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La scrittura interrotta

muanuscrito lugonesPubblichiamo oggi la seconda parte di un testo di Hernán Ronsino, scritto in occasione del 10° Congreso Argentino de Literatura de Santa Fe: un viaggio attraverso la scrittura, possibile, impossibile, interrotta. Potete leggere la prima parte qui [1].

«La casa e il violino» / 2
di Hernán Ronsino
traduzione di Giulia Zavagna

Non sono mai riuscito a scrivere una poesia. Per questo preferisco leggere le poesie di chi invece ci riesce. Leggere Zurita di Raúl Zurita, per esempio. È un libro immenso, un tomo enorme, sembra una mattone, di quelli che si usano per costruire pareti, per costruire case. Zurita dice: «Le enormi moli di roccia hanno preso il colore cenerino dell’alba e il paesaggio si interrompe bruscamente». Questo finale non mi è nuovo. E proprio per questo credo che potrebbe essere un’altra variante dell’argomento che affrontiamo oggi. L’interruzione brusca della scrittura. Mi ha sempre incuriosito la scrittura che di colpo si interrompe. I dintorni di un testo. La logica che porta a una frase che poi non si potrà sviluppare, che si vedrà, per varie ragioni, quasi sempre le stesse (malattia o suicidio), interrotta. Il precipizio che viene da fuori o da dentro. La scrittura spezzata dalla morte. È stato da poco pubblicato in Cile un libro di conversazioni tra Ilan Stavans e Raúl Zurita. Il libro si intitola Saber morir. C’è un punto in cui Zurita ricorda un passaggio della Storia del Perù di Garcilaso de la Vega: si tratta dell’esecuzione di un principe inca. Mentre un banditore legge, in spagnolo, le ragioni che giustificano la sua morte, il principe chiede a un frate di tradurgliele perché «non capisce la lingua in cui si pronunciano le ragioni della sua morte». Le ragioni della morte scritte in una lingua impossibile. In questa lingua impossibile sta anche il segreto di ogni parola interrotta.

Leopoldo_LugonesMi vengono in mente due casi di scrittura interrotta nella letteratura argentina. Leopoldo Lugones, per esempio, si suicida il 18 febbraio del 1938 sul Tigre. Ci sono molti strati di senso condensati in un suicidio. Ci sono molti fallimenti e una volontà ferma, vitale, l’esplosione finale potremmo dire, che si consuma in sé stessa. Il grande gesto positivo che è la negazione della negazione. In quell’estate del 1938 Lugones sta di fronte a un testo che non riesce a concludere. Che lo angoscia. Un testo che potrebbe essere in linea con il suo Historia de Sarmiento e con El payador. Ma Lugones non riesce a concludere la storia di colui che, secondo lui, è l’eroe dell’Argentina moderna. Negli ultimi passaggi del testo parla della grandezza di Roca. Cita Sarmiento per negare il genocidio dei popoli indigeni: «quegli indios non c’erano», dice la citazione di Sarmiento ripresa da Lugones. E poi scrive le ultime righe con una matita di grafite, seconda l’analisi che del manoscritto fa Juan Pablo Canala, per arrivare alla frase che resterà sospesa, interrotta come se una spada affilata ne avesse sventrato le estremità: «Ma non c’è nulla di irrefutabile come il saluto con cui Mitre, bisogna dirlo, lo congedò sulla Na…» La frase si interrompe e non sappiamo perché. Lugones scrisse questa frase alla locanda El Tropezón dopo aver preso il cianuro, dopo aver lasciato il foglio con il suo ultimo messaggio, dopo aver chiesto di essere svegliato verso le sei del mattino perché qualcuno, finalmente, lo trovasse dissanguato in quella stanza sul Tigre? Non lo sappiamo. Eppure inquieta. Quella parola interrotta. La parola nación. Con la maiuscola. Inquieta. Lugones non riesce a finire di scrivere la parola Nación. Ciò che sappiamo è quanto scrisse nel suo messaggio suicida: «Non riesco a concludere la Historia de Roca. Basta!»

Saer_12-mm-e1346929297924Un altro modello di scrittura interrotta, nella letteratura argentina recente, può essere il caso di La grande di Juan José Saer. Secondo il suo editore, La grande è un progetto che Saer inizia a sviluppare nel ’99. E, secondo quanto si dice, Saer inizia a comporlo allo stesso modo in cui ha scritto il resto della sua opera, su vari taccuini. Prima, pensando la frase, tenendo a mente la condensazione. E poi mettendola in pratica. Qualcosa di simile a quanto dice Julio Premat, studioso dell’opera di Saer e curatore dei taccuini ritrovati. Lì, in quelle carte, praticamente non ci sono cancellature. La scrittura nasceva come un blocco, processato in precedenza. Simile al lavoro di un poeta. Quando si pensa alla relazione di Saer con la poesia si ricorda sempre ciò che disse qui a Santa Fe, nel suo famoso dialogo con Piglia, che poi l’Universidad del Litoral avrebbe pubblicato come libro. Alla domanda di Piglia sulla relazione tra lirica e narrazione, Saer risponde che uno dei suoi progetti era di scrivere un romanzo in versi o un romanzo poetico. Ma che di fronte a quella sfida l’apparizione della lirica si ha introducendo la poesia nella prosa. In questo modo, la prosa di Saer recupera il movimento geografico di Juanele, recupera la sua musicalità; come anche il fraseggio secco di Di Benedetto per far sì che esploda sulla pagina, che si rovesci come se la prosa fosse un fiume – apparentemente calmo – ma profondo e torrenziale all’interno. La grande è un romanzo, effettivamente, inconcluso. Ma possiamo anche pensare che, sebbene l’ultimo capitolo non fu scritto, quella frase che, forse, Saer colloca in modo provvisorio, come una linea dalla quale partire per trovare il suo mondo – quella frase nuda, come un pesce sulla riva del fiume – forse è il modo migliore di continuare a stare (stare stando) nella fitta selva. Ci sono molti incipit memorabili in Saer – e parti che si potrebbero citare a memoria: per esempio: «Altri, loro, prima, potevano» o «È l’alba e ha già gli occhi aperti». Ma non ci sono tanti finali. L’ultima frase di La grande potrebbe rappresentare un’eccezione, è una frase aperta, è un inizio, è uno dei versi migliori di Saer: «Con la pioggia, arrivò l’autunno, e con l’autunno, il tempo del vino».