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Ma il Cile si merita i suoi scrittori e poeti?

Raul Schenardi SUR

Il poeta cileno Nicanor Parra

Torniamo sul tema degli scrittori cileni presenti all’ultima Fiera del libro di Torino pubblicando un testo già uscito sul n. 104 di «Pulp», in edicola.

di Raul Schenardi

“Sarebbe delizioso / spaventare un notaio con un giglio mozzato / o ammazzare una monaca con un colpo d’orecchio.” Adolescente ribelle, non potevo non innamorarmi di questi versi di Neruda. Appartengono al II Libro di Residenza nella terra. Ricordo ancora il volume di opere scelte pubblicato da Sansoni con testo a fronte. Ma già poche pagine più avanti, arrivati al Canto generale (del 1950) c’erano versi irricevibili per uno spirito libertario: “Stalinisti. Portiamo questo nome con orgoglio. Stalinisti”. O gonfi di una retorica indigeribile: “In tre stanze del vecchio Cremlino / vive un uomo chiamato Giuseppe Stalin. / Tardi si spegne la luce nella sua camera. / Il mondo e la sua patria non gli danno riposo”. Per arrivare fino alla giustificazione delle purghe e del pugno di ferro: “Stalin innalza, pulisce, costruisce, fortifica / preserva, guarda, protegge, nutre, / ma castiga anche. / E questo è ciò che volevo dirvi, compagni: / c’è bisogno del castigo”. Per il resto il mio ricordo adolescenziale di Neruda, che coincide con l’immagine del poeta più diffusa tra il grande pubblico, riguarda i Venti poemi d’amore, ma avevo già dato con Prévert e non mi impressionarono granché. Le Odi elementari? L’ode al sedano, al carciofo, al pomodoro… Esercizi di stile più o meno divertenti e riusciti, ma non mi pare il caso di strapparsi i capelli e gridare al genio. Anche il Nobel che gli assegnarono nel 1971 non fece vacillare i miei gusti personali. Certo, se poi uno si ostina a dire che non gli piace la poesia di Neruda, o è Bolaño o rischia di passare per snob, o per bastian contrario.

Comunque, la figura del Vate era ancora incombente all’ultima fiera del libro di Torino, dove il Cile era il paese ospite d’onore. Eppure il Cile ha dato grandi poeti più o meno coevi di Neruda, più grandi di lui – e non sto certo parlando di Gabriela Mistral –, ma pare che l’editoria italiana non se ne sia accorta (del resto si sa, o si dice, che “la poesia non vende”).

Fortunatamente al salone si è parlato anche dall’antipoeta Nicanor Parra, classe 1914, Premio Cervantes 2011 – il Cervantes è considerato il Nobel della lingua spagnola –, fratello maggiore della famosa cantautrice Violeta, al quale rese omaggio in più occasioni Roberto Bolaño. Agli antipodi della poesia magniloquente di Neruda, delle sue metafore ampollose, i versi di Parra, fin da Poemas y antipoemas, del 1954, sono stati caratterizzanti dall’uso di un linguaggio colloquiale, iconoclasta, che pur muovendo dalle poetiche dell’avanguardia le rivoltava come un guanto: «Per mezzo secolo la poesia è stata / il paradiso dello scemo solenne. / Finché sono arrivato io / e ho installato le mie montagne russe. / Salite, se vi va. / Ovvio che non rispondo se scenderete / perdendo sangue dalla bocca e dal naso». All’estero, fra i primi a scoprirlo, tradurlo e pubblicarlo, furono Ginsberg e Ferlinghetti, che riconobbero in lui un “fratello dell’altra America”.

L’uso spregiudicato dell’ironia e il ricorso allo humour popolare – sempre svalutato dai puristi – ne hanno fatto un francotiratore che non ha mai risparmiato frecciate verso qualsiasi istituzione o autorità, senza guardare in faccia nessuno. Emblematico il suo atteggiamento nei confronti di Neruda, che ha punzecchiato per tutta la vita, persino in un discorso ufficiale pronunciato in suo onore, fissando la differenza essenziale fra sé, «l’antipoeta che viene considerato persona non gradita», e Neruda, «il poeta soldato che non esce mai senza il suo mitra». In una poesia si è permesso persino di scherzare sulla fama immortale della vaca sagrada e di altri poeti cileni: «Huidobro a 55 / Lihn a 58 / la Mistral a 68 / Neruda a 69 / Morale: / Gli immortali non arrivano ai 70». Ai versi di Parra bisogna aggiungere i collage e le installazioni, piuttosto gustose, come quando espose nel 2006, nel palazzo governativo della Moneda, le figure di tutti gli ex presidenti del Cile appesi per il collo.

Alla fiera i poeti hanno fatto la parte del leone, come presenza numerica e qualitativa. Fra gli altri Raúl Zurita, che alla pubblicazione di opere poetiche ha sempre unito la realizzazione di singolari performance; nel 1982 fece tracciare i versi di una poesia sopra il cielo di New York da alcuni aerei, e nel 1993 “scrisse” la frase Ni pena ni miedo nel deserto di Atacama, in dimensioni gigantesche (3 km di lunghezza per 400 m di altezza), alla maniera delle iscrizioni di Nazca, riconoscibili solo da un aereo. Feroce oppositore di Pinochet, fu incarcerato e torturato, e dopo il colpo di Stato, convinto che le parole non bastassero più per descrivere l’orrore che aveva sotto gli occhi, realizzò diverse performance in cui compì gesti di autolesionismo.

Vi sono state anche altre tavole rotonde dedicate a Oscar Hahn ed Elikura Chihuailaf, poeta mapuche. Purtroppo non si è fatta parola di Enrique Lihn (1929-1988), dimenticanza tanto più grave in quanto si tratta di un poeta che gode di un sempre crescente apprezzamento da parte della critica, tradotto in francese e in inglese fin dagli anni ’70, del quale Bolaño ebbe a scrivere: «Meritiamo noi cileni di avere Lihn?». Di certo Lihn sul Cile scrisse versi molto amari, chiamandolo “horroroso” e “presuntuoso”. Bolaño – di cui è in atto il processo di museificazione, dopo quello di mercificazione –, dal canto suo, come sappiamo, non fu mai tenero nei confronti del suo paese natale, e avrebbe voluto intitolare Tempesta di merda quello che poi divenne Notturno cileno.

Non spenderemo troppe lacrime per l’assenza delle celebrità, dalle autrici del boomerang, come le chiamava Carlos Fuentes (Isabel Allende e Marcela Serrano) ad Antonio Skarmeta. Immancabile invece Luis Sepulveda, che del resto da noi è di casa, anzi, da noi ha costruito le sue fortune diventando un campione assoluto di vendite – unico paese al mondo, peraltro, in cui gli è arriso un simile successo – mentre in Cile e nel resto del mondo, a eccezione della Francia, non se lo fila nessuno, tantomeno i critici.

Abbastanza numerosi i titoli di autori cileni usciti a ridosso della fiera. Le edizioni Sur hanno proposto Il luogo senza confini, di uno degli scrittori più schivi del boom latinoamericano, José Donoso, nella nuova e azzeccata traduzione di Francesca Lazzarato, che firma anche una dettagliata e acuta “Nota bio-bibliografica”. Il “luogo senza confini”, come si evince dall’epigrafe dal Dottor Faust di Marlowe, è l’inferno; più prosaicamente si tratta di un bordello in un paesino rurale del Cile, gestito da un travestito e dalla figlia, dove spadroneggiano i bulli dei dintorni e soprattutto il latifondista che vuole impadronirsene. Donoso non rivelò mai pubblicamente la propria omosessualità – ne parla però nei suoi diari –, ma questo romanzo non lascia dubbi in proposito, denunciando la ferocia della segregazione sessista. Onirico, simbolico, sintatticamente impervio per i continui cambi di soggetto, basato su un linguaggio colloquiale e su drammatici monologhi interiori, Il luogo senza confini è sicuramente un romanzo “eccentrico”, come recita la quarta di copertina, e Arthur Ripstein ne trasse un film.

La Nuova Frontiera ha presentato Sangue negli occhi di Lina Meruane (tr. di Luca Mariotti). L’autrice vive a New York, dove ha fondato una interessante casa editrice (Brutas Editora), ed è tradotta in tutte le principali lingue europee. Con questo romanzo si è aggiudicata nel 2012 l’importante premio Sor Juana Inés de la Cruz. La protagonista di Sangue negli occhi, una scrittrice, soffre di una grave emorragia destinata forse a condurla alla cecità: tutto quel che vede è un lago di sangue. L’autrice però non sceglie di trattare la cecità come semplice metafora, e non sono quindi pertinenti i raffronti con il Rapporto sui ciechi di Sabato o con Cecità di Saramago. Il suo gioco è più sottile: confinata in un mondo ridotto ai minimi termini dal punto di vista spaziale, la protagonista avvia il meccanismo della memoria, e dall’esilio newyorkese ripensa la storia della sua famiglia, il legame con il compagno che teme di perdere e con il lontano paese natale; insomma, un vero e proprio bilancio esistenziale a partire da una delle minacce più spaventose che terrorizzano gli esseri umani: restare ciechi.

Tra gli invitati anche Alejandro Zambra, classe 1975, incoronato nel 2010 dalla rivista «Granta» tra i migliori scrittori in lingua spagnola con meno di 35 anni, e già tradotto in Italia (Bonsai, Neri Pozza, 2007, tr. di Fiammetta Biancatelli; dal libro è stato tratto un film presentato al Festival di Cannes nel 2011). Mondadori ha pubblicato recentemente, il suo Modi di tornare a casa (tr. di Bruno Arpaia), un romanzo che si iscrive nella cosiddetta “letteratura dei figli”, ovvero il racconto del periodo delle dittature militari da parte di quelli che all’epoca erano soltanto dei bambini, la generazione dei figli dei protagonisti di quei fatti storici, come vittime o come carnefici. Il protagonista del romanzo, diventato scrittore, torna sui luoghi della sua memoria infantile, segnata dal terremoto del 1985, vuole capire perché i suoi genitori non abbiano mai condannato Pinochet, scoprire cos’è accaduto veramente, al di là del discorso della storia ufficiale. Zambra possiede indubbie qualità narrative, ma il tema è stato affrontato con risultati più brillanti dall’argentino Patricio Pron in Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia (Guanda, 2013, tr. di Roberta Bovaia).

A Torino era presente anche un veterano delle lettere cilene, Jorge Edwards, classe 1931, che nella sua vita ha collezionato premi importanti, fra cui il prestigioso Cervantes nel 1999, e altrettanto importanti incarichi diplomatici (attualmente è ambasciatore in Francia). Dopo una permanenza parigina durante la quale frequentò Fuentes, Vargas Llosa e Márquez, nel 1971 il governo di Allende gli affidò la delicata missione di riaprire l’ambasciata nella Cuba castrista. Da quell’esperienza nacque un libro, Persona non grata, pubblicato anche in Italia da Bompiani nel 1975, che rimane un documento piuttosto interessante per studiare e capire i rapporti conflittuali tra due strategie – la via pacifica ed elettorale rappresentata dal governo di Unità Popolare in Cile e la strategia dei fuochi guerriglieri propugnata da Castro – che si scontrarono in quegli anni nel subcontinente americano. Disprezzato dai barbudos per la sua provenienza sociale e familiare, per le frequentazioni di intellettuali e scrittori, la permanenza di Edwards sull’isola diventò sempre più scomoda, finché una notte fu prelevato dai servizi segreti e condotto alla presenza di Fidel e del ministro degli Esteri: pur senza essere dichiarato ufficialmente “persona non grata”, dovette lasciare l’isola, accusato di cospirare con scrittori dissidenti, in particolare con Heberto Padilla, all’epoca al centro di un caso internazionale che segnò la rottura con la rivoluzione cubana di parecchi intellettuali di sinistra europei. Oltre che per l’aspetto documentale, il libro è interessante per il coinvolgimento emotivo dell’autore, che scrive una sorta di diario intimo a cui consegna i suoi dubbi, la lacerazione interiore di un militante di sinistra nel vedersi respinto dalla prima rivoluzione vittoriosa, e la delusione di fronte alla deriva autoritaria del potere castrista.

Per il resto Edwards non ha mai avuto una grande fortuna editoriale in Italia, e forse non è stato aiutato dai titoli scelti finora per la pubblicazione, fra cui quello appena uscito per Besa, L’origine del mondo (tr. di Francesca Isnardi). Racconta la storia dell’ossessiva gelosia senile del protagonista, che si convince di un tradimento della moglie con uno dei suoi migliori amici, morto di recente. Ambientato a Parigi, una Parigi un po’ di maniera popolata da intellettuali di sinistra latinoamericani troppo simili a dei cliché, infarcito di citazioni letterarie e di strizzatine d’occhio al lettore colto, è un romanzo che si lascia leggere e poi dimenticare.

Tra gli invitati anche Roberto Ampuero, il creatore di uno degli ormai numerosi detective latinoamericani, Cayetano Brulé, protagonista di una serie di successo pubblicata in Italia da Garzanti. Neanche Ampuero, tanto per cambiare, risiede in Cile, ma negli Stati Uniti, e anche lui ha scritto un romanzo documentale autobiografico sulla sua esperienza a Cuba. Il libro, uscito in Italia nel 2008 per Fusi orari e caduto nel silenzio, s’intitola I nostri anni verde oliva, e racconta una doppia fuga dell’autore: la prima, dal Cile dopo il colpo di Stato – fuga che lo conduce a Berlino est, dove si innamora di una cubana – e la seconda da Cuba, dopo la feroce delusione provocata dall’esperienza reale del socialismo castrista.

L’editore Atmosphere ha presentato ben tre libri di autori cileni, tutti diversamente interessanti. Tanto per cominciare scende in campo un nuovo detective, Heredia, uno dei più longevi in America latina, con alle spalle ben 13 titoli della fortunata serie di Ramón Díaz Eterovic. E a quanto mi dice chi li ha letti tutti, quello presentato alla fiera è forse il più bello: L’oscura memoria delle armi (tr. di Enrico Passoni). Indagando sull’omicidio di un attivista per i diritti umani, Heredia risale all’epoca della dittatura, delle torture e delle sparizioni, e l’autore ne approfitta per darci la sua chiave di lettura della recente storia cilena: la transizione alla democrazia è stata più apparente che reale, i militari che si erano macchiati di crimini orrendi sono rimasti impuniti e sul paese è scesa una cappa di silenzio e di omertà.

Curiosamente, o non tanto, anche Fiori per un cyborg, del giovane Diego Muñoz Valenzuela, presentato in Fiera dal suo traduttore Danilo Manera, contiene identici giudizi: «La riconciliazione aveva il suo prezzo: se da un lato aveva reso possibile la scarcerazione dei prigionieri politici, dall’altro aveva lasciato impuniti carnefici e mandanti della guerra sporca». Fiori per un cyborg è un romanzo di fantascienza arguto e brillante che si riallaccia idealmente alla s-f di Robert Schekley. Declina in modo imprevedibile un personaggio ormai familiare, il cyborg, di cui offre una versione decisamente accattivante, intrisa di un sano umorismo latinoamericano. Così, l’androide creato dal protagonista, mentre si preoccupa di avere una vita sessuale da essere umano, si trasforma in un giustiziere e salda i conti con vecchi gerarchi criminali.

Decisamente politico anche il romanzo di Diamela Eltit, Imposta alla carne (tr. di Natalia Cancellieri). Del resto, l’autrice ha declinato l’invito a partecipare alla fiera perché fortemente critica nei confronti dell’attuale governo cileno. Pubblicato in patria nell’anno in cui si festeggiava il Bicentenario della decolonizzazione, Imposta alla carne è un lungo monologo di una-due donne, madre e figlia, che vivono in un unico corpo, in un lugubre ospedale dove sono sottoposte a ogni sorta di vessazioni da parte di medici fanatici. Un libro sicuramente “difficile”, di un’autrice finora considerata troppo sperimentale o di nicchia dalla nostra editoria, ma apprezzata dalla critica internazionale.

Senza voler tracciare un bilancio critico, sia pure sommario, delle presenze-assenze (sarebbe stato bello, per esempio, contare su Pedro Lemebel, o veder dedicare una tavola rotonda a Juan Emar), si può rimarcare un fatto: gli enti promotori istituzionali hanno naturalmente preferito dare spazio e visibilità alle icone consacrate anche dal mercato editoriale. Bastava fare un giro nel padiglione dedicato per accorgersene. Ma, al di là di questo, non fa riflettere il fatto che quasi tutti i poeti o gli scrittori cileni, morti o viventi, invitati o no a questa fiera, ci abbiano offerto un’immagine estremamente critica del loro paese? Che tanti di loro abbiano subìto o scelto l’esilio e la permanenza all’estero anche dopo il cosiddetto “ritorno della democrazia”? Non sarà il caso di ampliare l’interrogativo di Bolaño e domandarsi: «Merita il Cile i suoi migliori scrittori e poeti?».

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