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Lo spettacolo della letteratura mondiale

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Pubblichiamo oggi un intervento del noto critico letterario messicano Rafael Lemus, comparso sulla rivista Letras libres nel luglio dello scorso anno, ringraziando l’autore e la testata. Si parla di nuovo di letteratture nazionali versus letteratura globalizzata, un tema già affrontato da Enrique Serna – non a caso citato nell’articolo – in un intervento che abbiamo già presentato e che si può leggere qui [2].

di Rafael Lemus
traduzione di Raffaella Accroglianò

Fino a non molto tempo fa, uno scrittore messicano si rassegnava a scrivere per i lettori messicani. Si sapeva, infatti, che solamente alcune opere letterarie riuscivano ad attraversare le frontiere del paese e che ancora meno arrivavano a essere tradotte in un’altra lingua e, forse per la stessa ragione, si producevano libri su libri che si ostinavano a scoprire o costruire o distruggere l’identità nazionale. Da un paio di decenni, però, è abbastanza più semplice superare i confini delle letterature nazionali e circolare in ambiti più ampi. Basta vedere ciò che accade: oggi sono una miriade i narratori latinoamericani che hanno agenti e viaggiano per fiere e vengono pubblicati in Spagna e tradotti in varie lingue. Peraltro: se sono tradotti, raramente è perché le loro opere hanno avuto un certo impatto all’interno delle letterature locali e premono per circolare in altri luoghi. Quasi il contrario: se hanno qualche impatto nel loro paese è perché sono state pubblicate da un editore spagnolo, o perché si sa che saranno tradotte, o perché i loro autori sono già stati riconosciuti in eventi internazionali.

Certo, gli scrittori che beneficiano di quest’ordine di cose rivendicano in continuazione che è tutto merito del loro talento; come se le loro opere fossero necessariamente superiori a quelle dei colleghi che, poverini, non sono tenuti in conto fuori del loro paese o a quelle di quei vecchi che, sciocchi, non seppero scrivere se non in chiave nazionalista.

Naturalmente non è così. Se i narratori latinoamericani circolano oggi più di ieri, non è perché sono migliori o più universali di quelli del passato, ma semplicemente perché oggi è più facile accedere ai circuiti internazionali. Si pensi a internet e ai social network. Si pensi alla portata delle case editrici spagnole. Si pensi, soprattutto, alla situazione economica: un capitalismo globale che travalica l’ambito degli Stati nazionali e chiede mercanzie, sempre più mercanzie, che possano viaggiare senza difficoltà.

Si sa che le forze economiche sono sempre seguite da discorsi che tendono a giustificare le loro pratiche. È noto anche il vecchio trucco di questi discorsi: minimizzare proprio i fattori economici e spiegare i fenomeni solo in chiave meramente simbolica. Così accade in ambito editoriale: mentre si espande e si globalizza il mercato, irrompono discorsi che presentano il fenomeno non come l’esito di certi processi economici, ma come una vittoria quasi spontanea dell’universalismo, come una conquista dello spirito umanista. Si può vedere: a partire degli anni Novanta si succedono testi e manifesti, come McOndo e il Crack nel caso latinoamericano, che proclamano l’estinzione delle letterature nazionali e la nascita di una letteratura mondiale alla quale partecipano tutti gli scrittori, in teoria felici e in circostanze uguali.

Pochi tra noi hanno esposto questo discorso con più convinzione di Christopher Domínguez Michael. In un saggio (¿El fin de la literatura nacional?) pubblicato prima nella Nouvelle Revue Française (n. 575, 2005) e poi nel giornale Reforma (El Ángel, 21 agosto, 2005), Domínguez Michael sostiene che, venuta meno “l’identificazione romantica tra cultura e nazione”, le letterature nazionali sono sul punto di estinguersi e diluirsi “nel seno della letteratura mondiale”. Non una letteratura mondiale qualsiasi: una repubblica delle lettere che, grazie agli effetti della globalizzazione, è già veramente mondiale e si direbbe quasi idilliaca. Una repubblica democratica, senza privilegi e senza particolarismi: “È ora di accettare che la festa è finita e che il prezzo per aver acquisito un posto nella letteratura mondiale si traduce nella fine della nostra eccezionalità e dei privilegi che il realismo magico, falso o vero, portò con sé”.

Una repubblica ugualitaria, senza centri né periferie: “Oggi uno scrittore messicano o colombiano ha la stessa opportunità sulla terra – per continuare a parafrasare García Márquez – di uno scrittore ceco o irlandese, per citare altre vecchie periferie che, come quella latinoamericana, finirono per occupare il centro”.  Una repubblica pacificata, senza tensioni postcoloniali: “Fatto salvo che nell’anima avvelenata di razzismo alla rovescia di alcuni professori, non esiste, né è mai esistita, in Messico e nel resto dell’America Latina, una ‘letteratura postcoloniale’”. Insomma, una letteratura mondiale che è, curiosamente, il rovescio del mondo: giusta e tranquilla, illuminata “dall’universalismo delle Luci” nella quale il “talento individuale” finisce sempre per imporsi.

Chiaramente c’è qualcosa di vero in tutto questo: i miti dell’anima nazionale sono stati felicemente criticati e – come hanno mostrato Pascale Casanova, Franco Moretti e altri teorici della World Literature – gli schemi nazionali con i quali si studiano normalmente le letterature non riescono più a rendere conto degli accelerati processi di trasferimento culturale attuale. È anche vero che esiste un vasto circuito internazionale di commercio di libri a cui partecipano sempre più attori e per il quale scrivono sempre più narratori. Ciò che è difficile accettare è l’idea che le letterature nazionali si siano estinte quando è chiaro che gli immaginari nazionali continuano a pesare, che i mercati locali e globali si sovrappongono e che le opere culturali appartengono simultaneamente, e con effetti differenti, ad ambiti locali, nazionali e internazionali. Ciò che non può essere assolutamente tollerato è questa concezione della letteratura mondiale come una repubblica giusta e mite. Essa è asimmetrica, e il potere e la voce sono distribuiti in modo iniquo. Ed è gerarchica, esistono centro e periferia, letterature maggiori e minori, lingue più o meno visitate, poetiche più o meno redditizie.

In fin dei conti non esiste nessuno scrittore mondiale. Ci sono scrittori radicati da una parte o da un’altra, influenzati da questa o quell’ideologia, vincolati a una lingua, che scrivono opere che si rivolgono ad alcuni lettori e non a tutti. Gli scrittori mondiali, quindi, devono essere prodotti; e anche rapidamente. Nelle nostre società consumistiche il mercato editoriale non può attendere che un autore si affermi da solo travalicando, a poco a poco, le frontiere locali; deve mondializzare scrittori il prima possibile. Come? Attraverso la pubblicità e lo spettacolo. Con tour promozionali, incontri internazionali e concorsi letterari il cui compito non è tanto riconoscere il lavoro di un autore quanto produrre capitale: capitale simbolico per i nuovi e vecchi autori che ricevono il premio, capitale tout-court per le imprese editoriali che organizzano tutta la giostra. Inoltre, una volta creato questo scrittore mondiale, è difficile che cada e torni là da dove è venuto. Il tipo può perpetrare le opere più atroci e i critici possono accanirsi quasi unanimemente contro di queste, eppure non succederà granché: di rado i dardi dei critici attraversano le frontiere, e ben poco possono contro il prestigio di una figura sostenuta dalle grandi case editrici e dai grandi premi.

Buona parte di questo spettacolo è creato, nel caso latinoamericano, da imprese e istituzioni spagnole. Tusquets, Anagrama, Babelia, la versione in castigliano di Granta, l’Istituto Cervantes, la Casa de América. O meglio ancora: Santillana, Planeta, Random House Mondadori. In altri tempi ci si sarebbe ricordati che, dietro ai discorsi pan-ispanisti formulati dalla Spagna, è solita nascondersi – come voleva Fernando Ortiz – un’ideologia “neoimperialista” che, mentre proclama l’esistenza di una cultura comune a tutte le nazioni di lingua spagnola, tende a nascondere le radicali differenze socioeconomiche tra la Spagna e alcuni paesi latinoamericani, e a giustificare gli interessi commerciali delle imprese spagnole in America Latina. Ora che l’universo letterario è in teoria amichevole e le rivendicazioni postcoloniali sono solo il prodotto di “anime avvelenate”, sembra che non rimanga altra opzione che quella di applaudire e seguire acriticamente lo spettacolo.

Uno dei trucchi più apprezzati degli scrittori latinoamericani, in questo spettacolo globalizzato, è disdegnare i loro scenari nazionali e situare le loro narrazioni nella Germania nazista o in qualche angolo dell’Asia, “lottando – come ha scritto Enrique Serna – contro lo stigma nefando di essere nati nella colonia Narvarte”. Un altro consiste nello scrivere uno spagnolo “standard”, senza regionalismi, pronto per essere tradotto. Sembrerebbe addirittura che per alcuni scrittori la lingua non sia più la loro materia prima ma una zavorra: qualcosa che denuncia un’origine e rende difficile il libero transito delle merci. Un ultimo e multipremiato trucco: assemblare una scrittura che viaggi ovunque e non incida da nessuna parte, che piaccia a pubblici diversi e non colpisca nessuno; una scrittura che, invece di convogliare le rivendicazioni di riconoscimento caratteristiche delle letterature minori, creda alla favola che non esiste più la periferia e che tutti abitiamo il mondo nello stesso modo.

Che sia chiaro: non si tratta di prendere la penna e ricalcare i bordi delle letterature nazionali, e ancor meno di attizzare il bieco nazionalismo e incoraggiare opere folcloristiche o essenzialiste. Esattamente il contrario: bisogna approfittare del fatto che il campo d’azione si è esteso per trascinare le dispute ideologiche oltre le frontiere. Perché motivi di disputa ce ne sono. Perché lo scenario, anche se globalizzato, continua a essere ingiusto. Perché, in fin dei conti, questa letteratura mondiale che tanti celebrano, non è la fine della storia.