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Il #Messico e #Ayotzinapa gridano: #43ConVidaYa!

Fabrizio Lorusso Reportage, Società, SUR

Abbiamo proposto qualche tempo fa un approfondimento di Fabrizio Lorusso sulla strage degli studenti messicani. Pubblichiamo oggi un suo nuovo intervento al riguardo, già apparso su Carmilla.

«Il #Messico e #Ayotzinapa gridano: #43ConVidaYa!» 
di Fabrizio Lorusso

Le mobilitazioni in tutto il mondo non si sono più fermate da quando la notizia della strage e la desaparición degli studenti di Ayotzinapa, commessa a Iguala, nello stato messicano del Guerrero, dal narco-apparato di polizia e mafie nella notte del 26 settembre, ha cominciato a circolare. Mentre il governo messicano parla di “persone assenti” e cerca di evitare il termine “desaparecido”, cioè persona scomparsa con la connivenza dell’autorità e in modo forzato, su twitter l’hashtag #43ConVidaYa diventa trending topic mondiale e le fosse comuni si moltiplicano nella zona intorno a Iguala man mano che procedono le ricerche. ¡Estado asesino! ¡Vivos se los llevaron, vivos los queremos!, dicono i cartelli che da oltre due settimane tappezzano le università e le strade del Messico per chiedere al governo la “restituzione con vita” dei 43 studenti scomparsi durante il massacro di Iguala. «Il governo è corrotto, simulatore, ed è diventato una vera minaccia per il suo popolo, questo non è un fatto isolato, al posto di stare dalla nostra parte e cercare la giustizia, il governo s’è trasformato in una minaccia», ha denunciato il 20 ottobre, Padre Alejandro Solalinde, attivista per i diritti umani e dei migranti, premio nazionale per i diritti umani nel 2012 e fondatore della casa per migranti «Hermanos en el camino» nello stato del Oaxaca.

Gli apparati di stato, la narco-polizia, il sindaco, il governatore e il sistema nel suo insieme, fino al livello del governo federale, si sono uniti per creare il terrore come strumento autoritario di controllo sociale. Non li vogliono e non li possono trovare? Potrebbe essere una strategia deliberata. Sono alcune ipotesi, sempre più concrete, che si dibattono in Messico. Nel frattempo la procura sostiene che i 28 corpi ritrovati nelle fosse comuni due settimane fa non sono quelli dei normalisti desaparecidos, ma i periti argentini indipendenti non hanno ancora concluso le loro indagini e sembrano essere gli unici che hanno la fiducia della gente. Né la procura né la Commissione Nazionale dei Diritti Umani godono della minima legittimità per condurre le indagini in modo credibile. Il sospetto di una manipolazione politica dei risultati è troppo forte.

«Hanno sparato agli studenti come fossero membri di un esercito… Tra morti, vivi e feriti se ne sono portati via 43 e li hanno fatti camminare prima di metterli in alcune fosse comuni», ha dichiarato. «Lo stato messicano vuole frammentare le responsabilità come se non avesse lui la responsabilità, quasi a voler negare che è lo stesso stato che ha sparato contro gli studenti, che li ha portati via e li ha consegnati alla criminalità organizzata ed è un crimine di lesa umanità questo, perché è stato commesso per mezzo di corporazioni che dovrebbero essere al servizio della gente, che non facciano credere alla gente che loro sono vivi e ,se non sono morti, che li presentino, ma che non illudano le famiglie, solo pensano ai voti e a chi vincerà le elezioni dell’anno prossimo nel Guerrero», ha spiegato Solalinde.

Le reazioni e le proteste

Nella capitale e in decine di altre città del paese si sono moltiplicate le iniziative per Ayotzinapa, con manifestazioni e picchetti di fronte alla procura che si sono accompagnate a due giornate di sciopero, occupazione o sospensione delle attività votate dagli studenti in decine di scuole superiori e università come la UNAM (Università Nazionale Autonoma del Messico), UACM (la Autonoma Città del Messico), UAM (la Autonoma Metropolitana), IPN (Politecnico), Iberoamericana. Sabato 18 migliaia di studenti sono scesi per le strade a manifestare in almeno sette stati.

Crisóforo Díaz, portavoce della Unión de Pueblos y Organizaciones del Estado de Guerrero (UPOEG), ha dichiarato che il suo gruppo ha trovato sei fosse mercoledì scorso, il 15 ottobre, piene di ossa, anche se la procura non s’è ancora mossa per verificarne il contenuto. Nei primi giorni dopo la mattanza le fosse trovate grazie alle dichiarazioni dei primi poliziotti e dei narcos arrestati furono cinque, con dentro 28 cadaveri calcinati. Ma nessuno di questi appartiene agli studenti scomparsi di Ayotzinapa e ci si chiedi quindi quante altre mattanze siano state commesse e sapientemente occultate fino ad oggi intorno a Iguala. Il 9 ottobre furono rinvenute altre quattro tombe clandestine con resti umani per cui in totale sono 15, ma c’è chi ha calcolato fino a una ventina di fosse in totale. Ma se i resti non sono degli studenti, allora di chi sono? Quanti macabri ritrovamenti, narco-scandali politici e vittime della violenza può tollerare una società? Per ora non ci sono risposte, solo misteri e omissioni.

L’ex assessore regionale all’istruzione del Guerrero, Pioquinto Damián Huato, ha denunciato in un programma radio il governatore, Ángel Aguirre, di avergli chiesto, quando era governatore ad interim dello stato tra il 1996 e il 1999, di accusare formalmente i normalisti di Ayotzinapa di essere dei guerriglieri, «visto l’odio che questi aveva contro di loro». In quell’epoca Aguirre fungeva da governatore, supplente di Rubén Figueroa Alcocer, che era stato allontanato dal suo incarico dopo la mattanza di Aguas Blancas del 28 giugno 1995, quando 17 contadini furono fucilati dalla polizia.

Il 15 ottobre s’è formata ad Ayotzinapa la Asamblea Nacional Popular, costituita da 53 organizzazioni sociali e studentesche del paese, e ha annunciato azioni di protesta, occupazioni di municipi e autostrade per esigere il ritrovamento in vita dei 43 studenti scomparsi, giustizia per le sei vittime della mattanza, un giudizio politico e la rimozione del governatore del Guerrero Ángel Aguirre Rivero, del sindaco latitante, José Luis Abarca Velázquez, e di sua moglie María de los Ángeles Pineda, e infine una punizione per i responsabili del massacro.

L’idea è bloccare lo stato del Guerrero e il paese con azioni di resistenza in modo da creare le condizioni per poter chiedere la revoca dei poteri del governo statale, una specie di commissariamento prima di nuove elezioni, per via dei nessi tra le autorità e la delinquenza organizzata. S’è unita alle richieste dell’Asamblea anche la Coordinadora Estatal de Trabajadores de la Educación de Guerrero (CETEG), il sindacato dissidente degli insegnanti delle scuole pubbliche. Con un video i guerriglieri dell’ERPI (Esercito Rivoluzionario del Popolo Insorto), particolarmente attivo nel Guerrero, ha annunciato la creazione di una “brigata” per fare giustizia e combattere il narcotraffico nella regione

Nel week end del 18 e 19 ottobre un migliaio di studenti di 69 università del paese si è riunito nell’auditorio occupato Che Guevara della facoltà di filosofia e lettere della Universidad Nacional Autónoma de México (UUNAM). Questa “Seconda Assemblea Interuniversitaria” ha votato uno sciopero generale di 48 ore e una serie di attività di protesta per chiedere chiarimenti sull’omicidio di tre studenti della scuola normale di Ayotzinapa e la scomparsa di 43 di loro. Il 22 ottobre, “Giornata di azione globale per Ayotzinapa”, e il 23 le attività universitarie saranno bloccate e verranno realizzati dei blocchi stradali e manifestazioni nelle strade di tutto il paese. E’ stata convocata una nuova assemblea venerdì 24 ottobre nella facoltà di scienze della UNAM per discutere su un futuro incontro degli studenti in difesa dell’istruzione pubblica e contro la violenza di stato, per chiedere l’abrogazione della riforma educativa, una delle controverse riforme strutturali del presidente Peña Nieto, e un aumento delle risorse per l’istruzione.

 

 

La denuncia di Raul Vera e Padre Solalinde

Raul Vera, vescovo di Saltillo, e Human Rights Watch hanno denunciato che da tempo la Procura Generale della Repubblica era a conoscenza del coinvolgimento del sindaco di Iguala, José Luis Abarca, nell’omicidio di tre attivisti della sua regione, ma che la procura non agì di conseguenza: il 30 maggio 2013 il sindaco, utilizzando sgherri della criminalità organizzata, sequestrò otto militanti che avevano formato il collettivo Unidad Popular (UP) di Iguala, proprio com’è successo il 26-27 settembre con la cattura e molto probabile uccisione degli studenti normalisti di Ayotzinapa.

Uno degli attivisti sopravvissuti della UP, Nicolás  Mendoza Villa, ha testimoniato di fronte a un notaio, visto che della polizia non ci si può fidare, di essere stato portato in un campo fuori città dove il sindaco avrebbe giustiziato Arturo Hernández Cardona dopo averlo deriso. La stessa denuncia era stata lanciata da René Bejarano, dirigente del PRD (Partido de la Revolución Democrática) e, secondo Bejarano, presa sottogamba dal procuratore Jesús Murillo Karam. Mendoza Villa, nel mese di marzo del 2014, ha di nuovo dichiarato le circostanze del crimine presso la procura dello stato del Guerrero, una volta che gli era stata garantita protezione. Ciononostante Mendoza ha dovuto abbandonare la zona definitivamente in seguito alle minacce ricevute da lui e dalla sua famiglia.

Padre Alejandro Solalinde ha spiegato ai mass media che, secondo alcuni testimoni diretti della strage di Iguala, i 43 studenti di Ayotzinapa sono stati assassinati e alcuni di essi sono stati bruciati vivi. Alcuni erano feriti e gli hanno buttato addosso la benzina, altri invece sono stati gettati nella legna ardente. Solalinde s’è detto pronto a collaborare con la procura dato che ha raccolto negli ultimi giorni le testimonianze dirette di alcune persone presenti al rogo.

«Se non sono morti, come risulta dall’informazione che ho ricevuto, allora che presentino questi ragazzi in vita e che ci dicano perché li hanno fatti sparire», ha dichiarato questo Padre sessantanovenne che in Messico è un riferimento importante non solo nella lotta per i diritti dei migranti centroamericani ma anche per la sua lotta contro gli abusi della delinquenza organizzata e delle autorità per cui ha ricevuto varie minacce di morte e ha dovuto nascondersi in più occasioni. «Il governatore sapeva in che affari era implicato il sindaco e conosce la sposa del sindaco, lui stesso ha dichiarato che conosceva questi vincoli e anche lui sa come sono stati ammazzati quei ragazzi», ha precisato.

Infatti, Solalinde avanza dubbi sul fatto che il governo del Guerrero darà la giusta importanza al caso e denuncia le manipolazioni politiche ed elettorali del governativo PRI che cerca di riconquistare il potere in uno stato governato dall’opposizione. «Ho più fiducia nella polizia comunitaria, loro sanno molte cose e ne stanno scoprendo sempre di più, per cui coltivo la speranza che saranno loro a trovarli». Ha anche parlato delle condizioni in cui studiano e vivono gli alunni delle scuole normali per maestri di Ayotzinapa: «Bisogna entrare a un internato di quelli per rendersi conto che sono immersi nella miseria, che non hanno nessun tipo di comfort per se stessi, non hanno nulla».

Il numero degli arresti cresce, supera quota 50. Le fosse clandestine scoperte sono una ventina, ma i 43 desaparecidos restano tali, così come rimangono  latitanti il sindaco di Iguala, José Luis Abarca, e sua moglie. «Questi giovani sono molto politicizzati, perché hanno una coscienza dal basso, sono contestatari e arrivano ad essere critici della gestione della cosa pubblica», ha sottolineato il Padre, ribadendo il concetto che non si tratta di un massacro come tanti altri, ma di un accanimento dai risvolti politici: «Non è casuale quanto è successo con i normalisti, è una evidente linea di repressione che è stata applicata anche da altre parti».

Nel programma mattutino del 20 ottobre con la giornalista Aristegui Alejandro Solalinde ha ribadito il contenuto delle narrazioni che ha raccolto sulla strage di Iguala. Negli ultimi giorni il Padre ha ricevuto ancora più informazioni da persone della zona legate a corporazioni di polizia, anche di quelle conniventi con le mafie. «Alcuni di questi sono stati bruciati vivi, altri erano già morti o feriti, gli è stata gettata della legna per farli ardere meglio e, secondo le ultime testimonianze più recenti, sarebbero morti tutti: questo si configura come un’azione di stato».

«Io non ho cercato nessuno dei testimoni e della gente della regione, loro mi hanno cercato in più occasioni e abbiamo potuto parlare semplicemente e in spazi discreti e privati, la gente ha paura, ma racconta comunque, la novità di ieri è che hanno confermato quanto avevo detto ma purtroppo oggi si parla di tutti e 43 gli studenti che sarebbero morti, le persone stanno processando la questione e piano piano ne parlano, dunque questi ragazzi, i cui corpi sono calcinati, potrebbero rimanere sempre ‘desaparecidos’ perché che corpi potremo ritrovare se sono stati bruciati tutti?». Solalinde spera di cuore che le rivelazioni che gli hanno confidato siano false, che gli alunni di Ayotzianapa siano vivi e le testimonianze siano imprecise, sbagliate, ma oggi ne parlerà presso la procura generale della repubblica.

Ogni tanto il Parlamento Europeo se ne accorge

Un gruppo di 16 deputati dell’Euro-Parlamento ha chiesto la sospensione dell’Accordo Globale tra il Messico e la UE fino a che non sarà possibile ricostruire la fiducia nelle autorità messicane, particolarmente in tema di diritti umani. Infatti, negli accordi commerciali internazionali, generalmente, s’includono, spesso per pura formalità, delle “clausole democratiche” e di rispetto dei diritti umani o, con una dicitura riduzionista, delle “garanzie individuali”. Sono articoli dei trattati che possono essere utilizzati se il momento politico lo permette e se le istituzioni, quelle europee in questo caso, si mostrano disposte ad agire contro un paese terzo che non le rispetta. Recentemente s’è costituito un gruppo parlamentario di pressione per i fatti di Iguala e la strage degli studenti di Ayotzinapa: giovedì 23 ottobre si terrà un dibattito “urgente” nel parlamento europeo. È un fatto importante, anche se, fondamentalmente, conferma che denunce di questo tipo sorgono quando esiste un caso mediaticamente rilevante, politicamente conveniente e socialmente “sensibile”.

Infatti, sono centinaia i casi simili a quello di Iguala che negli ultimi dieci anni, o più, sono stati ripetutamente ignorati. Ed è statisticamente congruente con un paese come il Messico che tristemente vanta oltre 100mila morti in 6-7 anni, 250 fosse comuni piene di cadaveri ritrovate solo negli ultimi 2 anni e circa 27mila desaparecidos dall’inizio della guerra ai cartelli del narcotraffico, lanciata dall’ex presidente Felipe Calderón nel dicembre 2006. La mattanza dei ragazzi di Iguala comunque è particolarmente importante perché non è un semplice esempio della violenza crudele e spietata di questi anni di narcoguerra messicana, ma è la più grande strage di studenti mai commessa dopo il massacro di Tlatelolco del 2 ottobre 1968, quando l’esercito uccise oltre 300 manifestanti de movimento studentesco a Città del Messico.

In questo senso la strage dei normalisti e di altri cittadini del Guerrero, così come il sequestro e desaparición di 43 studenti della stessa scuola di Ayotzinapa, commesse nella notte del 26 e 27 settembre scorso dalla polizia locale al soldo dei narcos e da membri del cartello Guerreros Unidos, con la piena connivenza delle autorità locali e la partecipazione-omissione di quelle statali e federali, è allo stesso tempo emblematica, in quanto terribilmente “normale” in una parte  consistente del territorio messicano da anni fuori controllo, ed “eccezionale”, perché accade proprio nel contesto di un autunno caldo di mobilitazioni studentesche all’Istituto Politecnico Nazionale (IPN) di Città del Messico, da quasi un mese occupato dagli studenti, e si rivolge contro la dissidenza sociale e i giovani in lotta secondo un canovaccio repressivo ben noto.

Nel parlamento UE il PPE (Partito Popolare Europeo) e la APS&D (Alleanza Progressista dei Socialisti e Democratici), che è associata all’internazionale socialista di cui fanno parte il PRI (Partido Revolucionario Institucional), partito di governo in Messico, e il PRD, che governa lo stato del Guerrero e il comune di Iguala, si sono sganciati dalla risoluzione che invece hanno approvato gli altri 5 gruppi. Secondo quanto richiesto dagli europarlamentari, questo dibattito, tardivo e congiunturale seppur definito come “urgente”, dovrebbe arrivare a formalizzare alcune richieste al governo messicano: l’arresto di tutti i responsabili e la fine dell’impunità imperante nel paese per riottenere la fiducia perduta.

Dichiarazioni piuttosto blande, considerando la situazione messicana. Se si rispettasse alla lettera il vincolo di ristabilire rapporti commerciali con un paese solo quando questo “riconquista la fiducia” o riesce a cambiare sostanzialmente la situazione dei diritti umani al suo interno, allora per il Messico (ma non solo, chiaramente) i trattati dovrebbero essere stati sospesi molti anni or sono e sepolti sotto una montagna di denunce dell’ONU, della Corte Interamericana dei Diritti Umani e centinaia di ONG. Anzi, la UE, se fosse coerente, potrebbe autosospendersi oppure cancellerebbe trattati e alleanze anche con gli Stati Uniti che coi diritti umani non vanno molto d’accordo.

 

Deviazioni mediatiche

In un comunicato il presidente Enrique Peña Nieto ha promesso la fine dell’impunità e il castigo dei responsabili come fosse un cittadino normale o un rappresentante di una ONG, non come un capo di stato. Nel suo discorso possiamo leggere un tentativo di strumentalizzare la strage e di ergersi a “giustiziere” di terze parti coinvolte, come se il suo partito, il PRI, fosse l’eccezione, come se le cause profonde del malessere nazionale e della violenza fossero da ricercare altrove e non nella condotta degli apparati statali in quanto tali e nella disastrosa politica di sicurezza degli ultimi governi del PAN e, ancora prima, negli anni ‘90, del PRI. Certamente esiste una responsabilità anche del PRD, in particolare nel Guerrero in cui governa, oppure nel più povero e abbandonato degli stati, il Chiapas, dove l’ex governatore perredista Juan Sabines ha amministrato la regione come un signore feudale dal 2007 al 2012. Ma una sottile o diretta strumentalizzazione politica del caso Ayotzinapa in funzione anti-PRD serve solo da distrazione di massa, non a risolvere i problemi storici del paese.

La stessa funzione ha compiuto la riproduzione ossessiva della notizia delle contestazioni e l’aggressione ricevuta alla fine della manifestazione dell’8 ottobre a Città del Messico dal leader storico e fondatore del PRD, Cuauthemoc Cárdenas, e dal giornalista e accademico Adolfo Gilly che lo accompagnava. Gilly ha ricevuto una sassata e Cárdenas è stato fischiato pesantemente e varie persone si sono frapposte per sventare un’aggressione fisica diretta contro di lui. I media messicani hanno insistito molto sull’episodio, tanto che il giorno dopo tante persone si ricordavano solo di quello e avevano dimenticato i motivi della protesta. Nonostante le contestazioni, il Partito ha ribadito la sua fiducia ad Ángel Aguirre e l’assemblea plenaria del Consiglio Nazionale ha optato per non chiedere le dimissioni al governatore del Guerrero.

I media americani come il Washington Post, il New York Times, l’Economist, il Sunday Mirror, le radio e le TV hanno preso a coprire massicciamente i fatti di Iguala e Guerrero mentre per un paio d’anni avevano deciso di appiattirsi sulla retorica di Peña e smorzare i toni sulle questioni di sicurezza. Dal Mexico Moment al Mexico Murder, titola il Washington Post. La “luna di miele” pare finita e i giornali, dopo il “risveglio”, denunciano la mancanza di rispetto della legge e delle minime condizioni di sicurezza in Messico, smontano la propaganda ufficiale attraverso le immagini delle fosse comuni che spuntano in ogni dove, drammatiche e imbarazzanti.

 

 

Responsabilità e narcos

Nei media messicani l’attacco contro un leader della sinistra parlamentare nazionale ha consolidato nell’opinione pubblica l’idea che, in fondo, i responsabili principali della strage siano il PRD, il governatore del Guerrero, Ángel Aguirre, e il sindaco latitante di Iguala, José Luis Abarca, membri di quel partito, mentre si tralasciano le responsabilità e le connivenze di altri personaggi e istituzioni: la polizia federale e l’esercito, che non sono intervenuti tempestivamente per impedire la mattanza e, anzi, hanno lasciato fare; la Procura Generale della Repubblica che, come alcuni esponenti del PRD, era al corrente della situazione criminosa e della narco-politica a Iguala, nel Guerrero così come negli altri stati della repubblica; il governo federale che da una parte implementa una politica di “mano dura” contro la delinquenza organizzata, arrestando capi importanti, ma anche molto mediatici, come Joaquín Guzmán, Hector Beltrán Leyva, el H, o Vicente “Le Vice-Roi” Carrillo Fuentes, ma dall’altra perpetra e rinforza il patto d’impunità e connivenza con le mafie, non è capace di controllare il traffico di droga, armi e persone lungo la frontiera con gli USA e non agisce per debilitare il muscolo finanziario dei cartelli.

Il fatto che “El H” a Queretaro, città in cui è stato catturato, fosse conosciuto per i suoi affari leciti, per le sue aziende legali, per le sue capacità imprenditoriali e si fosse costruito una fama nel business milieu locale e nazionale, è illuminante: la lotta contro i cartelli non s’è spostata dal lato militare a quello economico e gli affari dei narcos vanno a gonfie vele nonostante gli arresti dei principali boss, presto rimpiazzati, perché il mercato continua a domandare i prodotti e i servizi che questi offrono e il riciclaggio non viene frenato, anzi, genera indotto e risorse per l’economia legale.

Nei messaggi del presidente non viene mai messa in discussione la strategia globale e interna contro il narcotraffico, non si menzionano mai gli approcci pragmatici al tema della legalizzazione o regolazione dei mercati (produzione, distribuzione, vendita) delle droghe, né si fanno passi indietro rispetto alle politiche di militarizzazione del territorio e decapitazione dei cartelli dettate dall’esperienza (e dalle pressioni) statunitensi applicata all’America Latina.

Se negli USA la mano dura contro le mafie, specialmente contro cosa nostra, la cattura dei boss e la frammentazione delle strutture criminali ha funzionato in passato, grazie alla tenuta della struttura istituzionale nazionale e locale, in Colombia o in Messico si vive una realtà totalmente differente: come dimostra il caso Iguala-Ayotzinapa l’azione di schegge impazzite risultate dalla frammentazione di alcuni cartelli, in collusione con le autorità, ha mostrato la scarsa attenzione del governo verso il controllo del territorio e dei comuni, delle realtà locali e regionali che sono sfuggite di mano e che pagano il conto della narcoguerra.

Nel Guerrero ci sono 9 narco-fazioni, una costellazione criminale nata dalla disgregazione del cartello dei Beltrán Leyva di cui i Guerreros Unidos, autori della strage contro i normalisti di Ayotzinappa, fanno parte. Se i cartelli hanno una struttura solida, come nel caso di quello di Sinaloa, la fase di sbandamento a livello locale e la ricomposizione in seguito alla cattura o uccisione di un capo di una plaza, di un territorio/mercato definito, o anche di un boss di livello superiore durano relativamente poco.

Nel caso di organizzazioni decadenti, già debilitate dalle autorità o dai rivali, o in alcuni territori dove la situazione è più incerta per la pressione concorrenziale mafiosa, esiste una tendenza alla frammentazione e la morte di un boss può provocare la disgregazione e la nascita di gruppi autonomi, oltre all’inasprimento della violenza che questo processo e un’eventuale successiva ricomposizione o sparizione totale di questi gruppi possono comportare. La distruzione e la conseguente ricomposizione di gruppi criminali a livello locale, unite ai problemi strutturali del precario stato di diritto, della corruzione politica e dell’impunità, sono stati i detonatori di una violenza crescente che è andata normalizzandosi, posizionandosi su livelli sempre più elevati e pericolosi per la tenuta stessa dello stato messicano per cui si parla in alcuni casi o regioni di stato fallito e addirittura di narco stato, cioè uno stato catturato da poteri e settori criminali.

Un Messico pacificato?

Quando parlo di normalizzazione alludo alla strategia governativa che vuole imporre altri temi nell’agenda e nella comunicazione di massa e che cerca di minimizzare la violenza e la continuazione della narcoguerra militare in questo sessennio di Peña Nieto (2012-2018), ma anche alla sua assimilazione passiva da parte dell’opinione pubblica interna ed estera, come se il problema non esistesse più o fosse sotto controllo: non è così e, malgrado la lenta, e in parte fisiologica, discesa del tasso di omicidi globale nel paese, sia queste cifre che le morti legate alla guerra al narcotraffico restano altissime e, secondo il trend attuale,  potrebbero far salire il numero degli assassinii per la narco-violenza durante l’amministrazione di Peña ben oltre il record del suo predecessore che, a seconda delle fonti, oscilla tra gli 80mila e i 100mila. Anche il numero dei desaparecidos, difficile da calcolare e oggetto costante di dispute mediatiche e politiche acerrime tra enti, ONG, istituzioni governative più o meno libere, procure e ministeri, continua a preoccupare e comunque s’aggira intorno ai 4000 all’anno.

Di fronte a questo panorama Agustín Castrens, il governatore della Banca del Messico, imperturbabile, difende l’indifendibile e annuncia che gli investimenti esteri diretti, ossessione morbosa dei responsabili della politica economica in Messico, non diminuiranno per colpa del massacro di Iguala e della sua risonanza mediatica internazionale: il castello di carte del governo, costruito faticosamente grazie al sostegno della diplomazia messicana e dei media di tutto il mondo, comincia ad andare in fiamme e ad essere interrato nella fossa comune delle promesse e delle chimere. Il progetto modernizzatore di Peña Nieto, in verità poco moderno e innovativo rispetto a quello dei suoi predecessori, rischia d’incagliarsi a soli due anni dal suo lancio in pompa magna avallato dal Patto per il Messico, la grande coalition (a la mexicaine) di partiti (PRD, PRI, PAN) che ha votato le numerose modifiche costituzionali necessarie per approvare le riforme strutturali dell’economia, del lavoro, dell’educazione, del settore energetico, delle telecomunicazioni e del fisco negli ultimi mesi.

Pare, però, che all’opinione pubblica mondiale e agli investitori il loro contenuto non importi, basta che non si parli più della violenza, che si presenti il paese come un paradiso turistico dove i lavoratori hanno sempre il sombrero e il sorriso stampato sulla faccia (come negli spot, pagati con le tasse dei contribuenti, che invadono copiosi i palinsesti di radio e TV), dove ci siano facilitazioni di ogni tipo per gli affari e il libero mercato, dove il costo del lavoro sia basso, competitivo con quello cinese, per intenderci, e la flessibilità estrema un diritto aziendale, dove si liberalizzi ogni settore strategico e si zittiscano i sindacati, annichiliti manu militari o via decreto (come lo SME, sindacato messicano degli elettricisti, o la CNTE, Coordinadora Nacional Trabajadores de la Educación)  oppure asserviti dal sistema neo-corporativo del PRI  al governo (come la SNTE, Sindicato Nacional Trabajadores de la Educación, o il Sindacato della parastatale petrolifera PEMEX). Insomma i diritti umani si misurano in dollari ed euro. La narrativa ufficiale (s)vende la manodopera e le risorse al miglior offerente, purché le statistiche mostrino miglioramenti e non s’esaurisca il Mexico’s Moment vaticinato dalla rivista Time solo qualche mese fa.

 

Suicidi

Il 14 ottobre uno dei capi dei narcos dei Guerreros Unidos, Benjamín Mondragón, alias El Benjamón El Tío, si è suicidato per evitare la sua cattura da parte della Polizia Federale a Jiutepec, nello stato del Morelos, confinante col Guerrero. Il 17 ottobre il capo supremo del cartello Guerreros Unidos, Sidronio Casarrubias Salgado, è stato arrestato. Rimangono in prigione i 22 poliziotti di Iguala catturati poco dopo la strage, altri 27 arrestati negli ultimi giorni e 17 membri del cartello, accusati di delinquenza organizzata, sequestro di persona e omicidio. Sindronio, alias El Chino, ha parlato della strage come di una situazione “casuale” che lui non ha ordinato ma alla quale non s’è opposto.

La velocità di certe catture e le forze impiegate nella “caccia all’uomo” sono proporzionali all’impatto mediatico globale dei fatti di Iguala: 3500 soldati, 300 militari della marina, 62 periti e 900 poliziotti federali sono accorsi nella zona del massacro in fretta e furia per cercare di tappare una falla enorme, aperta durante decenni dalla corruzione delle autorità in combutta coi narcos, dalla quale continua a scorrere sangue attraverso le decine di fosse comuni che vengono ritrovate quasi ogni giorno e sono ormai più di 20 solo a Iguala. Ma che ne sarà delle altre fazioni, una volta smantellata la struttura dei Guerreros Unidos? Chi impedirà altre stragi di studenti? Non si sa. Intanto il territorio di 12 comuni nel Guerrero e di uno nell’Estado de México, una regione-cintura intorno alla capitale, è stato occupato dalle forze armate per “garantire la sicurezza”.

Nei primi 19 mesi di governo il presidente della repubblica e il suo entourage hanno volutamente tralasciato il tema dell’insicurezza e della narcoguerra per proporre al mondo l’immagine di un paese riformista che, tramite patti politici stabili e negoziazioni con le parti sociali, riusciva a fare “riforme trasformatrici”, sempre e comunque. Insomma, un paese in pace, ideale per gli investimenti stranieri e avviato a uno sviluppo armonico. Ma i morti e il tema della sicurezza riemergono periodicamente, instancabili, e ora la società civile nazionale e internazionale s’è risvegliata per evidenziarlo.

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