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Quella volta che Sabato mise mano alla pistola

L’ingresso della casa di Ernesto Sabato a Santos Lugares, un quartiere di Buenos Aires

Ernesto Sabato nei ricordi infantili di uno scrittore argentino radicato da molti anni in Italia, Adrián Bravi, che nel 1999 ha pubblicato in Argentina il romanzo Río Sauce, e poi in Italia Restituiscimi il cappotto (Fernandel, 2004), La pelusa (2007), Sud 1982 (2008), e Il riporto (2011), questi ultimi tutti per Nottetempo. Il testo di Adrián è uscito originariamente sulla rivista «Il Reportage» [1], e poi sul «manifesto».

di Adrián N. Bravi

Ho vissuto fino ai quattro anni in una casa accanto al fiume, nei bajos de San Fernando, a Buenos Aires. La casa era piccola e puntualmente, ogni volta che il fiume si ingrossava, si inondava assieme a tutto il quartiere. Un giorno, dopo l’ennesima crecida (era così che i miei chiamavano l’inondazione) ci siamo trasferiti a Santos Lugares, un altro quartiere di Buenos Aires, dove non c’era rischio di dover restare per ore sopra i tavoli ad aspettare che l’acqua tornasse al posto suo. Era la fine degli anni sessanta. La nuova casa si trovava vicino alla ferrovia. D’altro lato della strada c’era l’abitazione dello scrittore Ernesto Sabato, conosciuto nel quartiere come don Ernesto.

In quel periodo credo che nessuno nella mia famiglia sapesse chi fosse Sabato, ma dopo un po’ spuntarono dentro casa due libri suoi (gli unici due romanzi che aveva pubblicato allora, entrambi scritti nella casa del mio nuovo quartiere): El tunel (1948) e Sobre héroes y tumbas (1963). Li leggeva soprattutto mia madre, con i piedi dentro la piscina smontabile che d’estate era in cortile (adesso che ci penso, ricordare mia madre leggere Sobre héroes y tumbas con i piedi a mollo, tenendo presente le cose terribili che si raccontano, mi fa un po’ ridere, ma penso sia un buon modo per esorcizzare gli incubi che si descrivono in quel libro).

Sabato era andato a vivere nel 1945 in quel quartiere appena fuori Buenos Aires. Lo aveva definito nel suo terzo e ultimo romanzo del 1974, Abaddón el exterminador, “un quartiere operaio, di gente che al massimo può abbellire le case con statuette comprate dal mercato”. La casa di Sabato era grande, con un giardino davanti senza inferriata, dove si poteva entrare scavalcando un piccolo muro. Quello era il mio posto preferito per giocare a nascondino.

La casa vera e propria si trovava in fondo, e io rare volte arrivavo fin laggiù. Aveva la facciata ricoperta d’edera (una cascata verde molto fitta che sembrava venire giù dal tetto). Il giardino invece era pieno d’alberi, piante incolte e strati di foglie cadute e accumulate nel tempo. Mi ricordo una grossa araucaria, un gelso, un gomero (in Italia conosciuto con il nome di fico del caucciù, un albero bello per arrampicarcisi) e un paio di cipressi. Una buona parte della mia infanzia l’ho trascorsa a giocare e a litigare con gli amici tra quegli alberi, che io ricordo rigogliosi, quasi fantastici. Non credo che don Ernesto sapesse di questo nostro passatempo.

Ricordo, nei primi anni ’70, quando andava alla stazione a prendere il treno passando davanti casa mia e io ero seduto sulla soglia della porta, che mi salutava toccandomi la testa. Una volta però mi aveva chiamato per nome, col diminutivo: “Hola Adriancito”. “Hola don Ernesto”, avevo risposto io. Forse si ricordava il mio nome perché il giorno prima ero stato, per la prima e unica volta, a casa sua. Avevo accompagnato il figlio del calzolaio che era un mio amico a consegnargli delle scarpe. Mi ricordo una stanza con tanti libri, un tavolo e una grossa finestra col giardino davanti. Sabato aveva preso le scarpe e mi aveva chiesto come mi chiamavo. In quello stesso periodo suo figlio Mario aveva girato nel quartiere alcune scene del suo primo film, Y que patatín y que patatán (1971 – premiato anche al Festival del Cinema di Venezia). Era un film sui bambini e mi ricordo che un giorno aveva riunito alcuni ragazzi per girare delle scene e Sabato ci guardava interessato e parlava col figlio, forse gli suggeriva qualche inquadratura. Ma il ricordo più intenso che ho di don Ernesto, e che oggi, dopo quarant’anni, mi rivela l’aspetto più umano di quest’uomo, si riferisce a un sabato pomeriggio d’estate.

Era all’incirca il 1972 o il 1973 (periodo, presumo, in cui lavorava a Abaddón el exterminador, pubblicato, come ho detto, nel 1974 – di recente è uscita una nuova e ottima traduzione in italiano di Raul Schenardi, L’angelo dell’abisso, edizioni Sur). Davanti a casa sua quel sabato pomeriggio c’era un gruppo di ragazzi che giocava a pallone. Io ero insieme al mio amico Gustavo, seduti su un gradino del club Defensores de Santos Lugares, di fronte a casa di Sabato. Noi li guardavamo senza giocare perché, essendo troppo piccoli, non ci consentivano di unirci a loro. Mi ricordo che facevano molto chiasso e buttavano il pallone dappertutto. All’improvviso, Sabato è uscito da casa sua con una pistola in mano, poteva essere una calibro 32 vista la dimensione (la stessa, penso ora, che aveva usato Alejandra per uccidere suo padre, si ricordi la Noticia preliminar a Sobre héroes y tumbas). Poi ha cominciato a minacciare i ragazzi agitandola davanti a sé. Diceva che avrebbe sparato se non la smettevano di urlare.

Allora uno dei ragazzi, con un gesto burbero, da descamisado peronista, si è tolto la maglietta che indossava ed è andato incontro a Sabato con le braccia aperte mentre ripeteva: “Mi spari, se ha il coraggio; mi spari…” Per evitare il peggio Sabato ha abbassato la pistola ed è tornato indietro senza aggiungere altro. I ragazzi hanno smesso di giocare e poi se ne sono andati. Sono quarant’anni che penso a quel gesto e ogni volta mi sembra di vedere tutta la sua umanità e la sua disperazione. Perché non era uscito per chiedere semplicemente a quei ragazzi chiassosi di andare a giocare altrove, senza ricorrere ai metodi drastici?

Claudio Magris, riferendosi a Sabato, ricorda in un articolo una frase di Ibsen che Sabato amava riprendere: “Vivere significa lottare con i propri demoni”. Credo che don Ernesto lo facesse quotidianamente. Dopo d’allora, giocare a nascondino nel giardino davanti a casa sua non era più un gioco, ma una sfida. Sabato era un uomo talmente umano che riusciva a essere “duale” senza contraddirsi, come ha scritto Massimo Rizzante: “Sabato sa bene che la vera patria dell’uomo è quella ‘regione chiamata anima’, in cui si mescolano senza soluzione di continuità ‘le idee’ e ‘il sangue’”.  I suoi personaggi sono indimenticabili proprio per questo, perché sanno esprimere tenerezza, fragilità e allo stesso tempo la più spietata follia (chi legge Sobre héroes y tumbas non dimenticherà mai Alejandra e la sua storia). Bisogna ricordare però che quest’uomo così iracondo, che ha saputo raccontare il sottosuolo e la demenza come pochi, è stato capace di sacrificare il suo talento di narratore per dedicarsi pienamente, subito dopo la dittatura, ai diritti umani. È stato presidente della CONADEP (Commissione nazionale della sparizione di persone), creata per ricostruire le vicende di migliaia di desaparecidos della dittatura militare del 1976-1983. Queste ricerche, pubblicate sotto il titolo Nunca más. Informe de la Comisión nacional sobre la desaparición de personas, nel 1984, sono state fondamentali per aprire il processo contro i militari. Nel 1998 pubblica un libro emozionante, fatto di memorie e riflessioni, dal titolo Antes del fin (tradotto in Italia anche questo da Raul Schenardi per le edizioni Sur, Prima della fine), in cui Sabato racconta la differenza tra quello che ha scritto nei suoi saggi e quello che ha scritto nei suoi romanzi: “non devono aspettarsi di trovare in questo libro [Prima della fine] le mie verità più raccapriccianti: quelle le troveranno solo nei miei romanzi, in quei sinistri balli in maschera che, proprio per questo, dicono o rivelano verità che non avrebbero il coraggio di confessare a volto scoperto”. È attraverso il velo della finzione, “quei sinistri balli in maschera”, che Sabato è riuscito a dare voce alle sue spietate verità.

Nel 1975, l’anno prima della dittatura, dopo che mio padre era stato licenziato dalla FIAT (dove lavorava da anni, nello stabilimento di Caseros, quartiere confinante con Santos Lugares) ed era stato minacciato più di una volta da alcuni attivisti dalla Triple A (Alleanza anticomunista argentina, un’organizzazione paramilitare al servizio del potere, con lo scopo di combattere gli oppositori e che poi darà il via alle repressioni future), ci siamo trasferiti in un altro quartiere di Buenos Aires. Ogni tanto tornavo a Santos Lugares, soprattutto per vedere il giardino della casa di Ernesto Sabato, specie dopo che avevo iniziato a leggere i suoi libri. In ogni pagina che leggevo cercavo il Sabato dei miei ricordi, sia quello che mia aveva salutato con un “Hola Adriancito” sia quello che era uscito di casa brandendo la pistola.

Anni dopo, trasferitomi in Italia, stavo sfogliando alcuni testi all’Università di Macerata quando mi sono imbattuto in una pubblicazione il cui titolo recitava: Laurea honoris causa in Lettere a Ernesto Sabato (31 ottobre 1985). Senza saperlo stavo inseguendo le sue tracce. Qualche mese prima della sua morte, nel 2011, sono andato a Santos Lugares. Davanti al giardino, a ridosso del marciapiede, c’era un’inferriata abbastanza alta che sbarrava il passaggio. Gli alberi c’erano, non molti come ricordavo, ma c’erano e c’erano anche le foglie sparse per terra. Cercavo di mettere insieme il ricordo con il giardino che vedevo adesso. Era tutto diverso, come se il giardino d’allora e il giardino d’adesso appartenessero a tempi differenti che nulla avevano a che fare l’uno con l’altro. Dentro la casa, con la facciata ancora ricoperta d’edera, c’era Ernesto Sábato, uno scrittore novantanovenne, che lottava contro il tempo e che forse, dalla finestra della sua stanza, guardava anche lui la scomparsa di quel giardino. Ero insieme a mio figlio, che aveva la stessa età che avevo io quando mi nascondevo tra quegli alberi. Come tante altre volte, ero tentato di suonare il campanello, ma non l’ho fatto. Don Ernesto è morto qualche mese dopo, lo stesso giorno del mio compleanno.