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Octavio Paz nelle parole di Carlos Fuentes

[1]Carlos Fuentes, Marie José Paz, Octavio Paz e Jorge Bianco (1966)

Nell’aprile del 1998 moriva Octavio Paz: con queste parole lo ricordò Carlos Fuentes, celebre autore messicano che condivise con Paz anni di profonda amicizia e impegno letterario e politico, retti da mutua stima e non privi di dissapori. Il testo apparve originariamente su El País il 13 maggio del 1998.

“Il mio amico Octavio Paz”
di Carlos Fuentes

Traduzione di Giulia Zavagna

«Non voglio cominciare questa conferenza senza un omaggio al grande poeta e saggista messicano Octavio Paz. La sua opera abbraccia e arricchisce la cultura del nostro secolo. E vivrà anche dopo la sua morte. Un grande scrittore come Paz è guardiano e testimone, insieme ai suoi lettori, della propria immortalità». Con queste parole ho dato inizio al mio intervento presso la Fiera del Libro di Buenos Aires, alla notizia della morte di Paz. Eppure, proprio ieri sera, due distinti amici messicani con cui stavo cenando a Londra mi hanno detto: non basta. Il tuo discorso in Argentina ha avuto una scarsa diffusione in Messico. Scrivi qualcos’altro su Octavio.

Qualcos’altro? Non credo vi sia uno scrittore messicano che abbia scritto più di me su Paz. Conferenze, prologhi, memorie, difese pubbliche, discorsi, saggi. Ho seguito con attenzione l’opera di Paz per trent’anni. E lui ha corrisposto l’interesse con saggi sui miei libri, prologhi e una splendida poesia. A questo si aggiunga la mia corrispondenza con Paz, che ammonta a più di mille lettere scambiate nel corso di tre decenni e che sono depositate nella biblioteca di un’università statunitense. Julio Ortega, l’unico che ha letto la corrispondenza nella sua interezza, la descrive come «la commovente testimonianza di un’amicizia». Ho stabilito che le lettere scambiate con Octavio restino sigillate fino a cinquant’anni dopo la mia stessa morte, quando l’intimità, la franchezza, i dissapori, l’affetto e gli insulti che inevitabilmente punteggiano uno scambio tanto quotidiano e intenso non feriranno nessuno e potranno solo affaticare i biografi.

Conobbi Octavio a Parigi, nell’aprile del 1950, quando io avevo ventun anni e lui trentacinque. Diventammo subito amici. Io arrivavo dal Messico in preda a una grande ammirazione per lui, alimentata dalla lettura del Labirinto della solitudine prima, e di Libertà sulla parola subito dopo. Due titoli che segnarono il battesimo della mia generazione. Il labirinto riassumeva la viva preoccupazione circa le caratteristiche di ciò che definivamo «messicano». Alfonso Reyes in La x en la frente e Samuel Ramos in Perfil del hombre y la cultura en México avevano preceduto l’interrogativo di Paz; il «grupo Hiperión» della Facultad de Mascarones l’avrebbe portato avanti; i nazionalisti piatti e sciovinisti vi avrebbero invece messo fine: «Leggere Proust è prostituirsi», si sentì dire un giorno in una conferenza presso il Palacio de Bellas Artes: mancavano solo i sarape tradizionali.

Paz consegnava alla mia generazione una grande visione conciliatrice del Messico e del mondo, come aveva fatto Reyes prima di lui. Reyes: «Dobbiamo essere generosamente universali per essere fruttuosamente nazionali». Paz: «Per la prima volta nella nostra storia, siamo contemporanei di tutti gli uomini». L’opera di Paz avrebbe presupposto quella di Reyes. A Reyes toccò proporre un’universalità includente in mezzo a un nazionalismo escludente. L’incommensurabile opera di don Alfonso consistette nel tradurre in termini ispanoamericani la totalità della cultura dell’Occidente. Le sue meditazioni sulla Grecia o su Goethe, su Góngora o su Mallarmé, privarono di «estraneità» un patrimonio che avevamo ereditato. Furono l’antidoto allo sciovinismo spicciolo, ma anche il complemento indispensabile alla rivoluzione come rivelazione di cui furono protagonisti gli Orozco e i Rivera, i Chávez e i Revueltas, i Martín Luis Guzmán e i Rafael Muñoz.

Il mio rapporto con Reyes fu quasi filiale. Andavo spesso a fargli visita a Cuernavaca, e fu così che imparai a leggere ciò che ancora mi mancava tra i quindici e i vent’anni. Arrivai preparato da Reyes a un altro rapporto, questa volta fraterno, con Paz. Don Alfonso era solito dire che per lui il mondo era finito il giorno di febbraio del 1913 in cui suo padre, il generale Bernardo Reyes, era morto trafitto da una sfilza di proiettili nello Zócalo di Città del Messico. Dal punto di vista letterario, gli interessava più il passato che il presente. Il suo gusto era ben delimitado, Proust, Joyce e poche altre cose. Detestò il mio La regione più trasparente. Lo ringraziai per la franchezza e tengo viva la fiamma del mio amore e della mia gratitudine nei confronti del miglior prosista in lingua spagnola della prima metà del secolo.

Fu Paz il miglior prosista della seconda metà? Tale affermazione potrebbe senza dubbio prosperare. La sua poesia, dicono alcuni, non è all’altezza della sua prosa. Paz non fu Neruda né Vallejo e forse nemmeno Gorostiza, Villaurrutia o López Velarde. Ma senza il complemento poetico di Libertà della parola, Pietra di sole o Semillas para un himno, è difficile che si comprenda, o addirittura che nasca, un dire poetico riflessivo, metafisico a volte, altre volte spiritoso, rabbioso in alcuni grandi momenti. Il verso «che strillino, puttane» diretto alle parole si innalza poi alla notte che a sua volta «cade… su Teotihuacan» dove «in cima alla piramide i ragazzi fumano marijuana» e «suonano chitarre roche». E la cenere della sigaretta e del vulcano discende a sua volta su quel tavolo dove nonno e padre possono ricordare Juárez e Zapata, ma noi, chi possiamo ricordare?

La grande abilità di Paz fu quella di fornire la poesia di pensiero e il pensiero di poesia. Contagiò la sua prosa di lampi metaforici e la sua poesia di lucidità discorsiva. Forse questa fu la sua particolarità, essendo, come tutti i grandi creatori, erede di una tradizione. Probabilmente i poeti moderni in lingua spagnola cui Paz fu più debitore furono Jorge Guillén ed Emilio Prados. Carlos Blanco Aguinaga ci deve, al riguardo, un bello studio comparativo.

La poesia si eredita, si rifonda, si fa e si disfa, ma si vive anche. Paz, il giovane Paz che conobbi nel 1950, voleva vivere poeticamente. Subiva il peso dei suoi obblighi diplomatici ma li rispettava con rigore. Il «Come?» che costellava il suo discorso era un interrogativo al padre, un rimprovero e un’invocazione insieme, ma soprattutto una ricerca di approvazione finale. La rabbia che gli suscitavano le imperfezioni del linguaggio era simile alla rabbia per le insopportabili perfezioni del denaro e della fede. Il simbolo del dollaro e il segno della croce sono oggetto di furia e scherno nella sua poesia giovanile. Il denaro, fisicamente, gli consumò le mani nel duro periodo in cui lavorò per il Banco de México contando le vecchie banconote destinate all’inceneritore. Octavio, fisicamente, incendiò il denaro. In un’altra epoca, il denaro incendiò lui?

Percorremmo insieme la Parigi della nostra giovinezza, una capitale esternamente immune alla guerra, ma con persistenti carenze nelle cose della vita quotidiana, riscaldamento, luce, telefoni, benzina. Octavio aveva un bell’appartamento in avenue Victor Hugo e da lì uscivamo con Elena Garro, Adolfo Bioy Casares, Silvina Ocampo, Enrique Creel, José Blanco e altri amici, andavamo ai cabaret di Saint-Germain-des-Prés, dove Juliette Greco allungava la notte con la sua voce e il suo sfarzo «esistenzialista», dove Albert Camus dimostrava di essere un grande ballerino di boogie e dove Luis Buñuel ritornava dopo il trionfo dei Figli della violenza a Cannes, contro la volontà eccessivamente patriottica e pusillanime del governo del Messico. Octavio, diplomatico messicano, si piazzò alla porta del Palais des Festivals a distribuire un pamphlet da lui scritto in difesa del film di Buñuel, bello e terribile, la cui arte esaltava, e non denigrava, il Messico.

[2]

Octavio Paz e Luis Buñuel

L’immagine parigina che mi è sempre rimasta impressa è quella di un mezzogiorno grigio in cui Paz mi portò a vedere il primo grande quadro del dopoguerra, la magnifica opera di Max Ernst intitolata L’Europa dopo la pioggia, in una galleria di Place Vendôme. Lo sguardo di Ernst e quello di Paz erano intensamente azzurri, «come il vento che taglia in due la cortina delle nubi». Ma Ernst aveva un profilo aquilino e i capelli bianchi; il giovane Paz era magro, con i capelli ricci ed estremamente attraente per le donne. Di ritorno in Messico, cinque anni più tardi, andavamo spesso a ballare con belle ragazze, organizzavamo con loro dei toga party in cui l’unico requisito era arrivare vestito con un lenzuolo bianco e ci lasciavamo trascinare dall’irrequietezza bohémien di José Alvarado alla celebre Casa de La Bandida dove Paz rispondeva alle canzoni un po’ impudiche di Graciela Olmos con versi di Baudelaire che «le ragazze» immaginavano ancor più osceni.

Paz e Alvarado avevano condiviso una mansarda in centro quando studiavano diritto a San Ildefonso, e avevano portato a vivere con loro un manichino ribattezzato «La Rigida» e che mi servì poi come tema per un racconto, «La desdichada», in cui il ruolo di Bernardo corrisponde a un ritratto immaginario del giovane Octavio. Altre volte, una coppia assurda e irresistibile della notte messicana, Ambar ed Estrella, ci guidavano per le gallerie di specchi più segrete dell’urbe, popolata da mendicanti, travestiti, cantanti di mariachi, suonatori d’organetto, donne con i peli sul petto e fauni del bosco di cemento.

Anche Juan Soriano e Diego de Mesa erano nostri costanti compagni di avventure notturne in quella città che contava appena quattro milioni di abitanti, perfettamente sicura per degli insonni come noi e anche per chi non lo era, come il celebre gruppo de Los Divinos, che si riuniva ogni sabato a Bellinghausen per sviscerare gli eventi della settimana e assaporare l’educata ironia di Hugo Latorre Cabal, il coraggioso pessimismo di Jaime García Terrés, la prudenza consustanziale di José Luis Martínez, la maschera di umorismo che nascondeva l’anima profondamente poetica di Alí Chumacero, l’eleganza fisica e mentale di Joaquín Díez Canedo e il raccoglimento giocherellone, l’umorismo inaspettato, di Max Aub. Eravamo gli amici di Octavio.

Ma come una «grande onda», Paz arrivava in Messico e scompigliava tutto. Rinnovò la vita teatrale della città con le messe in scena del gruppo Poesía en Voz Alta, il cui sipario si apriva sulle meravigliose scenografie preparate da Gurrola, Mendoza e José Luis Ibáñez ma si chiudeva di fronte all’apprensione quasi verginale delle autorità universitarie. Incoraggiò Emmanuel Carballo e me a creare una Revista Mexicana de Literatura che offese seriamente i sentimenti xenofobi e nazionalisti dell’epoca. Condannata come elitaria e purista, nell’ambito di quella rivista vide la luce un poema politico di Paz che all’epoca fece furore, El cántaro roto, con la sua domanda di pietra, affanno e sapore di polvere: «Solo il rospo è vivo, solo il rospo verdastro riluce e brilla nella notte del Messico, solo il grasso tiranno di Cempoala è immortale?».

Con questa domanda sulle labbra marciammo insieme, io e Octavio e amici come José de la Colina, in appoggio a Othón Salazar e al suo movimento di maestri dissidenti. Passammo per avenida Juárez sotto il balcone della Segreteria Relazioni Internazionali, da dove ci guardavano, con stupore, i nostri capi, Padilla Nervo y Gorostiza. Non ci dissero mai nulla. Era possibile essere funzionari e lottare per il sindacalismo indipendente. Altri tempi, davvero.

Fu la vita personale di Paz a complicarsi e a portarlo di nuovo all’estero, in India, verso la nuova dimensione del suo pensiero e della sua poesia. Lo vidi per la prima volta con la sua seconda moglie, Maríe José, in un ristorante romano, in compagnia di José Emilio Pacheco. Era finita la baldoria, finiti gli scherzi ed era arrivata la tragedia. Tre anni più tardi, la notte di Tlatelolco segnò la fine della rivoluzione istituzionale messicana e la nascita di una società civile educata dalla rivoluzione a ciò che il suo stesso governo volle assassinare quella notte, lo spirito di libertà della nuova generazione. Il sangue macchiò la plaza de las Tres Culturas e Paz abbandonò il suo posto di diplomatico in India.

Gli scrissi subito da Parigi, dove mi trovavo, offrendogli solidarietà, casa mia, appoggio economico e tutto ciò di cui avesse bisogno. A riceverlo al porto di Barcellona c’eravamo tutti, García Márquez, Juan Goytisolo, Mario Vargas Llosa, José Donoso… Chi negò a Paz l’onore che Díaz Ordaz si impegnava a sottrargli? Chi difese Octavio in Messico contro l’accanimento del cannibale di Puebla più di Fernando Benítez, Carlos Monsiváis, José Emilio Pacheco, Elena Poniatowska e io stesso?

Tornò in Messico con modestia, senza arroganza né eroismo, al termine della presidenza di Díaz Ordaz. Visse in un piccolo appartamento di San Ángel Inn che gli affittò Sol Arguedas. Partecipammo a un’altra marcia, questa volta contro gli assassini dell’Halconazo, ci schierammo insieme in una manifestazione nella Città Universitaria, ci riunimmo con Demetrio Vallejo ed Heberto Castillo per formare un partito o un movimento di orientamento socialista democratico. E discutemmo molto. Ci trovammo in disaccordo su varie questioni politiche, ma ci vantavamo di discutere senza litigare, di provare la nostra amicizia, forte e profonda, al di là di tutte le differenze. Davamo, volevamo dare, una prova di coesistenza rispettosa tra concezioni differenti della vita e della società. Ci riuscimmo quasi.

Quando, in quanto direttore della Revista Mexicana de Literatura, mi giunse tra le mani un selvaggio attacco contro Octavio Paz, mi negai a pubblicarlo.

«Quindi lei non crede nella libertà di critica ed espressione», mi disse l’autore.

«Ciò in cui credo è l’amicizia», gli risposi. «Qui non si pubblicano attacchi contro i miei amici. Vada da qualche altra parte con il suo scritto. Non mancano spazi che non vedranno l’ora di pubblicarlo. Ma qui, contro un amico, no».

L’amicizia richiede attenzione, cura e amore. «Non lasciar passare un solo giorno senza proteggere le tue amicizie», consigliava il Dr. Johnson. Il ricordo è un rinnovo quotidiano dell’amicizia. E solo nel cuore di un amico possiamo riconoscere noi stessi, e il mondo, «come il giorno che matura di ora in ora fino a non essere che un istante immenso…»

Lo dissi a Buenos Aires e lo ripeto ora. L’opera di Octavio Paz abbraccia e arricchisce la cultura del nostro secolo. E vivrà anche dopo la sua morte. Un grande scrittore come Paz è guardiano e testimone, insieme ai suoi lettori, della propria immortalità.