

Desistere dalla nostra anormalità è un sacrificio.

 

© Andrea Jeftanovic, 2015. Tutti i diritti riservati.

Andrea Jeftanovic è nata a Santiago de Chile nel 1970. Scrittrice, saggista e docente, è autrice dei romanzi Escenario de guerra (Alfaguara, 2000; Baladí, 2010) e Geografía de la lengua (Uqbar, 2007), e della raccolta di racconti No aceptes caramelos de extraños (Uqbar, 2011). Su Twitter è @ajefta [3].