Lo scorso 18 Giugno, per la seconda gara del Gruppo A dei Mondiali di Brasile, i verdeoro hanno affrontato il Messico. Al termine del match la FIFA ha comunicato di voler sanzionare la Federcalcio messicana (Fmf) per il coro razzista e omofobo cantato dai sostenitori della “Tricolor”, il grido puto che viene utilizzato da anni dai tifosi nei confronti del portiere avversario, e che è diventato negli stadi centramericani una consuetudine al pari della ola.
Intorno alla violenza del linguaggio, agli ingiuri contro l’altro (ovvero l’avversario) nel contesto degli stadi e all’ipocrisia della FIFA ruota questa riflessione di Álvaro Enrigue, scrittore messicano, in un editoriale apparso su El Universal.
«Puto»
di Álvaro Enrigue
traduzione di Fabrizio Gabrielli
Ho scoperto il più famoso e inquietante grido di guerra dei tifosi messicani all’Azteca, in una partita di qualificazione al Mondiale di Germania contro gli Stati Uniti. Ero appena tornato da un periodo molto lungo di permanenza nella città di Washington – puritana fino alla nausea – che quasi me la sono fatta sotto dalle risate quando ho capito il giochino. Non l’ho trovato condannabile. In ogni caso, mi è sembrato che l’offesa fosse inesatta: a meritarsi la derisione era il castigatore Landon Donovan – quanto mi mancano il suo istrionismo e la sua incazzosità nelle partite dei gringos in questo Mondiale – e non il portiere Keller, discretamente (e meravigliosamente) dotato per il suo ruolo.
Ciò che quel coro dice della cultura messicana non mi entusiasmava, però capivo la dinamica dello sbracamento, e così contestualizzato ha continuato a farmi ridere anche quando l’intenzione era quella di prendere in giro il portiere catracho[1] o quello chapín.[2] Credo che la gente sia sincera quando dice che non lo grida con l’intento di discriminare, ma di buttarla in caciara – lo stadio è uno spazio eccezionale, con riti carnevaleschi unici.
Anche così, però, il termine “puto” è irrimediabilmente discriminatorio: livella allo stesso piano le nozioni di “nemico” e “omosessuale” e non c’è maniera di starsi a complicare la vita senza scadere nel ridicolo, anche se è vero che le connotazioni del termine l’hanno portato più a essere un sinonimo di “codardo”. Entrambi i significati, tuttavia, convivono senza che uno abbia tolto di mezzo l’altro. Tanto che si usa un articolo indefinito come marcatore grammaticale per differenziarli semanticamente: qualcuno “senza valore” è “un puto”; un omosessuale è “puto” e basta.
Quanto sia disgraziato questo coro non è mai stato così chiaro come nella finale della Coppa del Mondo Under 17, quando le più di centomila anime che riempivano l’Azteca l’hanno gridato, senza pausa né misericordia, al ragazzino che difendeva la porta dell’Uruguay. In un contesto come quello, urlare “puto” a ogni rinvio dal fondo era, chiaramente, un atto di bullismo. Feriva, dava vergogna, mostrava la faccia peggiore di una tifoseria che confonde l’entusiasmo per la propria squadra con la condanna dell’avversario. Il coro dimostrava che, come pubblico, abbiamo la stessa qualità morale di quelli che cantavano «Llora llora y mueve sus manitas» al più piccolo della classe fino a che quello non piangeva – anche nelle aule degli anni Settanta si pensava che quella vecchia canzoncina popolare si cantasse, alla fine, solo per fare casino.
Le due azioni, tuttavia, sono uguali solo nel loro mettere in mostra la bassa qualità morale di chi le esercita, perché invece c’è una sostanziale differenza. Il più piccolo della classe non aveva modo di difendersi, e quella vessazione gli recava un danno irreparabile. Il portiere avversario, invece, sì che ha modo di difendersi, e di recare un danno alla folla che pretende di umiliarlo: semplicemente facendo bene quello che deve fare. Le gare di qualificazioni al Mondiale hanno dimostrato che gridare “puto” non ha il benché minimo effetto sul nemico, dato che abbiamo perso contro tutti. Né tantomeno il lavoro di Ochoa ne è uscito sminuito, quando la torçida brasiliana ci ha elegantemente reso il favore.
Il grido “puto”, allora, è un atto vuoto e gratuito, una scemenza. È un gesto che ha la grazia del carnevalesco, perché nel posto in cui si intona è completamente inutile. La questione di fondo, quindi, è se l’eccezionalità dell’evento che si verifica nello spazio del campo di gioco e delle tribune in un duello leale tra nazioni torna a ripetersi anche una volta terminata la partita. Se chi grida “puto” terrà o non terrà nuovamente quella condotta in altri spazi, spazi in cui il gesto si suppone, lì sì, che infligga una violenza agli altri.
La verità è che non lo so – sono uno scrittore, mica un prete –, però di certo la minaccia di sanzioni da parte della FIFA – un’istituzione così disinteressata ai diritti delle minoranze, che non si è sentita neppure un po’ in impaccio ad assegnare un Mondiale al Qatar, un paese in cui è ancora permessa la schiavitù e proibita l’omosessualità – ha innescato uno straordinario esame di coscienza da parte della società messicana, poco attenta in generale al problema della violenza nel linguaggio. E già questa è una vittoria enorme – anche se poi dovessero cacciarci con altezzosità dal Mondiale.
Gridare “puto”, a partire da questo momento, finisce di essere automatico, di non avere una connotazione politica. Scegliamo se essere tra quelli che lo dicono oppure quelli che no. Solo così il linguaggio avrà il ruolo che gli spetta di modellatore di ideologie e specchio di ciò che vorremmo essere.
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