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La nuova Cuba? / 2

II 

I libri di storia utilizzati nelle scuole cubane esaltano la Rivoluzione come una salvezza e generalmente la riducono a una biografia di Fidel Castro. Forse un giorno gli studenti cubani avranno la possibilità di accedere anche ad altre interpretazioni della storia.[1] [1] Quando questo giorno arriverà, Visions of power in Cuba: Revolution, redemption, and resistance, 1959-1971, della storica statunitense di origine cubana Lillian Guerra, sarà una lettura dovuta, anche se amara. In un linguaggio accademico piuttosto spento, che contrasta con il coraggio delle intuizioni espresse, il libro racconta il progressivo stabilirsi della dittatura più lunga della storia latinoamericana.

Non è una storia politica convenzionale, ma la storia sociale del regime politico cubano nel periodo più cruciale: gli anni Sessanta. L’autrice ha portato a termine una ricerca ventennale presso gli archivi di Cuba, e fondi dell’esilio, come la Cuban Exile Collection e la Cuban Revolution Collection dell’Università di Yale, che le ha permesso di ricostruire la modalità in cui Castro ridusse poco a poco tutte le libertà civili e limitò l’autonomia degli enti sociali, fino a controllarli completamente.

Quando i rivoluzionari salirono al potere, un abitante su sei nell’isola possedeva un apparecchio radio e uno su venticinque una televisione (erano secondi solo agli Stati Uniti). Circolavano centoventi testate giornalistiche, fra le quali la rivista politica Bohemia, che nelle prime tre settimane del 1959 vendette un milione di copie, celebrando il trionfo della Rivoluzione come un’apoteosi. La straordinaria quantità di pubblicazioni, la maggior parte delle quali favorevoli alla Rivoluzione, fece sì che Castro moltiplicasse l’effetto dei propri discorsi, mentre un milione di persone lo acclamava, esprimendo il proprio assenso a mano alzata. Fu il primo leader di massa che governò per televisione.

Una delle realtà riportate da Lillian Guerra è l’uso politico che Fidel fece della religione. «Parlano male di me», diceva ripetutamente, «perché ho detto la verità. Hanno crocifisso Gesù Cristo per aver detto la verità […] Chi condanna la Rivoluzione condanna Cristo e si dichiara capace di crocifiggere Cristo un’altra volta».

Nonostante la sua formazione gesuita, Castro non credeva nei dogmi religiosi. Tuttavia, sosteneva e imponeva le proprie convinzioni come fossero dogmi, in tutto e per tutto simili a quelli cattolici. Attorno a lui cominciò a formarsi un nuovo credo, il fidelismo: si organizzarono messe rivoluzionarie, pellegrinaggi ai luoghi sacri sulla Sierra Maestra e sul monte Turquino (al quale Fidel era asceso), si tenevano rappresentazioni su Fidel, tratte dalle scene evangeliche. Un vecchio contadino di L’Avana, chiamato Fidel Blanco, ebbe una volta questa conversazione con un giornalista della rivista Carteles:

«Che ne pensa della riforma agraria?»

«Che è una benedizione voluta da Dio».

«Vuol dire da Fidel, dalla Rivoluzione?»

«No, voglio dire proprio da Dio, per mezzo di Fidel».

Il nuovo credo coniò un vastissimo repertorio lessicale riferito ai «cattivi» cubani («traditori», «vendipatria»), per terrorizzarli e indurli ad agire al grido di «Fidel, sacude la mata!», e acclamando «Paredón!» L’esecuzione dei soldati di Batista, definita «giustizia rivoluzionaria», ebbe un vasto appoggio popolare. Ma in seguito Fidel instaurò ciò che egli stesso definì il «terrore rivoluzionario». Una delle sue prime vittime fu il popolare comandante della rivoluzione Huber Matos. Per aver criticato l’evidente scalata al regime del Partito Socialista Popolare (rivisitazione del Partito Comunista), Matos, che non si ribellò mai, venne arrestato nell’ottobre del 1959, e condannato a vent’anni di prigionia.

In termini politici, Fidel agì con altrettanta solerzia: assunse l’incarico di Primo Ministro, fece a meno delle elezioni e del sistema repubblicano di divisione dei poteri e instaurò la «vera democrazia», (votazione ad alzata di mano in Plaza de la Revolución, immortalata da una delle immagini reperite dalla Guerra). Quindi portò a termine le prime purghe all’interno del gruppo che lo aveva appoggiato durante la Rivoluzione. Nel marzo del 1959, Raúl Castro concordò con Mosca un programma sovietico di addestramento per l’esercito cubano e l’organizzazione di un corpo di polizia segreta, noto come G2.

Nonostante tutto, fino alla fine del 1959 la rivoluzione cubana sembrava – almeno nei suoi fini dichiarati – una versione radicale di quella messicana, nazionalista, «umanista», egualitaria e sociale. Ma la visita del premier sovietico Anastás Mikoyán nel febbraio del 1960 e l’accordo di cooperazione sottoscritto con l’URSS (cinque milioni di dollari, scambio di zucchero per petrolio) furono segnali inequivocabili della direzione che avrebbe preso il regime. Ciò che seguì fu l’eliminazione dei mezzi di comunicazione indipendenti, delle istituzioni civili e della libertà di espressione e l’ingente sgretolamento del mercato.

Fra il maggio e il luglio del 1960, spontaneamente o con la forza, scomparvero i quotidiani di altre tendenze politiche (uno di questi risaliva al 1827). Così pure le riviste. Un caso particolarmente drammatico fu quello di Bohemia, il cui direttore Miguel Ángel Quevedo si rifugiò in Venezuela per suicidarsi qualche anno più tardi, lasciando la testimonianza scritta della propria esperienza. Rimase solo Revolución, il quotidiano del regime, che nel 1965 si sarebbe fuso con il nuovo giornale Granma. L’Università – istituzione di riferimento per la libertà del pensiero critico nelle società civili latinoamericane – perse la propria autonomia; le organizzazioni studentesche espulsero chi non aveva approvato la repressione di Mikoyán in Ungheria (ottobre del 1956) e imposero l’adesione incondizionata ai principi rivoluzionari; le stazioni radio-televisive furono confiscate. La Chiesa cattolica fu neutralizzata. Fra l’agosto e il novembre dello stesso anno, il governo espropriò decine di imprese e di beni appartenuti ai cittadini statunitensi e, fra ottobre e novembre furono confiscate 550 imprese, nazionali e nordamericane, ovvero l’80% di tutto l’impianto produttivo del Paese. I sindacati smisero di rappresentare gli operai, per farsi garanti della produttività delle imprese statalizzate.

Fidel intendeva proiettare sulla società civile il modello della vita militare, sperando di ottenere, così, una società di soldati della fede. Sembrava capeggiare una nuova chiesa militare, composta da frati in uniforme verde oliva e stivali (che non si tolsero mai), determinati a convertire il mondo alla purezza con le armi. Lillian Guerra descrive nei particolari l’attività purificatrice di queste organizzazioni militari, un mare di sigle create da Fidel all’inizio degli anni Sessanta per includere trasversalmente la società: donne, studenti, agricoltori, operai, burocrati, scrittori, artisti e perfino i bambini, in marcia con la carabina in mano.

Una di queste organizzazioni fu il cdr, ovvero il Comitato di Difesa della Rivoluzione, creato nel settembre del 1960, affinché i cittadini vigilassero nel proprio quartiere sulla purezza rivoluzionaria dei vicini, denunciandone le devianze. Fidel definì questi Comitati «la retroguardia civile dell’avanguardia armata delle milizie e delle Forze Armate Rivoluzionarie, nella lotta contro il nemico interno ed esterno» e aggiunse: «vermi e parassiti non possono agire, quando è il popolo stesso […] a vigilare».[2] [2]

Fra il 1962 e il 1965, le città cubane furono scenario di una lotta di classe fra i cosiddetti gusanos (vermi) e i cederistas (membri del cdr) che esercitavano ciò che la Guerra definisce una «dittatura capillare». I gusanos rifiutavano di aderire ai principi rivoluzionari, pur non avendo condiviso l’invasione di Playa Girón e chiamavano i profughi di Miami «rampolli dei gringos». Coniarono un gergo particolare: bolas, le notizie, le voci che corrono; radio bemba, il passaparola. Oltre alla vigilanza ideologica, i cederistas rivestivano altre funzioni: mobilitavano la popolazione del quartiere per tagliare le canne da zucchero, per esempio, o quando c’era bisogno di donazioni di sangue, quando c’erano da sequestrare «averi» agli esiliati, da vaccinare bambini oppure quando serviva gente che divulgasse il vangelo rivoluzionario. Fidel li chiamava «un millón de tapabocas» per come riuscivano a mettere a tacere le critiche sulla Rivoluzione. Chi era ritenuto impuro dal cdr, veniva sottoposto dal governo a un trattamento di elettroshock in qualche ospedale psichiatrico. Nel 1964, un terzo della popolazione adulta cubana era cederista ed entro il 1967 la determinazione, o quantomeno la visibilità, dei gusanos era stata annientata, con mezzi persuasivi o intimidatori.

Cavalcando l’onda dell’oltraggio che gli Stati Uniti avevano inflitto a Cuba (della cui gravità i governi statunitensi non si sono mai resi conto), la propaganda anti-yankee caratterizzò tutta questa fase storica e alzò i toni: «Qué tiene Fidel / que los yanquis no pueden con él?» Dopo il fallimento dell’invasione di Playa Girón (finanziata dalla cia) il prestigio storico di Fidel e della Rivoluzione raggiunse il suo punto massimo: fu il trionfo del Davide caraibico contro il Golia imperiale.

Tuttavia, prima ancora di quell’invasione, a Escambray si era scatenata la rivolta di migliaia di contadini che non volevano diventare operai delle «grandi aziende agricole statali». Lillian Guerra ipotizza che questi potessero essere appoggiati dalla cia e documenta la violenza dell’operazione militare che si scatenò contro i cosiddetti «banditi». La chiamarono «pulizia di Escambray»: quasi tremila morti da ambo le parti. Nell’estate del 1963, il governo portò a termine la dislocazione di massa di tutti i contadini maschi da Escambray a Pinar del Río e quella di donne e bambini a Miramar, a La Avana. Un totale di 35.000 persone fu ricollocato ed Escambray divenne una zona militare e un parco nazionale. Nel 2005, per la prima volta dopo quarant’anni, Raúl Castro parlò di quegli avvenimenti come di episodi di «guerra civile».

Parallelamente, e senza l’intervento della cia, anche i contadini di Matanzas si ribellarono. «La totale assenza di latifondi e rapporti equilibrati tra imprenditori agricoli e dipendenti (ben formati e ben remunerati)», scrive la Guerra, «fecero sì che Matanzas non fosse una provincia rivoluzionaria». La gran parte delle guerriglie di Matanzas durarono fino agli inizi del 1963. Ci furono incarcerazioni di massa, «tribunali improvvisati», campagne di proselitismo rivoluzionario, militarizzazione dei figli. Nel 1963, la Seconda Riforma Agraria impose il passaggio dal modello capitalista di Matanzas – straordinariamente egualitario – al modello comunista.

Nel 1965 cominciò a verificarsi un fenomeno generazionale, che la Guerra traccia in modo ammirevole: accanto alle milizie rivoluzionarie ben inquadrate, esisteva una vasta ed eterogenea porzione della società non organizzata, in cui spiccava la componente giovanile. Questa nuova generazione aveva vissuto in prima persona, durante l’infanzia, il trionfo della Rivoluzione e a metà degli anni Sessanta cercava di affermarsi (come accadeva nel resto del mondo occidentale e perfino nell’Europa dell’Est), in sandali e capelli lunghi, ascoltando i Beatles e praticando una libertà sessuale senza restrizioni. Si trattava di una forma di ribellione che non aveva gli estremi di una contestazione politica, ma era culturale e, a loro modo di vedere, rivoluzionaria. La Guerra racconta la storia delle loro transitorie riviste, delle loro riunioni e delle polemiche, delle loro critiche verso ciò che poi (nell’era di Raúl) sarebbe diventato tema corrente di protesta a Cuba, anche da parte dei mezzi di comunicazione ufficiali: gli abusi della burocrazia, la negligenza dei funzionari, lo spreco delle risorse.

Fidel non mostrò pazienza con la nuova generazione e, a partire dal 1965, fece dell’idea guevarista dell’«uomo nuovo» una politica di stato. Le riviste giovanili (El SableEl Puente) furono chiuse e molti dei loro collaboratori furono spediti nei campi di lavoro per essere «rieducati». Fidel arrivò al punto di chiedere ai giovani di denunciare i propri genitori, qualora manifestassero il desiderio di abbandonare Cuba, ma la persuasione non bastò: nel 1968 spedì diecimila volontari in età scolare e «pre-delinquenti», all’Isola di Pinos, ribattezzata «Isola della Gioventù», dove l’occupazione di maggior prestigio consisteva nel tagliare canne da zucchero.

Sempre nel 1965, Fidel creò le umap (Unità Militari di Aiuto alla Produzione), campi di lavoro forzato dove finirono parecchi di quei ragazzi «dementi», «gusanos», «antisociali». Fra questi abbondavano i Testimoni di Geova, gli Avventisti del Settimo Giorno, i gruppi protestanti, i Battisti, i praticanti delle religioni afrocubane. Ma l’odio del regime si scatenò soprattutto sugli omosessuali. Nella sua opera Antes que anochezca, il grande scrittore cubano Reinaldo Arenas ha lasciato una testimonianza agghiacciante della propria permanenza in quelle «unità», e Lillian Guerra la integra con documenti di prima mano, di valore inestimabile. Oltre che al lavoro forzato, l’«igiene rivoluzionaria» delle umap volle sottoporre gli omosessuali a trattamenti pavloviani per «curare quella loro malattia». Si calcola che fra il 1965 e il 1968 passarono per le umap ben 35.000 persone. L’omofobia ufficiale perdurò fino agli anni Ottanta.

Secondo Fidel, le piccole aziende superstiti rappresentavano il germe del capitalismo, che andava assolutamente estirpato. In capo a pochi giorni, nel 1968, le delegazioni del cdr espropriarono 58.000 piccole aziende private (compresi banchetti di alimentari, ciabattini, accademie di musica, saloni di bellezza, laboratori di cucito, lavanderie, parrucchieri, bar, locali notturni). Paradossalmente, la maggior parte di queste attività commerciali era sorta dopo la Rivoluzione. Molti di quegli imprenditori «piccolo borghesi» furono obbligati a dedicarsi a lavori di manodopera pesante nei campi oppure nel settore edile. E, sebbene non scomparvero del tutto, quello stesso anno, vennero confiscati anche molti piccoli appezzamenti terrieri ai contadini.

A Fidel piaceva rivestire il ruolo dell’imprenditore unico, assoluto, in un’isola senza imprenditori. Non è un caso che alcuni critici abbiano parlato dell’«isola come proprietà terriera» di Fidel.[3] [3] (Suo padre era stato padrone di una tenuta immensa.) Fu lui a ordinare l’incrocio della pregiata razza Cebú di bue afro-cubano con la vacca svizzera Holstein (il che ridusse al 60% l’immensa ricchezza rappresentata dall’allevamento del bestiame a Cuba). Fu ancora lui a ordinare lo smantellamento dell’anello di alberi da frutto e agrumi che circondava La Avana, per sostituirlo con la coltivazione di una varietà di caffè, che risultò un disastro. E fu sempre lui a sostenere che la raccolta di dieci milioni di tonnellate di canna da zucchero per Cuba era «una questione di onore a sostegno della Rivoluzione». La «produzione da dieci milioni» nel 1970 fu l’apice del velleitarismo economico di Fidel Castro. Mai come allora aveva esercitato una gestione tanto personale e patrimoniale sull’economia del Paese. Diede dimostrazione di poter mobilitare centinaia di migliaia di persone in ogni settore economico e sociale, per perseguire il proprio obiettivo. Uno studente che aveva preso parte a quell’episodio dichiarò: «non abbiamo lavorato per Fidel né per il suo onore». Dopo l’insuccesso, Fidel lamentò l’ingente prezzo pagato dalla Rivoluzione per quell’«apprendistato» e, di fronte all’aumento dell’assenteismo nelle campagne e nelle città (espressione ultima del diritto di sciopero), decretò una legge contro la pigrizia e chiuse i confini dell’isola: secondo Castro, non c’era più nessuno che volesse abbandonare Cuba. L’emigrazione dunque si fermò, fino all’esodo massivo di Mariel nel 1980.

Il segnale definitivo dell’annessione al blocco sovietico fu il famoso Caso Padilla, versione tropicale dei processi di Mosca. Dal 1967, il poeta Heberto Padilla si era permesso di criticare «la nostra versione in miniatura dello stalinismo, le nostre umap» e in un libro di poesie aveva steso versi come questi, tratti da Intorno agli eroi (traduzione di Gordiano Lupi, ndr):

Gli eroi non dialogano,
ma progettano con emozione
la vita affascinante di domani.
Gli eroi ci dirigono
e ci pongono davanti allo stupore del mondo.
Ci concedono perfino
la loro parte di Immortali.
[…]

Modificano a loro modo il terrore.
E alla fine ci impongono
la violenta speranza.

Nel marzo del 1971 Padilla fu arrestato e, dopo cinque mesi di prigionia e di interrogatori quotidiani, «confessò» di aver commesso un crimine contro la Rivoluzione. Diversi scrittori di fama, allora, protestarono pubblicamente e Castro fece mettere tutti sotto censura. La parola d’ordine che Castro aveva pronunciato nel 1961 era già sentenza: «dentro la Rivoluzione, tutto; contro la Rivoluzione, niente».

Anche adesso è così. A Cuba, è vero, la società ha recuperato un certo spazio: vengono tollerate (con molte restrizioni) le attività economiche private e una certa libertà di movimento (anche se ai cubani è vietato salire sulle barche dei turisti). Non si tormenta la gente per il modo di vestire, i gusti musicali, l’orientamento sessuale o le credenze religiose. Tuttavia, proprio come per le strade di Cuba ancora circolano vecchie Ford e Chevrolet, la vita politica e le libertà civili sotto la dittatura che Fidel impose tra il 1959 e il 1971 sono rimaste come congelate. Nel 1960 furono messi a tacere la stampa, la radio, la televisione, le università, i movimenti studenteschi, i sindacati. Oggi viene messa a tacere ogni manifestazione di dissenso.

I dissidenti oggi non vengono più spediti nei campi di lavoro, ma nel 2014 ci furono a Cuba 8899 detenzioni politiche temporanee, il quadruplo rispetto a quelle del 2010 e il 40% in più rispetto al 2013.[4] [4] A Cuba «abbiamo un concetto diverso dei diritti umani», affermò la cancelliera cubana Josefina Vidal a Roberta Jacobson durante la prima riunione a La Avana, il 22 gennaio 2015.

Questa è la Cuba con la quale il presidente Barack Obama ha deciso di ristabilire le relazioni diplomatiche, compiendo un gesto audace e intelligente, ma denso di rischi sul piano politico.

 

III

Alla luce della storia economica e sociale di Cuba, si fanno più comprensibili le vicissitudini diplomatiche e politiche che hanno caratterizzato la controversia con gli Stati Uniti ed è questo il tema del libro Back channel to Cuba: The hidden history of negotiations between Washington and Havana, di William M. LeoGrande e Peter Kornbluh. Questa straordinaria ricerca impegnò gli autori per ben due anni e vanta un indice delle fonti di 65 pagine, che riconducono ad archivi privati e pubblici, a documenti declassificati e a interviste con i sopravvissuti. Non è un caso che il libro sia comparso qualche mese prima del riavvicinamento fra Raúl Castro e Obama: sembra il loro prologo teorico.

Ripercorrendo le storie dei due Paesi, risulta chiaro che un accordo come quello attuale sarebbe stato di fatto impossibile durante il lungo periodo della Cuba schierata a fianco dell’urss e dei suoi stati satelliti. Ci sono sempre stati, però, canali secondari di comunicazione, storie e personaggi che sembrano ispirati ai film di James Bond, nel concitato tentativo di favorire le condizioni per un avvicinamento. Di tanto in tanto qualche tentativo ha anche avuto successo, soprattutto per ciò che riguarda il problema migratorio e la liberazione dei prigionieri. Quel che è certo è che prima e dopo quella fase si sono aperti solo due spiragli: durante la prima amministrazione di Clinton e nel lontano periodo di Kennedy.

Fra il 1971 e la caduta del muro di Berlino, Cuba non soltanto vantò un cospicuo sussidio e un commercio stabile e fiorente con l’estero, ma dal 1972 – «anno dell’emulazione sovietica» – iniziò ad adottare l’ideologia e ad assimilare le istituzioni dell’urss. La Costituzione del 1975 sancì un regime di partito unico, fondato sulla dottrina marxista-leninista. La storia venne riscritta sulla base del libretto sovietico, venne adottato l’«ateismo scientifico», vennero pianificati progetti culturali e interscambi studenteschi. Ciononostante Henry Kissinger, senza consultare Nixon né Ford, riuscì a tendere qualche ponte, che venne subito chiuso, però, dopo l’annuncio dell’appoggio militare cubano al regime di Agostinho Neto in Angola. Nel 1976, in un gabinetto tra «falchi» e «colombe», che vide anche l’intervento di vari assessori e di personalità dell’esilio, l’amministrazione di Jimmy Carter cancellò ogni restrizione di viaggio a Cuba, aprì uffici di rappresentanza («interest sections») a Washington e a La Avana, sospese i voli di ricognizione sull’isola e ottenne in cambio la liberazione dei prigionieri e un maggior contenimento del flusso migratorio, iniziato nel 1980 dal porto di Mariel. Purtroppo le tensioni dovute alla presenza cubana in Mozambico e in Angola e la realtà dell’embargo statunitense (imposto nel 1962) compromisero il buon esito di quella decina di conversazioni segrete tenutesi a La Avana, a Washington, a New York e persino a Cuernavaca. Secondo gli autori, Carter fu il presidente del Dopo Guerra Fredda, quando la Guerra Fredda non era ancora finita.

L’esatto contrario di Ronald Reagan, il suo successore. Nel marzo del 1981, il segretario di Stato Alexander Haig espresse il desiderio di «trasformare l’isola maledetta in un accampamento militare». Nel corso di quegli otto anni, la controversia non riguardava più solo l’Angola, ma soprattutto l’appoggio che Castro offriva al governo sandinista in Nicaragua e alla guerriglia centroamericana in Salvador. Al culmine del suo potere politico e sull’onda di un rinnovato prestigio attribuito alla Rivoluzione socialista da parte della nuova generazione di giovani latinoamericani, Castro accolse senza drammi l’inasprimento degli Stati Uniti, i quali inserirono Cuba nella lista degli Stati Terroristi, intensificarono l’embargo e misero in funzione la stazione radiofonica Radio Martí. Anche in quel periodo, però, alcuni canali di comunicazione rimasero aperti e si fecero alcuni passi avanti in merito al problema immigrazione. Dopo la guerra in Angola (che vide trionfare la causa di Cuba e dei suoi alleati), la caduta del muro di Berlino e le elezioni in Nicaragua e in Salvador (due schiaffi storici per la politica estera cubana), George H.W. Bush pretese apertamente un cambiamento di regime.

Nel 1993, con il 50% dell’inflazione, la diminuzione del 35% del pil e del 78% nella spesa pro capite, Cuba sembrava vicina al collasso. La Legge Torricelli del 1992 – con entusiasmo – lo percepì. Sancì dunque la proibizione per qualunque azienda straniera, che avesse una filiale negli Stati Uniti, di avere relazioni commerciali con Cuba, negò ai cittadini statunitensi la possibilità di recarsi in viaggio sull’isola e vietò alle famiglie cubano-statunitensi di inviare denaro ai parenti residenti sull’isola.

Il presidente Clinton decise di smorzare l’aggressività dei toni e ristabilì i voli fra Miami e La Avana. Fidel, da parte sua, accettò il rimpatrio dei cubani con passato criminale, approdati negli Stati Uniti con l’esodo di Mariel. Nell’agosto del 1994, mentre esplodeva la crisis de los balseros, di fronte all’arrivo delle zattere, Clinton si rivolse al presidente messicano Carlos Salinas de Gortari, affinché facesse da intermediario. In due settimane di intense trattative, il grave conflitto venne risolto. In assenza dell’ostacolo rappresentato dall’urss (ormai dissolta) e dalle guerre in Africa e in Centro America, Castro non aveva altre carte da giocare, se non i prigionieri (ai quali concedeva la libertà a propria discrezione), la minaccia dei migranti e l’embargo, che simboleggiava l’ultimo suo baluardo ideologico: Davide contro Golia. Il Congresso, dominato dai repubblicani, approvò nel 1996 la Legge Helms-Burton, che inasprì l’embargo. Durante l’amministrazione di George W. Bush, la politica nei confronti del regime castrista ripropose il modello del padre, ma Castro aveva trovato, a sua volta, un accolito ideologico e politico, che sarebbe presto diventato un nuovo mecenate: Hugo Chávez. Fu necessario aspettare la seconda amministrazione di Obama per intraprendere nuove negoziazioni, sfociate poi in un accordo – fiducioso, ma complesso e ricco d’incognite – tracciato nelle pagine finali del grande libro di LeoGrande e Kornbluh.

Una precedente possibilità di conciliazione si era aperta all’epoca di Kennedy. Nell’agosto del 1961, dopo l’invasione di Playa Girón e l’adozione formale del comunismo da parte del regime di Castro, Che Guevara aveva inviato al presidente Kennedy una cassetta di sigari e un messaggio in cui ipotizzava cinque singolari concessioni: il pagamento delle proprietà nazionalizzate, la rinuncia all’alleanza con l’Est, le elezioni nel prossimo futuro (dopo il consolidamento rivoluzionario), la disponibilità al riesame circa la propria attività in alcuni Paesi dell’America Latina e la garanzia di non attaccare la base di Guantánamo. Successivamente, avendo negoziato la liberazione di 1214 prigionieri dell’invasione, Fidel ribadì a Tad Szulc, reporter del New York Times, e ad altri portavoce (come James B. Donovan) il desiderio di riallacciare in qualche modo i rapporti con gli Stati Uniti. Nonostante la crisi missilistica (e il tentativo della cia di assassinare Castro) la possibilità c’era: «Se desse una pedata ai sovietici, potremmo trovare un’intesa», diceva una nota del National Security Council. Era un periodo favorevole, c’erano condizioni rese possibili dal relativo allontanamento cubano dall’urss e dai primi indizi di crisi economica a Cuba. L’accordo non sembrava impossibile. Così almeno la pensavano Lisa Howard (attivissima corrispondente per la abc News, vicina a Fidel) e Jean Daniel (editor de Le Nouvel Observateur), che in una riunione sentì Kennedy rimpiangere i numerosi «peccati» del suo Paese nei confronti dell’isola ed esprimere la disponibilità a negoziare. «Forse grazie a lui sarà possibile», disse Castro a Daniel, il 20 novembre del 1963. Kennedy sarebbe potuto essere «il leader che coglie la possibilità di convivenza fra capitalisti e socialisti in America», aggiunse Castro, che si mostrò «comprensibilmente felice». Due giorni più tardi, il proiettile che uccise Kennedy annientò evidentemente anche quel possibile accordo.

Oggi, per vari motivi, si prospetta un nuovo momento favorevole: la crisi venezuelana, l’attuale difficoltà economica cubana, la minore influenza (e i cambiamenti interni) dell’elettorato di origine cubana in Florida. I protagonisti centrali del contrasto sono ormai passati in secondo piano. Non c’è dubbio che l’intransigenza di Fidel Castro sia stata un ostacolo permanente per la «normalizzazione». La sua fissazione personale sulla figura del Davide che sconfigge Golia e la sua definizione dell’identità cubana in termini sempre negativi (opporsi eternamente agli Statu Uniti, invasori), era forse giustificata un tempo e lo è stata per lunghi anni, ma adesso non lo è più. Non meno ostinato è stato il fronte statunitense che – come ricordano LeoGrande e Kornbluh nelle loro conclusioni –, di fronte ai passi avanti compiuti da Cuba, non ha mantenuto le promesse. Basta ricordare che l’amministrazione di Carter – che fu la più consenziente alla «normalizzazione» – rifiutò di aprire uno spiraglio all’embargo per vendere a Cuba medicine, irreperibili altrove. Questa posizione estrema è ancora presente nel Partito Repubblicano, che detiene la maggioranza nel Senato statunitense.

Le voci più assennate dell’opposizione cubana, dentro e fuori dall’isola, hanno dato il benvenuto all’accordo. Conoscono e tollerano la politica repressiva del regime e sanno che ci vorrà molto tempo prima che il potere accetti di retrocedere di un millimetro. Ma hanno fiducia in ciò che Obama chiama la «presa del potere da parte della gente», che deriverà da un contatto più intenso con il mondo esterno, la cui presenza (oltre ai rimandi, alle idee, alle informazioni e poi alle aziende e agli investimenti che, pur nelle attuali restrizioni, potrebbero avviarsi) finirà col rompere l’isolamento di Cuba. Gli scambi personali avranno il potere di accendere un generale desiderio di libertà e il regime – capitanato nel frattempo da esponenti delle nuove generazioni – dovrà cedere. Le bandierine statunitensi e cubane sulle finestre a La Avana – twittate da Yusnaby Pérez – sembrano il presagio del cambiamento che sta per avvenire.

Ma non bisogna illudersi. La strada è impervia e il progetto di riavvicinamento potrebbe fallire. Ci sono segnali preoccupanti in questo senso. Al III Vertice della Comunità di Stati Latinoamericani e Caraibici (celac), tenutasi in Costa Rica alla fine di gennaio, Raúl Castro ha negato di voler ristabilire i rapporti in modo incondizionato e ha espresso quattro clausole all’accordo: la restituzione della base navale di Guantánamo, l’interruzione delle trasmissioni radiofoniche e televisive sul territorio cubano di Radio e tv Martí, l’eliminazione dell’embargo e il «risarcimento al popolo cubano dei danni umani ed economici subiti in seguito alla politica statunitense». La prima condizione può essere realizzata in tempi brevi; la seconda dovrà fare i conti con l’opposizione repubblicana, ma potrebbe essere realizzata, nel momento in cui venisse ristabilita la libertà di espressione nell’isola; la terza (auspicabile, certamente) è difficile, ma non impossibile; la quarta condizione, invece, è del tutto impossibile. Ostinarsi su questa posizione (senza la minima concessione sul piano della libertà politica interna) sarebbe un atteggiamento prevedibile da parte di Fidel, non di Raúl, tanto più che il solo annuncio di un avvicinamento agli Stati Uniti ha scatenato enormi aspettative. È comprensibile che le autorità cubane vogliano farne oggetto di discussione in privato. Ciò che rimane incomprensibile, però, è l’utilizzo che ne fanno a scopo retorico, nei discorsi pubblici. E a meno che l’intenzione di fondo non sia davvero quella di far fallire l’accordo, non si capisce nemmeno l’appoggio offerto da Cuba alle continue misure repressive intraprese dal presidente venezuelano Nicolás Maduro, che sconcertano l’ambiente latinoamericano. Possibile che Cuba voglia far fallire l’opportunità di normalizzare la relazione diplomatica con gli Stati Uniti di fronte al rischio che le venga negato l’appoggio venezuelano?

Sarebbe un peccato, perché Obama ha compiuto un passo di grande valore storico, non solo nei confronti di Cuba, ma di tutta l’America Latina. L’antiamericanismo – uno dei sentimenti politici più profondi e comprensibili del continente – è nato in occasione della Guerra ispano-statunitense a Cuba nel 1898, ha raggiunto il suo punto massimo a Cuba nel 1959 e ha iniziato a diminuire proprio in seguito agli accordi con Cuba nel 2014. Alla riunione osa (Organizzazione degli Stati Americani) di aprile a Panamá, Obama si presenta con un prestigio morale superiore a quello di qualunque altro presidente statunitense del XX secolo, compreso Roosevelt. Dovrà sfoderarlo per convincere con fermezza i paesi latinoamericani della necessità che Cuba onori gli accordi sui diritti umani, sottoscritti nel 2008 e depenalizzi le libertà negate, fra cui quella di connettersi a internet. Perché solo così, con la libreria virtuale carica di volumi mai letti sull’isola, i cubani potranno dire se la storia assolve o meno il vecchio leader, che al momento se ne sta zitto zitto, da qualche parte a La Avana.

 

Ringrazio per il sostegno nell’elaborazione di questo testo
Javier Lara Bayón, Armando Chaguaceda,
Rafael Rojas, Andrea Martínez Baracs,
Fernando García Ramírez e Carmelo Mesa-Lago.
L’articolo è apparso su The New York Review of Books e Letras Libres.

[1] [5] Rafael Rojas, La máquina del olvido. Mito, historia y poder en Cuba, Taurus, México 2012, pp.   264.

[2] [6] Rafael Rojas, Historia mínima de la Revolución cubana, El Colegio de México, México, di prossima pubblicazione.

[3] [7] Emilio Ichikawa, La heroicidad revolucionaria, Center for a Free Cuba, Washington 2001, p. 24.

[4] [8] Jennifer Hernandez, «Human rights violations in Cuba» in Cuba Facts, n. 64, febbraio 2015, Cuba Transition Project, Institute for Cuban & Cuban-American Studies, University of Miami.