Felisberto Hernández

redazione Autori, SUR

Presentiamo due testi a proposito dello scrittore uruguayano Felisberto Hernández (1902-1964): un articolo di Francesca Lazzarato già uscito sul manifesto che affronta in generale la sua figura di scrittore outsider, e un pezzo scritto appositamente per il blog da Fabrizio Gabrielli che ripercorre un episodio enigmatico della sua vita.

Felisberto Hernández, uno scrittore outsider
di Francesca Lazzarato

Tra la metà degli anni ’60 e i primi anni ’80 la casa editrice Einaudi pubblicò nelle sue collane di narrativa una serie di autori ispano-americani di grande importanza, come Borges, Bioy Casares, Ocampo, Puig, Arguedas, Hernández, Rulfo, Vargas Llosa, Amado, Cortázar, Soriano, per lo più in traduzioni pregevoli e curate.
Alcuni di questi autori sono rimasti in catalogo, altri ne sono usciti per riapparire altrove, ma tra tutti ce n’è uno che si è inabissato per non riaffiorare più, inghiottito da qualche misterioso “triangolo delle Bermude” editoriale che l’ha cancellato dall’orizzonte del lettore italiano.
Il desaparecido in questione è Felisberto Hernández (Montevideo 1902-1964), sommo cuentista uruguayano apprezzato da Borges e Roger Caillois (che l’aveva definito “lo scrittore più originale dell’America Latina”), amato da Jules Supervielle e carissimo a Julio Cortázar, prefatore della traduzione francese di Las hortensias (Denoël, 1975) e di La casa inundada y otros cuentos (a cura di Cristina Peri Rossi, Lumen, 1975).
Il suo Nessuno accendeva le lampade (Supercoralli 1974, traduzione di Umberto Bonetti) è oggi introvabile nei remainders e reperibile solo in un numero limitato di biblioteche, ma vale la pena, per chi non possa leggerlo in lingua originale, di andarselo a cercare, magari per farlo poi girare generosamente in forma di samiszdat fotocopiato, tanto più prezioso in quanto si tratta dell’unico libro di Hernández mai tradotto in italiano.
Letto e apprezzato nei paesi di lingua spagnola (e in Francia, dove l’opera completa è apparsa nel 1997 presso Seuil) soprattutto dopo la sua morte, oggetto in America Latina di celebrazioni e convegni in occasione del centenario della nascita, nonché al centro di un’attenzione critica intensa e costante, nel nostro paese Hernández resta uno sconosciuto al di fuori della ristrettissima rosa di lettori che per loro fortuna possiedono una copia di Nessuno accendeva le lampade e che non hanno mai smesso di rileggere i dieci splendidi racconti preceduti da una nota introduttiva di Italo Calvino, in cui si parla dell’uruguayano come di uno scrittore diverso da tutti gli altri, che non assomiglia a nessuno degli europei o dei latinoamericani e si presenta piuttosto come un inconfondibile “franco tiratore” capace di sfidare ogni classificazione.
Nadie encendía las lámparas (questo il titolo originale) fu pubblicato per la prima volta a Buenos Aires nel 1947 da Sudamericana, ma i racconti erano già apparsi in precedenza in riviste uruguayane e argentine: alcuni piacquero al poeta franco-uruguayano Jules Supervielle, che li propose alla rivista Sur fondata e diretta da Vittoria Ocampo, mentre Borges ne inserì uno, El acomodador, in Los Anales de Buenos Aires.
Oltre a ricevere un’ottima accoglienza critica, la raccolta venne premiata dalla Cámara del Libro Argentina come miglior libro dell’anno, ottenendo perfino un suo modesto esito commerciale (i precedenti libri di Hernández arrivavano raramente oltre le duecento copie). E fu proprio grazie a questo piccolo successo che autori e come Cortázar o García Márquez si resero conto dell’esistenza di Felisberto, cominciarono a leggerlo e, nel caso di Cortázar, entrarono a far parte della sua cerchia di estimatori ed amici. Quel momento di gloria e di improvvisa visibilità, però, fu davvero brevissimo, e solo dopo molti anni l’opera Hernández sarebbe stata valorizzata come meritava.
In Italia la sua pubblicazione avvenne probabilmente a margine di un fenomeno come il cosidetto “boom” della letteratura latinoamericana, iniziato proprio mentre Hernández moriva e dal quale, per ragioni anagrafiche oltre che per la sua natura di outsider e di “caso particolare” per definizione, di fatto sarebbe rimasto escluso, proprio come accadde anche a un’autrice cilena preziosa e singolare, Maria Luisa Bombal, che come l’uruguayano visitò le zone più nobili e appartate del fantastico.
Nonostante Calvino nella sua introduzione non esiti ad accostarlo a Borges, l’assenza di Felisberto dall’immaginario libresco degli italiani è tuttavia così assoluta da indispettire, soprattutto se si considerano l’eccezionale modernità e la ricchezza metaforica di questo autore, che fatica a rientrare nell’orizzonte del fantastico rioplatense in cui abitualmente lo si inscrive, e disegna piuttosto un percorso totalmente suo, in cui confluiscono echi hoffmaniani, tracce surrealiste, sfumature gotiche e la capacacità di legare l’inammissibile, il perturbante, il bizzarro al gesto quotidiano, alla realtà di luoghi riconoscibili e a un uso proustiano della memoria.
Ciascuno dei dieci racconti di Nessuno accendeva le lampade ci propone differenti gradi di mistero perfettamente incastonati nella realtà, non alieni da tocchi ironici, che si concretizzano quasi sempre attraverso un medesimo procedimento, del resto tipico di Hernández, che prevede la “cosificazione” o l’animalizzazione dei protagonisti umani, e l’umanizzazione di oggetti o bestie, secondo una sua particolarissima fisiognomica: un commesso viaggiatore che impara a piangere come un coccodrillo, indipendentemente da qualsiasi impulso psicologico, e usa questa sua capacità per vendere di più e meglio (una trovata commerciale che alla fine approda al dubbio metafisico); un uomo che ricorda la propria trasmutazione in cavallo; un balcone innamorato che crolla volontariamente; un acomodador (la maschera che accompagna gli spettatori al proprio posto) i cui occhi splendono come lanterne nel buio della sala cinematografica. Ed è Calvino a sottolineare come le associazioni di idee e le percezioni inattese siano il gioco preferito dei personaggi di Hernández, uno “strano gioco” interno al racconto le cui regole vengono stabilite di volta in volta e forniscono una struttura narrativa all’automatismo quasi onirico della sua immaginazione.
Nessuno accendeva le lampade appartiene, secondo il critico Francisco Lasarte (Función de ‘misterio’ y ‘memoria’ en la obra de Felisberto Hernández, 1978) al terzo segmento dell’opera di Hernández : il primo include quattro piccoli e magistrali libri dal testo brevissimo (Fulano de Tal, 1925; Libro sin tapas, 1929; La cara de Ana, 1930; La envenenada, 1931); il secondo, i romanzi brevi dedicati alla memoria (lo splendido Por los tiempos de Clemente Colling, 1942; El caballo perdido, 1943; Tierras de la memoria, uscito postumo); l’ultimo, le raccolte di racconti che dal 1943 in poi presentano testi usciti in ordine sparso negli anni precedenti, come Nadie encendía las lámparas, Las Hortensias, La casa inundada.
Nel suo complesso, tutta l’opera di Felisberto arriva sì e no a settecento pagine, veicolo di un mondo fittizio che scorre in parallelo con la sua vicenda biografica, i cui fili sono rintracciabili anche nei racconti più stranianti. E certo la vita di Hernández non fu meno bizzarra dei racconti e dei romanzi brevi alle cui trame l’autore l’ha spesso intrecciata: la vita di un ragazzo timido dalla vocazione musicale precoce, che dopo aver studiato con Clemente Colling (l’organista cieco di una chiesa di Montevideo, poi divenuto personaggio di uno dei suoi romanzi) comincia a guadagnarsi da vivere accompagnando al piano la proiezione dei film muti. Pianista errante, dagli anni ’20 sino al 1942 Felisberto si guadagna da vivere soprattutto suonando con fortuna disuguale, da solo o con un trio dal vasto ed eterogeneo repertorio: dai cinema ai caffè, dai teatri alle sale da concerto dove esegue Stravinsky.
In perenni ristrettezze economiche, prova ad aprire una libreria che fallisce, dà lezioni di piano, si sposa tre volte e ogni volta divorzia, intreccia intense relazioni amorose, trascorre due anni a Parigi con una borsa di studio ottenuta tramite Jules Supervielle, vive in misere pensioni, ingrassa mostruosamente per via di una fame insaziabile che lo renderà obeso al punto che il suo cadavere, dopo la morte per leucemia nel 1964, non passerà dalla porta di casa e dovrà essere calato dalla finestra. E, pur non definendosi mai uno scrittore, scrive da autodidatta e corregge incessantemente, componendo i suoi testi come partiture musicali dal fraseggio preciso e riuscendo a pubblicare non per ostinazione propria, ma per quella dei pochi che lo conoscono e lo ammirano.
Scrittore straordinario e “non per la maggioranza”, come lo definisce Onetti, senza essere mai davvero arrivato al grande pubblico è oggi considerato uno dei grandi autori latino-americani del ‘900, un maestro, un classico attorno al quale si è addensato un corpus critico di tutto rispetto. Per i lettori del nostro paese, un autore ancora da scoprire, del quale sarebbe meraviglioso veder tradotti almeno La casa inundada, storia di una donna dal corpo possente e dall’anima autoritaria che si fa costruire una casa per poi inondarla d’acqua e viverci insieme alle sue serve come in una minuscola Venezia domestica, prendendo al proprio servizio, come rematore e confidente, uno scrittore silenzioso capace di ascoltarla all’infinito. Oppure Las Hortensias, in cui donne-bambole fatte di gomma, con vene artificiali in cui circola acqua calda, sono tanto seduttive da scatenare l’amore di un bizzarro collezionista, fra torbidi drammi e gelosie coniugali.
Ma Felisberto non ha mai avuto vita facile e non c’è da stupirsi del fatto che, di fronte alla sua opera inafferrabile e squisita, la nostra editoria, ghiotta di “casi” presunti o reali, best seller veri o finti, autori effimeri che si prendono atrocemente sul serio e sono pronti a qualunque comparsata, per vent’anni abbia voltato la faccia dell’altra parte, liquidandola come invendibile e “per pochi”.

Felisberto che morì non sapendo di sapere
di Fabrizio Gabrielli

“Dimentico sempre di portare con me un paio di lenti per vedere bene il verde delle piante che hai negli occhi; però una cosa la so già, il colore della tua pelle: quello lo ottieni strofinandoci su le olive”.
Difficile credere che Felisberto Hernández, descrivendo la beltà di María protagonista di Las Hortensias, uno dei suoi racconti più riusciti e famosi, non avesse i pensieri rivolti alla  terza moglie, María Luisa de Las Heras, alla quale il racconto è dedicato: “A María Luisa, nel giorno in cui ha smesso di essere la mia fidanzata”, recita l’esergo, datato 1948.
Felisberto e María Luisa si erano conosciuti a Parigi un anno prima. L’uruguagio, pupillo del poeta franco-montevideense Jules Supervielle, era stato introdotto al Pen Club di Lutezia nell pomeriggio del 13 dicembre 1947 come “lo scrittore più originale dell’America Latina”. All’incontro erano presenti il poeta argentino Oliverio Girondo, lo stesso Supervielle, Roger Caillois; ma Felisberto non aveva occhi che per quella mulatta dallo sguardo venato di smeraldo e la pelle olivastra, i tratti austeri, la chioma corvina, che parlava con uno spiccato accento andaluso (era oriunda di Ceuta) e aveva una grazia tale da lasciare tutti a bocca aperta: María Luisa.
Che poi, in realtà, non si chiama María Luisa. O almeno: non propriamente.
María de La Sierra, Znoi, Maria Pavlovna, Patricia, Ivonne, María Luisa: non sono che alcune delle identità posticce di Africa de Las Heras, colonnello dell’Armata Rossa e membro (col nome in codice di Patria) dei servizi segreti sovietici — quella NKVD che si sarebbe poi trasformata nel KGB — un passato da ribelle comunista nella Spagna del Generalísimo Franco, un ruolo di spicco nella Seconda Guerra Mondiale (era addetta al reparto telecomunicazioni, il suo compito era quello di diramare false informazioni nei reparti tedeschi), un oscuro coinvolgimento nell’omicidio in Messico di Leone Trotzky.
Le nozze di Felisberto e María Luisa, celebrate nel ’48, durarono poco, soli due anni: la missione della de Las Heras era quella di installarsi a Montevideo e organizzare una fitta rete di spionaggio latinoamericana in piena guerra fredda.
Portato a compimento — peraltro con successo — il delicato compito l’infelice coppia poté sciogliersi, ponendo fine alla farsa.
María Luisa avrebbe continuato a trasmettere messaggi in codice in lungo e in largo per tutto il Sudamerica con la sua Enigma.
Felisberto, di par suo, si sarebbe rinchiuso in uno scantinato continuando a scrivere e detestare il mondo, fino alla fine dei suoi giorni.
Più che la vita segreta di Africa, rovistando nella quale si potrebbe collezionare materiale sufficiente per più d’un romanzo, vale la pena far luce su un particolare decisamente conturbante: il sottile fil rouge che serpeggiando per tutto Las Hortensias sembra fornire prove convincenti abbastanza per sfatare un’opinione comune, quella secondo la quale Felisberto Hernàndez morì ignorando la verità sulla delicata — e inusuale — situazione nella quale si era ritrovato, suo malgrado, coinvolto.
Si è detto, di Hernández, che sprofondato com’era in un pantano acquitrinoso fatto di infantile egoismo e ossessiva ricerca — rasente la pazzia — d’un filo di raccordo tra i suoi Io e Super-io, non fosse mai riuscito a osservare e valutare niente e nessuno con quella che tendiamo a chiamare “lucidità”.
Dopotutto, se c’è un elemento ricorrente in tutta la sua produzione narrativa è proprio quell’indefesso insistere sui temi dell’irrazionalità, del falso, della scoperta, della sorpresa: dell’enigma.
A noi non è dato sapere il motivo per il quale il KGB avesse scelto proprio lui, come gancio: forse per il suo anticomunismo viscerale. Forse per la sua naturale predisposizione alle relazioni ingarbugliate.
O fors’ancora, ipotesi certamente più suggestiva, perché il destino, a volte, è semplicemente così: subdolo e sottile.
Tra le righe di Las Hortensias, a decifrarle, sembra celarsi — se ne avverte l’eco lontano, come da dentro uno scafandro — il disperato monito di Felisberto: ho capito chi siete, cosa volete da me, so precisamente cosa sta succedendo.
Centralissimo è il tema della messinscena.
Horacio, il protagonista, colleziona bambole poco più alte delle donne reali. Con l’ausilio di un’equipe di costumisti, scenografi, musicisti, scrittori che si prestano alla stesura delle legende pone in opera tutta una serie di mise en scene.
Tiene le sue protette in stanze di vetro, nello scantinato. “Il fatto di vedere le bambole in vetrina è molto importante, per via del vetro”, confessa: “è questo a conferire quella certa qualità di ricordo”. Illucido. Patinato. Opaco. “Quando guardo una scena mi sembra di scoprire un ricordo che una donna ha in un momento importante della sua vita; è qualcosa tipo come se gli stessi aprendo una fessura nella testa. […] Ho l’impressione di violare qualcosa di sacro”.
Sacro, come un segreto.
Le scene sono accompagnate da un suonatore di piano in frac — forse un cammeo che si regala Felisberto, un passato da pianista nelle sale polverose del cinema muto; spettatori silenti e accondiscendenti sono il valletto di casa, Alex — che non a caso, forse, è russo — e la moglie di Horacio, María Hortensia, che porta lo stesso nome, come scoprirà in seguito spaventosamente il lettore, della bambola.
La malsana mania di Horacio si farà via via, e incessantemente, più morbosa: all’iniziale somiglianza con la moglie, ottenuta nella bambola riproducendone il colorito dell’incarnato e irrorandone il corpo posticcio con essenze familiari al vero simulacro, si aggiungeranno follie più o meno perverse: verrà riprodotta nella bambola la tepidità umana, con l’aggiunta di acqua calda; e verranno poi apportate modifiche tali da rendere Hortensia una vera e propria creatura erotica.
Reiterando la sua personalissima falsificazione del peccato originale Horacio comincia a cogliere nelle bambole dettagli perturbanti: “[…] erano piene di presagi; gli sguardi bramosi che volavano verso le loro facce da donna innocente le contagiavano di primitiva cupidigia; dopodiché somigliavano a esseri mesmerizzati, che compivano missioni prestandosi inconsapevolmente a disegni malvagi”.
C’è da immaginarsi l’espressione che può aver fatto Africa alla lettura del racconto: quella di un essere mesmerizzato.
Specie quando le capitò di imbattersi nel passo in cui Horacio, confrontandosi con Alex sulle parvenze di una nuova bambola acquistata per obnubilare il ricordo della moglie fuggita di casa, chiede: “Che ne pensi, di questa?”.
“Molto bella, signore”, gli risponde il valletto. “Somiglia molto a una spia che ho conosciuto in guerra.”
Somiglia molto a una spia.
Forse non possiamo spingerci così in là da affermare che Felisberto Hernández avesse carpito esattamente tutti i dettagli del losco affare in cui s’era trovato impantanato.
Eppure non possiamo evitare di intuire strane e persistenti similitudini tra il racconto della messinscena e quella nella quale lo scrittore uruguaiano si trovava ad essere attore non protagonista: proprio come Horacio con le sue bambole, il NKVD non maneggiava forse Africa e Felisberto a proprio piacimento?
Cos’erano i due, nelle mani dei gerarchi dell’Armata Rossa, se non bambole sprovviste di personalità, volontà, di una vita propria?

Forse Felisberto non ha mai saputo chi fosse davvero la donna che aveva sposato, non nel senso classico della parola sapere.
Come la María protagonista del racconto, che sebbene sappia cosa sta succedendo ne perpetua volontariamente gli effetti, non senza una buona dose di autolesionismo, anche Felisberto, in un certo qual modo, dimostra di aver saputo: di aver saputo cogliere, con la sua mezza dozzina d’occhi celati, muovendosi tastoni nella penombra, subodorandola di pancia, l’essenzialità della trama, tutta la verità.

Fu così, che morì Felisberto Hernández: non sapendo di saperla perfettamente, la verità.

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