Shortcuts

Uno sporco lavoro: passato, presente e futuro della letteratura proletaria

Adam Fleming Petty BIGSUR, Editoria, Scrittura, Società

Questo articolo è apparso originariamente su Electric Literature e viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore.

di Adam Fleming Petty
traduzione di Francesca Pe’

Da qualche tempo nel mondo letterario si discute accesamente di ciò che a quel mondo manca: le voci delle persone di colore, dei gay e delle lesbiche, di quanti sono emarginati, oppressi o semplicemente ignorati. Tuttavia basta esaminare più da vicino la questione per rendersi conto che il discorso si concentra sulla razza e sul genere, trascurando una categoria demografica altrettanto determinante: la classe sociale. Negli appelli per una maggiore diversità nell’editoria si accenna di rado al background economico di autori e editor.

Di recente vari scrittori hanno tentato di inserire il tema della classe sociale nel dibattito in corso sulla parità di rappresentazione e opportunità nella sfera letteraria. Lorraine Berry e Andrea Bennett, rispettivamente su Literary Hub e Hazlitt, hanno provato a spiegare come mai le esperienze delle classi inferiori tendono a suscitare meno interesse in editor e recensori. Scrive Berry:

Si è detto pochissimo, però, in maniera esplicita circa l’esclusione del grande sottoproletariato americano, quella classe eternamente povera che giace al fondo della società e che comprende persone di ogni razza, genere e fede religiosa. E nel gettare via le occasioni di creare arte che parli della povertà, ci perdiamo tante possibilità di cambiamento.

Su The New Republic Phoebe Maltz Bovy ha adottato un approccio atipico al problema sollevato da Berry e Bennett, chiedendosi perché, esattamente, i lettori di qualunque tipo siano poco propensi a rivolgere la loro attenzione alle esperienze delle classi inferiori. Secondo Bovy, leggere narrativa è un atto «aspirazionale», nel senso che i lettori scelgono romanzi e racconti (ma soprattutto romanzi, se dobbiamo essere onesti) per immaginarsi migliori o almeno più interessanti di quanto non siano nella vita di tutti i giorni. E quando si tratta di letteratura sul proletariato, le cose si fanno complicate:

Mi sembra che la classe socioeconomica sia un tipo di diversità più difficile da introdurre nell’ambito letterario. A differenza degli altri tipi, non è in linea con ciò a cui i lettori sono abituati né con ciò che probabilmente vogliono, e cioè una versione di sé stessi più ricca, più affascinante, o anche solo meno noiosa.

Come diagnosi dei gusti letterari attuali, la trovo grossomodo accurata. Il fatto è che i gusti cambiano. C’è stato un periodo, non molto tempo fa, in cui opere riguardanti personaggi decisamente non ricchi che vivevano vite estremamente non affascinanti catturavano l’attenzione sia dei critici sia dei lettori. Esaminando quel periodo e la sua letteratura, forse potremo farci un’idea più chiara della situazione attuale.

***

A partire dalla metà degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta un gruppo sparso di scrittori, etichettati come esponenti del cosiddetto «realismo sporco» o «minimalismo letterario» o (il mio preferito) «realismo da Kmart», produssero una vasta letteratura sulla vita delle classi medio-basse e del proletariato. Raymond Carver rimane l’autore più noto di questa fase, ma all’epoca diversi altri raggiunsero una certa fama, come Tobias Wolff, Jayne Anne Phillips e Bobbie Ann Mason. Scrivevano soprattutto racconti, pubblicati prima sul New Yorker e su altre riviste e poi riuniti in raccolte che finivano sulla prima pagina della New York Times Book Review. In retrospettiva, fu l’ultima volta che il racconto riuscì a competere con il romanzo in termini di attenzione critica e, cosa forse più significativa, in termini di attenzione commerciale. In un saggio della fine degli anni Ottanta David Foster Wallace analizzava lo stato della narrativa breve, trovandola abbondante e addirittura redditizia:

Al fenomeno dei workshop è stata giustamente attribuita una recente «rinascita del racconto americano», rinascita annunciata alla fine degli anni Settanta dall’emergere di scrittori come il defunto Raymond Carver (che ha insegnato a Syracuse), Jayne Anne Phillips (laurea in Lettere alla Iowa), e il defunto Breece Pancake (laurea in Lettere alla Virginia). Mai come oggi sono esistite tante piccole riviste dedicate alla narrativa breve, sponsorizzate per lo più dai programmi di scrittura o curate e gestite da neolaureati in Lettere. Le raccolte di racconti, anche a opera di semisconosciuti, ormai sono economicamente abbastanza fruttuose e gli editori hanno subito provveduto ad assecondare la tendenza.

Raccolte di racconti? Economicamente abbastanza fruttuose? Gli anni Ottanta sono stati davvero un’utopia letteraria!

Come forma artistica, oggi la raccolta di racconti è considerata una sorta di trampolino di lancio, un modo in cui gli autori giovani si schiariscono la voce e gli autori a metà carriera si ripuliscono l’hard disk. Naturalmente esistono le eccezioni, scrittori che fanno del racconto il loro biglietto da visita: Lorrie Moore, per esempio, o Kelly Link. Tuttavia, ai tempi di Carver e altri, la raccolta di racconti si caratterizzava per un senso di coesione non dissimile da quello dell’album nella musica leggera, per citare un’altra forma artistica che ha visto giorni migliori. Ma perché il racconto era così importante per gli autori del realismo sporco? Una volta Carver disse che, tra il lavoro in una stazione di servizio e le visite alla lavanderia a gettoni con i due figli piccoli, gli restava il tempo di scrivere solo racconti. Questioni logistiche a parte, il racconto divenne ben presto sinonimo di rappresentazione delle esperienze delle classi inferiori, proprio come l’amore è l’argomento preferito del sonetto e della power ballad, e per la critica, se non direttamente per il realismo sporco, ciò costituiva un allontanamento dagli intenti enciclopedici del romanzo.

La sintesi più efficace del realismo sporco venne non da uno scrittore ma da un editor, che per giunta lavorava in Gran Bretagna. Bill Buford, per anni direttore dell’autorevole rivista Granta, nel 1983 dedicò un intero numero a quel nuovo filone della letteratura americana. Per inciso, fu proprio Buford a coniare l’espressione «realismo sporco»; il movimento piaceva anche perché non aveva la supponenza di definirsi tale, tantomeno di scegliersi un nome. Tra le altre cose, Buford elogiava i realisti per essersi sbarazzati dei virtuosismi postmoderni di Pynchon e John Barth, concentrandosi su storie e personaggi che non avrebbero riconosciuto la pretenziosità neanche se fosse entrata a prendere un caffè nella tavola calda dove facevano il turno di notte. Scriveva Buford:

Questi sono racconti insoliti, tragedie disadorne, spoglie, a basso costo, su gente che guarda la tv tutto il giorno, legge romanzetti rosa da quattro soldi e ascolta musica country. Sono cameriere di bar lungo le statali, cassiere del supermercato, muratori, segretarie e cowboy disoccupati. Giocano al bingo, mangiano cheeseburger, vanno a caccia di cervi e dormono in alberghi pidocchiosi. Bevono parecchio e sono spesso nei guai: perché rubano una macchina, rompono una finestra, arraffano un portafoglio. Vengono dal Kentucky o dall’Alabama o dall’Oregon, ma potrebbero venire da qualsiasi luogo: persone alla deriva in un mondo saturo di cibo spazzatura e dei dettagli opprimenti del consumismo moderno.

Per usare un termine contemporaneo, gli scrittori del realismo sporco erano autentici. In un decennio così avido e falso da consacrare l’Alex di Casa Keaton come voce della ribellione giovanile, quei racconti semplici e dimessi su gente priva di sofisticazione culturale sembravano l’antidoto perfetto. Ma non certo una minaccia: il processo di deindustrializzazione avviato nei primi anni Settanta, e culminato con la deregulation dei sindacati a opera di Reagan, garantiva che quel proletariato prevalentemente bianco e rurale non si costituisse mai in forza politica. Anzi, il realismo sporco piaceva anche perché faceva apprezzare l’autenticità delle classi inferiori senza chiedere ai lettori di cambiarla.

Il realismo sporco conservò il suo prestigio e una discreta popolarità per una dozzina d’anni, finché i massimalisti come Tom Wolfe non cominciarono a mostrarsi insofferenti verso opere così modeste e pacate. Non è una vita breve, per un movimento letterario. Ma una domanda sorge spontanea: perché quel tipo di scrittura fiorì allora, e adesso non più? Abbiamo avuto il realismo da Kmart; perché non il realismo da Walmart?

E qui devo generalizzare. Nell’epoca del realismo sporco, a rendere «autentica» una persona era la mancanza di certe cose. Quelli che non avevano la tv via cavo, che non abitavano nei quartieri residenziali, che non avevano fatto l’università erano gli individui davvero autentici, che tiravano avanti con il cibo spazzatura e il caffè delle stazioni di servizio come monaci nutriti a croste di pane. Oggi a farci diventare autentici è il possesso di certe cose: il caffè più biologico e più equosolidale, la birra artigianale prodotta in loco e servita soltanto in un bar e soltanto da luglio a settembre, il telefono così smart che ormai è dotato di intelligenza propria ed è accompagnato da un certificato di autenticità come un pezzo della vera croce. Coloro che non hanno i mezzi per comprare questi talismani sono inautentici e banali, gonfi di tossine a causa del cibo senz’anima che consumano come le cavie di una ricerca di mercato promossa da una multinazionale.

Ciò non vuol dire che già all’epoca non ci fossero problemi nella ricezione del realismo sporco. Molti lettori romanticizzavano i racconti di quel periodo, cogliendo una sorta di primitiva nobiltà nelle gesta del ceto basso. Quando ho letto per la prima volta quei racconti, ricordo di aver pensato che tutti quegli inservienti e tutti quei tossici erano inconfutabilmente reali, in contatto con una verità a cui io non avevo accesso dalla mia stanza di dormitorio. Ma dovendo scegliere preferirei la romanticizzazione alla demonizzazione, che senza dubbio è lo spirito con cui oggi si guarda al ceto basso. Quei poveracci, con le loro armi da fuoco e la loro religione e le loro opinioni non abbastanza progressiste, non saranno mai soggetti adatti per un’opera letteraria.

Gli scrittori contemporanei che decidono di ritrarre il ceto basso si misurano con questo senso di repulsione, spesso trasformandolo nell’argomento centrale delle loro opere. Prendiamo Lindsay Hunter, il cui recente romanzo Ugly Girls è un guanto di sfida lanciato ai piedi dei lettori che gradirebbero invece un pizzico di fascino e ricchezza in più. Le ragazze del titolo sono Perry e Baby Girl, studentesse delle superiori solo sulla carta, dato che passano la maggior parte del tempo a rubare macchine per andare in giro a vuoto, abbandonandole poi nei parcheggi dei Walmart. Sembrerebbe una classica situazione da racconto di Carver o Phillips – Perry vive addirittura in una roulotte – ma il tono è completamente diverso. Nel realismo sporco c’era spesso un senso di rassegnazione, uno scendere a patti con le delusioni o i fallimenti o la propria generale irrilevanza. A Perry e Baby Girl non succede. Il mondo le ha lasciate indietro e questo le ha rese selvatiche, sempre in cerca di stimoli e pronte ad aggredire chiunque provi a ostacolarle. Nel corso della storia tentano di sfuggire a un maniaco che si insinua nelle loro vite con messaggi, post su Facebook e truffe ai danni delle loro famiglie. (La critica a Facebook è particolarmente pesante: il massimo esempio dell’utopia esaltata della Silicon Valley viene ridotto a uno strumento di manipolazione per pervertiti bianchi.) Alla fine la violenza trabocca, macchiando di colpa tutte le parti in causa nel momento in cui sia il criminale sia le due spiantate attuano la loro vendetta.

Il romanzo di Hunter mi ha colpito perché è una buona storia raccontata bene, ma non solo. L’ho trovato profetico. Mentre i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri si beccano il cancro, Perry e Baby Girl non sembrano tanto delle outsider della nostra cultura quanto un indizio di ciò che verrà. Sono sempre di più i gruppi sociali che scivolano verso vari livelli del ceto basso, artisti e scrittori compresi. (Lo ammetto: scrivo queste parole in un Walmart, per ammazzare il tempo mentre mi cambiano l’olio alla macchina.) Leggere le esperienze del ceto basso non è solo un modo per capirlo meglio. È un modo per prepararsi al futuro, per fortificarsi contro le tempeste in arrivo.

 

La citazione di David Foster Wallace è tratta da «Futuri narrativi e i Vistosamente Giovani», in Di carne e di nulla, tr. it. di Giovanna Granato, Einaudi, Torino 2013, p. 109.

© Adam Fleming Petty, 2016. Tutti i diritti riservati.

Condividi