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Il vuoto di potere culturale

redazione SUR

Pubblichiamo un intervento dello scrittore messicano Enrique Serna sulla situazione della critica letteraria e sul ruolo che possono svolgere i blog di letteratura.

Pur non essendo recente (l’articolo è uscito nel 2009 sulla rivista «Nexos»), l’argomento affrontato resta di grande attualità. Enrique Serna non è sconosciuto ai lettori del blog (qui si può leggere la prima parte di un suo racconto e qui la seconda), né in generale ai lettori italiani, visto che sono stati pubblicati da noi tre romanzi e due raccolte di racconti («Angeli dell’abisso», e/o, «Miss Messico», «La paura degli animali», «L’orgasmografo» e «Amori di seconda mano», tutti editi da Voland). «La paura degli animali», in particolare, è un noir intriso di satira sul mondo letterario che fece scandalo quando uscì in Messico nel 1995 perché denunciava i vizi che mette in luce nel testo che pubblichiamo, e molti individuarono scrittori in carne e ossa dietro i nomi fittizi dei personaggi.

di Enrique Serna
traduzione di Lavinia Gendusa

La mercificazione del prestigio intellettuale può essere limitata solo attraverso l’esercizio massivo della critica, occupazione in cui i blog letterari si sono lanciati a rotta di collo.

Il piccolo mondo delle lettere non è mai stato libero da interessi meschini e componenti torbide, nemmeno nei fortini di purezza dove alcuni spiriti eletti hanno cercato di isolarsi in diverse epoche della storia. L’idea di un’aristocrazia del talento che voltava le spalle agli onori mondani è esistita solo nei sogni di alcuni poeti romantici. Tuttavia, questa leggenda narcisista e compiaciuta, che Paul Bénichou ha studiato nel suo splendido saggio La consacrazione dello scrittore, continua ad avere un peso enorme per l’opinione pubblica. Ingannata dal mito dell’angelo bohémien che affronta la viltà del mondo come un parafulmine celeste, la società esige da noi un rigore etico proprio degli ordini monastici, e per questo motivo le ambizioni di potere culturale si sono sempre occultate con maggior cautela rispetto alle ambizioni politiche.

Nessuno scrittore o artista che si dedica a tempo pieno a coltivare amicizie da usare come trampolino di lancio confesserà mai il suo desiderio di dirigere un’istituzione, di vincere un premio, o di imporre uno stile o una corrente di pensiero, perché le regole del gioco lo obbligano a intessere nell’ombra le sue reti di influenza. Nessuno si rende conto dell’enorme potere accumulato da un arrampicatore sociale finché i suoi tentacoli non si sono ramificati in molteplici direzioni. Per un miscuglio di orgoglio e allergia alle relazioni pubbliche, i membri apolitici della famiglia lo lasciano prosperare senza opporre resistenza, condannandosi a volte a un sofferto anonimato. Con la fede degli illuminati, suppongono che un’opera debba imporsi da sola, con l’autore ancora in vita o dopo la sua morte, e quindi, qualunque tentativo di richiamare l’attenzione del pubblico o della critica significa svilirla in partenza. È una scommessa rispettabile, ma rischiosa, visto che il talento nascosto può restare sepolto nelle catacombe, com’è successo a Fernando Pessoa, che ha pubblicato in vita solo un paio di pamphlet  per non essersi mai umiliato davanti ai dispensatori di fama nell’ambiente letterario portoghese. La volontà eroica di non mendicare ciò che si merita per giustizia si confonde spesso con il nobile disinteresse per le glorie terrene e, di fatto, i geni più arroganti del secolo XIX, meglio conosciuti come «poeti maledetti», recitarono con voluttuoso piacere il ruolo di martiri. Tuttavia, nel fondo dell’anima ogni genio misconosciuto sogna la miracolosa apparizione di uno scopritore che lo riscatti dalle tenebre. Henry Miller lo incontrò a Parigi, a 38 anni, quando il suo primo libro cadde nelle mani di Ezra Pound, che non era un leader di opinione, ma aveva sufficiente credibilità, vale a dire sufficiente potere letterario, per convincere un pubblico minoritario che valeva la pena leggere un pornografo vagabondo esiliato a Parigi. Kafka si salvò dall’eterno oblio quando il suo amico Max Brod, meno timido e impacciato di lui, fece conoscere le sue opere in un’edizione postuma che richiamò l’attenzione dei circoli culturali di Praga. Se alcuni uomini di lettere con vocazione politica difendono a spada tratta l’eccellenza o l’originalità e compiono atti di giustizia che arricchiscono il canone letterario, come confermano questi esempi, i romantici puritani della corporazione dovrebbero astenersi dal condannare in blocco tutti i colleghi che ambiscono al potere culturale. Grazie ai lottatori onesti che combattono su questo fronte, il talento misconosciuto ha potuto spezzare il cerchio della mediocrità.

Quando Balzac pubblicò Illusioni perdute si era già conquistato un numero importante di lettori, ma continuava a essere uno scrittore sottovalutato dalle istituzioni che detenevano il potere culturale in Francia, in particolare dall’accademia, che non lo accettò mai come membro. A quei tempi gli aspiranti a un posto nell’accademia dovevano frequentare i salotti alla moda per garantirsi il favore delle dame influenti, corteggiare parrucconi eruditi che dovevano la propria consacrazione letteraria al capriccio del re, fare scambi di favori per ottenere appoggi e avere un’infinita pazienza per sopportare i rifiuti. Inoltre, iniziava a svilupparsi un potere culturale ancora più temibile di quello dell’accademia: il nascente marketing dello spettacolo e delle lettere, che pagava la claque per fabbricare successi teatrali o imponeva, grazie ai giornali, opere letterarie di poverissima qualità. Balzac però non era un santo disposto a farsi sottomettere da questi poteri, e descrisse con colori grotteschi il marciume dell’ambiente letterario e la sordida masnada di cospiratori a cui doveva prestarsi un giovane poeta di provincia appena arrivato a Parigi e assetato di gloria. Ma oltre a esibire il modus operandi delle canaglie letterarie, Balzac propose l’antidoto più efficace contro di loro: la creazione di cellule incontaminate dove le giovani promesse con un’autentica vocazione per le lettere potessero aiutarsi reciprocamente a crescere, sottomettendo le loro opere alla critica esigente e generosa dei compagni. Nel cenacolo della rue des Quatre Vents, dove Lucien entra appena arrivato a Parigi, si riunisce un gruppo di giovani talenti che assumono la loro vocazione come un apostolato:

Tutti si chiamavano per nome, tutti portavano in fronte il segno di una speciale genialità. Dopo le istanze presentate dal suo amico Daniel, Lucien ebbe alla fine l’onore di essere ammesso a quel cenacolo di grandi spiriti, uniti da una viva simpatia e dalla serietà della sua esistenza intellettuale.

Si tratta, quindi, di una confraternita incontaminata formata da geni in erba (gli amici dell’autore, chiaramente riconoscibili dai lettori dell’epoca) nella quale il cameratismo informale non esime i membri dall’avere “una pazienza angelica e una ferma predisposizione al sacrificio” per creare un’opera immortale. La descrizione di questo conclave serafico è forse l’unico episodio inverosimile di Illusioni perdute, visto che la santità non è mai stata una caratteristica della corporazione dei letterati. Come tutti i fondatori di partiti politici, Balzac idealizzò il proprio fino alla melensaggine, per investirlo di autorità morale nella guerra simultanea che scatenava contro l’accademia e il marketing. Il Cenacolo della rue des Quatre Vents era un’isoletta di virtù in mezzo alla cloaca giornalistica e teatrale di Parigi, ma non aveva una vocazione rivoluzionaria, né pretendeva di inaugurare una nuova sensibilità, come il gruppo di poeti romantici capeggiato da Victor Hugo o le avanguardie letterarie che alcune decenni dopo irruppero nella scena letteraria francese con l’obiettivo di strappare il potere ai conservatori del Parnaso. Tuttavia, ai suoi tempi Balzac fu un precursore, poiché avvertì con sagacia che qualsiasi gruppo di opposizione sul terreno della letteratura o dell’arte doveva fingere un assoluto disinteresse per il potere culturale, nel quadro di una ingegnosa strategia per assaltarlo.

Come indica il suo bellicoso nome, l’avanguardia è un battaglione pronto al golpe che irrompe con violenza nel campo artistico, per far saltare le tradizioni che si oppongono al suo credo estetico. Tutti i proclami incendiari del surrealismo, del dadaismo o del futurismo volevano mandare nella pattumiera della storia svariati secoli di pittura e letteratura, con il nobile fine di sostituirli con le opere della cricca rivoluzionaria. La demolizione era giustificata da fini altruistici, certo: il rinnovamento dell’arte, la liberazione spirituale dell’uomo, la necessità di accelerare il progresso sociale. Visto che la sfiducia ai poteri stabiliti implicava grandi rischi e privazioni, l’artista marginale che soffriva fame e stenti per difendere la sua verità veniva innalzato con un’aureola di eroismo. Se il movimento rivoluzionario falliva, se i respinti dai cenacoli letterari non riuscivano a scardinare la vecchia guardia, o quanto meno strapparle alcune concessioni, potevano incorrere nella patetica sorte di Fernando Pessoa, che fondò pure lui un “ismo” in Portogallo, l’Intersezionismo, ma morì alcolizzato e povero senza mai aver ottenuto la minima visibilità.

La lotta delle avanguardie per conquistare importanti porzioni di potere culturale fu una scarica di adrenalina di cui il mondo aveva bisogno, e quindi nessuno può rimproverare loro che abbiano fatto politica in modo così sfacciato. Di fatto, crearono un salutare precedente rompendo con le forme tradizionali di arrivismo artistico e intellettuale (l’adulazione strisciante dell’autorità, gli intrighi cortigiani per ottenere riconoscimento, ecc.). Cercare il potere per farci qualcosa di buono è un’ambizione legittima. La cosa meschina è bramare il potere per il potere, senza portare nulla al lettore o alla società. Appellarsi al giudizio del pubblico, anche se si tratta di un’esigua minoranza, per convalidare una rivoluzione artistica significava obbligare le autorità corrotte e anchilosate a passare dal terreno dell’intrigo e del colpo basso, dove a loro piaceva muoversi, al terreno della polemica, dove la fazione ribelle aveva tutte le possibilità di vincere. Nella misura in cui queste dispute diffondevano i criteri di valutazione estetica, anche l’opinione pubblica ne usciva vincitrice, come la cittadinanza di un paese che esige dal suo governo una resa dei conti.

Anche se l’avanguardismo militante è morto (e sul terreno delle arti plastiche il suo cadavere puzza) ha lasciato una risacca democratizzante che ha provocato da allora un fenomeno ciclico: la sollevazione delle giovani generazioni contro le autorità giuste o sbagliate che chiudono loro le porte della diffusione o del riconoscimento. La marginalità aspira a collocarsi al centro e, per questo motivo, le critiche più dure contro il potere culturale venivano quasi sempre da franchi tiratori risentiti. Ma negli ultimi mesi è avvenuta una strana inversione dei ruoli che ha messo sottosopra il nostro sistema di governo: adesso sono i consacrati, non gli eroi dei sotterranei, a denunciare l’inettitudine o la corruzione delle autorità che dispensano la fama artistica o intellettuale. Con argomenti e approcci diversi, di recente Mario Vargas Llosa e Gabriel Zaid hanno segnalato con preoccupazione che una montante mediocrità sta facendo strage nel mondo intellettuale e artistico, perché il potere della critica è stato messo a tacere da altri poteri.

«È vero che i quotidiani e le riviste più serie pubblicano ancora articoli su libri, mostre e concerti» lamenta Vargas Llosa nel saggio La civiltà dello spettacolo» ma c’è qualcuno che legge questi paladini solitari che cercano di mettere un certo ordine gerarchico nella selva e nel caos in cui si è trasformata l’offerta culturale ai nostri giorni? L’unica cosa certa è che la critica, che all’epoca dei nostri nonni e bisnonni svolgeva un ruolo centrale nel mondo della cultura perché aiutava i cittadini nel difficile compito di giudicare quello che sentivano, vedevano e leggevano, oggi è una specie in estinzione di cui nessuno si cura.

Vargas Llosa attribuisce l’inefficacia della critica al potere schiacciante della pubblicità e del marketing editoriale, che impongono al lettore formule di intrattenimento economico. Forse Umberto Eco definirebbe apocalittica la sua visione, in quanto illustra un panorama desolante in cui la tirannia dei mezzi audiovisivi ha spogliato gli intellettuali della loro funzione educativa, senza contemplare la possibilità che la televisione o internet possano ampliare gli orizzonti culturali del pubblico. Anche Gabriel Zaid deplora lo stato di salute della critica ma, a differenza di Vargas Llosa, non attribuisce il suo indebolimento a cause esogene all’ambiente letterario, ma alla lotta interna per il potere culturale, dove gli arbitri del gusto hanno ceduto di fronte alla pressione degli arrampicatori sociali:

«La pressione per l’ascesa sociale ha come risultato l’ascesa dei mediocri al potere» segnala in Il segreto della fama. «La competenza nell’ascesa non sempre favorisce il più competente in una cosa o in un’altra, ma aiuta il più competente a competere, sistemarsi, ad amministrare le relazioni pubbliche, a modellarsi come prodotto desiderabile, a passare esami, a ottenere punti, ottenere il microfono e i riflettori, a diventare popolare, a ottenere che la ruota dell’accumulo giri finché nulla la possa fermare. La selezione naturale tra arrampicatori favorisce l’ascesa di una nuova specie darwiniana: il mediocris habilis

Così si arriva, secondo Zaid, alla situazione in cui un perfetto incompetente finisce per diventare il numero uno del ranking letterario. Dal suo punto di vista, il problema non è che la critica abbia smesso di stabilire un ordine gerarchico nella selva editoriale, come crede Varga Llosa, ma che si sia stabilito un ordine ingiusto mettendo sul trono gli arrivisti mediocri per un misto di negligenza e venialità. Il canone degli autori contemporanei imprescindibili dovrebbe passare per un setaccio molto più esigente. Ma come risolvere questo rompicapo se molti arrampicatori senza valore godono già di un solido prestigio?

«Per correggere gli errori e le omissioni del canone» propone Zaid «servono lettori valorosi, dotati di talento, coraggio civile e molta fortuna, perché una volta consacrata un’opera mediocre, quando viene avallata da persone e istituzioni di peso, non è ragionevole sperare che queste si smentiscano.»

In effetti, nessuno può togliere a un cattivo scrittore i suoi galloni, come nelle cerimonie militari dove si degradano i traditori, ma quando la critica mette in dubbio le firme prestigiose avallate dall’autorità, inizia a costruire un’autorità parallela che poco a poco può ottenere influenza. In sintesi, il saggio di Zaid è un invito a recuperare il potere culturale che la mediocrità si sta accaparrando nel mondo delle lettere, davanti alla compiacenza di un’elite indolente e frivola. Naturalmente, la sua idea presuppone che i critici incaricati di questo compito siano al di sopra della mediocrità che combattono, al contrario potrebbero commettere grandi ingiustizie facendo saltare delle teste. Sia Vargas Llosa sia Zaid iniziarono a pubblicare quando il riconoscimento letterario si conquistava in un altro modo, e questo spiega il carattere nostalgico dei loro saggi. Ma non otteniamo nulla ormai sentendo la mancanza dei tempi in cui un’opera si faceva strada per i propri meriti, senza l’aiuto di Ophra Winfrey e degli agenti letterari che negoziano premi nell’ombra. Sarebbe più interessante capire come siamo arrivati a questa situazione aberrante. C’è stata una rivolta silenziosa contro l’autorità che rappresentano figure come Vargas llosa o Zaid? O sono semplicemente sorti nuovi attori nel mondo letterario che hanno ottenuto spazio poco a poco, fino a diventare il partito al governo?

La democratizzazione della cultura ci ha obbligato a chiamare pubblico la massa che Góngora e Lope de Vega chiamavano volgo. Ma la creazione di un volgo letterato che pensa per conto proprio, o crede di farlo, e si solleva contro i dettami dell’aristocrazia culturale, è la più grande vittoria educativa della modernità. Senza dubbio, il lettore contemporaneo di bestseller “non ha le difese intellettuali e di sensibilità per scoprire i raggiri e le estorsioni di cu è vittima”, come scrive Vargas Llosa. Ma sarà difficile recuperare l’autorità perduta dalla critica onesta e qualificata se con l’intenzione di proteggere il lettore comune disprezziamo la sua intelligenza, come nell’epoca in cui Juan Ruiz de Alarcón chiamava bestia fiera il pubblico dei teatri. Ortega y Gasset credeva nella missione educativa dell’aristocrazia, una missione che le avanguardie trascurarono per amore dello sperimentalismo, ma alcuni scrittori di valore continuano a compierla in piena civiltà dello spettacolo, quando riescono a elevare i livelli di giudizio estetico della massa, come è riuscito a fare lo stesso Vargas Llosa con i suoi popolari romanzi.

Sicuramente molti lettori del peruviano consumano anche il ciarpame mistico di Paulo Coelho o le sfilze di libri di Danielle Steel, senza stabilire un ordine gerarchico tra opere e autori. Ma cosa importa questa immunodeficienza, se alla fine le buone letture possono garantire gli anticorpi di cui l’anima ha bisogno per combattere quelle cattive?

Forse il vuoto di potere culturale riempito dagli arrampicatori non si deve alla massificazione della lettura, ma alla mercificazione del prestigio. Ogni anno si pubblicano centinaia di novità editoriali, che pretendono in buona parte di abbagliare il pubblico a priori con certificati di qualità rilasciati da autorità (giurie di premi, quarte di copertine scritte da autori famosi, ecc.). Queste opere non sono dirette al pubblico in generale, ma ai lettori interessati nell’ordine gerarchico della repubblica letteraria. A dispetto di tutti questi riconoscimenti, però, nel campo della letteratura seria o premiata operano claque fraudolente come quelle descritte da Balzac in Illusioni perdute. Quando i capolavori annunciati fra squilli di tromba vincono senza convincere, i lettori cominciano a non fidarsi più, non solo dell’autore sopravvalutato, ma di tutto il meccanismo che lo ha innalzato. Per questo la concessione del premio Nobel a scrittori di infima categoria come Elfriede Jelinek o Jean Marie Le Clézio, rappresentanti del pensiero fossile conosciuto come “political correctness”, ha messo in discussione la probità dell’Accademia svedese. O alcuni giudici per le qualificazioni stanno mentendo per favorire i propri amici, o i criteri di giudizio letterari sono diventati così lassi che la mancanza di consensi ha interrotto il dialogo fra critica e lettori. Il bestseller, al contrario, brilla per la sua modestia, visto che lascia al lettore la libertà di metterlo nel posto della graduatoria letteraria che vuole, senza ostentare dubbiosi titoli nobiliari.

L’espressione francese mettre en valeur, che equivale a “darsi importanza”, denota una passione meschina alla quale tutti noi scrittori abbiamo ceduto in qualche momento. Ma è venuto il momento di rinunciarvi se vogliamo che il potere culturale serva, almeno, per ripulire la propria casa. Buona parte della letteratura che si da importanza alle spalle dei lettori pretende di essere innovativa o sperimentale, dato che nessun autore ambizioso vuole rinunciare all’ingannevole sfavillio della novità. Ma i paladini della modernità letteraria non cercavano l’approvazione dei poteri costituiti: si appellarono al giudizio del pubblico per impugnare i dettami di un’autorità marcia. Non può stare all’avanguardia della letteratura contemporanea nessuno scrittore sperimentale o ermetico che cerchi il riconoscimento come lo cercavano i vecchi aspiranti alle poltrone dell’Accademia francese. Di fatto, il fondatore di questa istituzione, Valentin Conrart, fu un mediocris habilis come quelli descritti da Gabriel Zaid. Infatti approfittò della propria solvenza economica per garantirsi l’amicizia dei poeti famelici del Marais, ai quali concedeva prestiti in cambio di elogi. Conrart mise il proprio sigillo su un’istituzione i cui requisiti d’ingresso, secondo Gérard de Nerval, erano “adulare grandi signori, onorarli a tavola, sostenere i cavalletti dei gesuiti vincitori, stargli dietro a tutte le ore e baciargli gli artigli.”

Forse non esisterà mai un cenacolo come quello della rue des Quatre Vents, ma la critica amichevole e fraterna che prima si esercitava nei circoli letterari sicuramente metteva in fuga gli arrampicatori. Recuperare l’influenza di questi cenacoli informali sarebbe il primo passo per ridurre il potere delle istituzioni corrotte. Di fatto, lo spirito dei vecchi circoli ha iniziato a resuscitare nei blog letterari, dove la critica si esercita con maggior disinvoltura e libertà rispetto alla carta stampata. La massificazione della critica letteraria è un fatto irreversibile che non dovrebbe spaventare chi ha denunciato i pericolosi effetti del marketing editoriale, quindi adesso sarà molto più difficile creare unanimità fittizie a favore di autori gonfiati. Quando le dittature opprimono un popolo, bisogna ricorrere all’assemblea popolare. Sottomettere il nostro lavoro all’ampia ed esigente giuria della critica indipendente, in modo che il testo conquisti adepti o riceva insulti, senza la consacrazione anticipata che si vuole imporre al lettore con prepotenza autoritaria (chi se ne intende ha già detto la sua, tu obbedisci e stai zitto), può essere la via perché la gente si svegli dal suo letargo e la letteratura torni a essere un potere autonomo.

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