TomMcCarthy

Tradurre Tom McCarthy

Anna Mioni SUR, Traduzione

Abbiamo chiesto ad alcuni traduttori di raccontarci la loro esperienza al lavoro su un autore o un’opera in particolare. Oggi Anna Mioni ci parla di Tom McCarthy. Buona lettura!

di Anna Mioni

[epigrafe algoritmica: se ti piacciono DeLillo, Pynchon, Vonnegut, Bolaño, dovrebbe piacerti anche McCarthy]

Lo scrittore e artista d’avanguardia londinese Tom McCarthy, due volte finalista al Booker Prize, è un veterano delle provocazioni ai confini tra letteratura e arte: alla fine degli anni Novanta ha fondato la Società Necronautica Internazionale, per creare un linguaggio di avanguardia e «fare per la morte ciò che i surrealisti hanno fatto per il sesso». Su Prismo si può leggere un’interessante retrospettiva di Gianluca Didino sulla sua carriera. L’ambito letterario in cui ci muoviamo è quello post-moderno, nel quale la scrittura è sempre parallelamente riflessione sulla filosofia dell’arte. I suoi romanzi sono caratterizzati da una fortissima intertestualità, ma sono sempre giocati in modo che i riferimenti siano al tempo stesso comprensibili a chi è in grado di farlo, e del tutto neutri per chi non li riconosce e li legge come una semplice opera di narrativa. Lo stratagemma è quello di accavallare informazioni fino a produrre un’interferenza, un’altra tematica fortissima nella narrativa di McCarthy.

Il motivo per cui mi trovo in forte sintonia con il suo stile e la sua scrittura è la mia mentalità sostanzialmente positivista e razionale, dovuta a una formazione in parte anche scientifica: non sono tra quelli che si sono iscritti a Lettere perché avevano problemi con la matematica, e i numeri e la logica per me continuano a rivestire un certo fascino, e a essere un ambito in cui mi sento a mio agio. Martina Testa anni fa definì felicemente il mio metodo di traduzione «scientifico e indagatorio» e credo che questo mi aiuti a lavorare su una prosa come quella di McCarthy. Mi aiuta anche la comunanza di riferimenti generazionali (siamo coetanei) e culturali (abbiamo gusti musicali, letterari e artistici in comune). In ossequio al suo stile, qui riassumerò, campionerò e remixerò varie riflessioni fatte nel corso del tempo sulla mia esperienza di traduzione dei suoi libri.

Ho cominciato a tradurre McCarthy dal primo libro pubblicato, Remainder, in italiano Déjà-vu (ISBN edizioni 2008 e 2013), che in realtà risale al 2001, quando era solo un artista e ancora inedito come scrittore. Nel 2005 Metronome Press, un editore francese di libri d’arte, lo pubblicò e lo distribuì nei bookshop dei musei; lì fu scoperto e ristampato da Alma books, editore indipendente inglese che lo portò alla fortuna internazionale, finché nel 2008 Zadie Smith lo indicò come l’esempio della nuova strada del romanzo. È stata un’esperienza unica quella di calarmi nei panni di un uomo che ha subito un misterioso incidente, è rimasto a lungo in coma e, pur essendosi ripreso appieno, continua a essere preda di flash e pensieri ricorrenti. Era fondamentale rintracciare quelle ricorrenze nel testo e riprodurle con la stessa terminologia. Un’operazione che, se avessi tradotto il libro quando non si poteva lavorare con il computer, mi avrebbe richiesto giorni interi di controlli.

Tom McCarthy è uno scrittore profondamente innamorato della parola come forma d’arte e questo libro lo dimostra in pieno. Le scelte lessicali sono ricercate e precise, con un certo gusto per il gioco di parole e il calembour. I dialoghi sono serrati e cinematografici, come anche il taglio visivo sulle azioni: infatti da Remainder nel 2015 è stato tratto anche un film diretto dal regista israeliano Omer Fast. Il romanzo è l’epitome dello stile di McCarthy, in cui le parole ne contengono e ne richiamano altre in continuazione: lui stesso si è paragonato a un DJ che campiona la letteratura e la remixa e Remainder è già un esempio evidente, anche per quanto riguarda la costruzione di catene di parole che creano richiami fonetici e sintattici nel corso di ciascun libro. Memorabile in questo senso è il primo capitolo, nel quale si racconta dell’accordo di risarcimento che rende ricco il protagonista: l’autore gioca con le combinazioni della parola settlement, e dei suoi elementi costitutivi (il verbo set nelle sue varie accezioni). Ho scelto di tradurlo con la parola accordo, il verbo accordarsi e altre parole che contengono la stessa radice (corda, ecc.); McCarthy, con cui mi sono sempre confrontata mentre lavoravo ai suoi testi, ha approvato la soluzione, osservando che introduceva un’assonanza con la cordite, altro elemento chiave del libro, assente nel testo inglese: un caso felice in cui la traduzione aggiunge nuovi collegamenti all’originale.

Il secondo libro uscito in Italia ma il primo scritto da Tom McCarthy, Uomini nello spazio, (Isbn Edizioni 2009), Men In Space, è un romanzo corale, a più voci, espresse in segmenti separati da pause grafiche; è scritto in inglese, ma parlato anche in altre lingue, essendo ambientato nella cerchia degli stranieri residenti a Praga, dove effettivamente l’autore ha vissuto in gioventù facendo il modello per le accademie di belle arti. La coralità mi ha richiesto di calarmi nelle voci dei vari protagonisti come se recitassi una parte. In alcuni punti mi sono trovata a tradurre un testo nel quale i personaggi parlano passando dal ceco all’inglese, con errori tipici dei quali ho dovuto trovare equivalenti italiani. Il nucleo principale del libro è quello che segue da vicino il protagonista semi-autobiografico Nick Boardaman a Praga e ad Amsterdam: qui il tono è generalmente neutro e descrittivo, e in terza persona, così come nei brani incentrati su Anton, Helena e la banda di malavitosi bulgari. In entrambi si verifica il plurilinguismo a cui accennavo. Altre due sezioni in terza persona hanno come protagonisti un cineasta sperimentale e un’insegnante di inglese; in questo caso, la lingua usata dall’autore riflette in pieno il personaggio: è il prototipo dell’americana ingenua di provincia, che vorrebbe apparire alternativa e sofisticata, ma in realtà è conservatrice e ignorante, e tale l’ho resa anche in italiano. Le due voci narrative in prima persona, invece, riguardano le lettere scritte al fidanzato dal gallerista Joost (un quarantenne gay sarcastico, ipercolto, un po’ camp, come la lingua in cui si esprime) e i rapporti che redige il poliziotto intercettatore (una voce formale, pedante, che usa una terminologia burocratica). Un totale di sei toni diversi su cui ho dovuto modulare la mia traduzione: sei (e più) personaggi in cerca di traduttore.

In questo romanzo comincia a essere ancora più evidente l’amore di McCarthy per la specificità tecnica e artigianale: uno dei protagonisti, Ivan Manásek, è un artista d’avanguardia che all’occorrenza sa copiare le icone antiche, e ci regala pagine su pagine che descrivono questa tecnica e mi hanno costretta a lunghe ricerche sui nomi dei colori e le tecniche pittoriche.

Il suo terzo romanzo, C, (Bompiani 2013, finalista al Man Booker Prize 2010, al Walter Scott Prize, e al premio Gregor Von Rezzori) è zeppo di richiami a teorie letterarie che vanno da Barthes a Derrida, a Joyce, a Blanchot, ai ricorsi di Vico, al caso clinico dell’Uomo dei lupi di Freud, mimetizzati perfettamente dentro un romanzo storico dall’impianto narrativo tradizionale. Ancora una volta l’autore gioca a rimpiattino con il lettore colto.

La vicenda è infarcita di particolari dettagliatissimi e di richiami fonetici e semantici: due catene sonore stanno al fondo di tutto il libro, quella della C del titolo (che sta per il simbolo del Carbonio nella tavola periodica) che si ripete anche nei titoli dei capitoli, nell’onomastica dei protagonisti e in vari altri riferimenti; e quella di insect > ink set > incest > inset > in sections, tutti nomi di oggetti e situazioni chiave del romanzo, che poi ritorneranno intersecati e amplificati nell’ultima scena, la morte del protagonista, che si svolge durante il sogno febbrile di un matrimonio incestuoso con la sorella, tra gli insetti, sullo sfondo di una serie di interferenze radiofoniche; e infatti secondo Tom McCarthy il ruolo che spetta allo scrittore oggi è simile a quello della radio: «Non essere la persona che origina il segnale, ma quella che lo riceve e lo remixa».

Il compito più arduo non è stata tanto la traduzione in sé, quanto piuttosto le ore dedicate a decrittare la parte dei riferimenti scientifici, sui quali il libro non riportava alcuna nota. In quei mesi sono diventata un’esperta in radiotelegrafia degli esordi, notazione scacchistica arcaica, egittologia, chimica, entomologia, botanica, aerei, armi e uniformi della prima guerra mondiale… Prima dell’avvento di internet, una traduzione di questo tipo avrebbe richiesto mesi di consultazioni in biblioteca e con esperti.

Satin Island (Bompiani 2016). Anche questo libro è stato finalista al Man Booker Prize e in copertina è definito, per esclusione, un trattato, una descrizione, un reportage, un saggio, un romanzo, un manifesto, ma in realtà è tutte queste cose insieme e si beffe delle convenzioni letterarie, dei personaggi e della trama. U., antropologo culturale in una grossa azienda non meglio definita, viene incaricato dal suo capo di produrre una Grande Relazione che fotografi la totalità della nostra epoca. Il testo cita per esteso interi brani di Tristi Tropici di Claude Lévi-Strauss, tra gli altri, e tiene ben presenti Shakespeare, Debord, de Certau. E infatti il fascino che prova McCarthy per l’antropologia è ben descritto in questo articolo pubblicato in parallelo all’uscita del libro, dove spiega parte delle letture che l’hanno ispirato.

Satin Island è il suo libro più italiano, perché parte dalla Sindone di Torino e dal suo aeroporto, Caselle (come simbolo dello hub, uno dei concetti chiave del romanzo) e si sposta a Londra, New York, e a Genova, dove Madison, la ragazza di U., rievoca i tristi episodi della scuola Diaz durante il G8 del luglio 2001, con alcune aggiunte immaginarie e surreali.

La Grande Relazione che U. dovrebbe scrivere, e che non riesce a completare perché continuamente distratto dall’osservazione delle sequenze, dei loop e delle coincidenze che si ripetono nella quotidianità, è metafora intera della vita dell’uomo contemporaneo e probabilmente anche della letteratura. La nostra vita è come il circolino che ci ruota davanti agli occhi mentre aspettiamo che un video o una pagina internet si carichino sui nostri schermi; come un’attesa perenne, sospesa in un limbo roteante. Possiamo rimixarla a nostro piacimento tagliando e reincollando pezzi, o riavvolgendoli all’infinito, come fa il protagonista con la scritta dell’imbarcadero newyorchese di Staten Island, a cui si ispira il titolo del libro. Anche qui la difficoltà nel tradurre, più che stilistica, è stata di precisione terminologica, di ricerca documentale, e di riproduzione delle varie catene di richiami semantici, che non sempre in italiano possono coincidere con le omofonie inglesi.

Leggere McCarthy è una sfida molto interessante per il lettore italiano, spesso troppo diffidente nei riguardi del sapere scientifico. Non escludo che il motivo per cui il pubblico del nostro paese stenta ad affezionarsi a questo autore (i critici, invece lo adorano, soprattutto i più giovani) risieda proprio nei retaggi della nostra cultura umanistica, dove le lettere e le scienze continuano a restare antitetiche e ci si fa un punto d’onore di permettere raramente che si incontrino nelle nostre discussioni e riflessioni sull’editoria e sulla letteratura.

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