Sull’orlo dell’apocalisse: intervista ad Ali Millar
Ali Millar collezione SUR Interviste ScritturaAva Anna Ada di Ali Millar è una favola dark, inquietante e sensuale, un romanzo che racconta il deflagrare delle pulsioni represse in un mondo – immaginario ma fin troppo simile al nostro – sull’orlo dell’apocalisse. Qui l’autrice dialoga con Martina Testa sulla genesi dei personaggi, dell’ambientazione e di molto altro.
di Martina Testa
Come è nato questo romanzo? Sei proprio partita con l’idea di scrivere un libro su un’ossessione amorosa alla fine del mondo? Hai immaginato prima Ava, Ada o la Punta (la località in cui vivono)? O all’inizio ti è semplicemente apparsa davanti agli occhi la scena iniziale?
Penso che sia possibile capire davvero ciò che si è scritto solo a posteriori. Di sicuro non sono partita con l’idea di scrivere un libro sulla fine del mondo, le storie distopiche mi fanno paura, e nel mio primo libro [The Last Days, un memoir sul suo passato fra i Testimoni di Geova, n.d.t.], raccontavo com’era stato crescere pensando che il mondo stesse per finire: l’ultima cosa che volevo era tornare sull’argomento. Ma forse i nostri temi ci scelgono più di quanto siamo noi a scegliere loro.
Anni prima avevo scritto un racconto su una prostituta adolescente, e quello ha gettato le basi per il personaggio di Ava. Mi interessa osservare cosa succede alle persone quando si trovano in un ambiente nuovo, e a un certo punto mi sono fissata con l’idea del trasloco, della ricollocazione – suona come se qualcosa venisse rotto e ricomposto – e quello è stato il punto di partenza per Anna. Mi piace porre domande ai miei personaggi per provare a capirli meglio, comincio dandogli un certo tipo di sensibilità e da lì ricostruisco il resto. Avevo in mente una donna arrivata da poco in questo paesino, e dovevo capire come mai era finita lì e cosa succedeva, per logica, da quel momento in poi.
In un certo senso la Punta nella mia testa è sempre esistita. Sono cresciuta vicino al mare, sono tornata a viverci vicino, da piccola sognavo onde giganti che mangiavano la terra. E sono cresciuta proprio al confine fra Inghilterra e Scozia, c’è uno stretto lembo di terra fra i cartelli che indicano le due regioni, che sembra non appartenere a nessuno. Da bambina, quando ci passavamo, mi chiedevo sempre cosa sarebbe successo se uno avesse costruito una casa proprio lì: ecco da dove viene quella notazione verso l’inizio, «né in Inghilterra, né in Scozia».
Tutti questi elementi si sono amalgamati in maniera spontanea quando ho cominciato a scrivere. Non sapevo davvero cosa sarebbe successo, il che era già metà del divertimento: dovevo solo obbedire a queste voci insistenti e vedere dove mi portavano. Potrei dire che scrivere questo romanzo è stata una forma di possessione.
La prima immagine che mi è apparsa è stata l’ambientazione: quando ho cominciato a scrivere Ava Anna Ada abitavo in Inghilterra già da un paio d’anni, ma penso che in un modo o nell’altro nei miei libri ci sarà sempre una qualche versione del luogo da cui provengo: un posto del genere ti si insinua dentro e non ti lascia più. Ecco, ho visto qualcosa di molto preciso, inquietante e strano, e quella visione l’ho usata come capitolo di apertura, prima di passare ai personaggi, le cui vite sono tutte direttamente condizionate dal luogo in cui si ritrovano a vivere.
Il romanzo si apre con un capitolo in cui, come indica il titolo, a parlare è un «Noi»; seguono due capitoli con la voce prima di «Ava» e poi di «Anna», e poi un capitolo «Ava e Anna», e probabilmente è stato quello il punto in cui mi sono innamorata del libro. Mi è sembrato riuscitissimo questo gioco di voci (un noi esterno e leggermente misterioso, poi due io diversi, e poi un altro noi che li fonde), che a volte raccontano gli stessi episodi. Puoi parlare un po’ di questa scelta? Come mai hai voluto usare tutte queste prospettive diverse?
Ho scritto il romanzo poco dopo aver scritto il mio primo memoir. E mentre scrivevo quello, avevo molto ben presente il fatto che ciascuno dei protagonisti del libro avrebbe raccontato una versione diversa della stessa storia. Essere l’unica narratrice mi sembrava una posizione scomoda, e penso che Ava Anna Ada sia nato da qui. Ogni libro nasce sempre dal precedente, e spesso in modi inaspettati. Volevo far raccontare lo stesso evento da diverse voci narranti per dare l’idea delle diverse possibilità di una storia, ma anche per far capire che qualunque tipo di racconto è intrinsecamente inaffidabile, specie poi quando è in prima persona: c’è sempre dietro un’intenzione, un fine.
In alcune delle scene più brutali ho combinato la voce di Anna e Ava perché volevo mantenere l’ambiguità su chi delle due faceva cosa. Leggo e guardo tanta Agatha Christie: adoro Assassinio sull’Orient Express. Quei capitoli nascevano da un’idea simile di complicità fra i personaggi, in cui il lettore non viene mai messo a parte di ciò che è successo davvero: il che fa esistere la storia come una realtà a sé stante. C’è molto snobismo contro la letteratura di genere, ma a me i gialli e i thriller psicologici sono sempre piaciuti. Mi dà molta soddisfazione lavorare sui meccanismi della trama, creano delle costrizioni che rendono più incisiva la mia scrittura.
Mi piaceva anche il ritmo che si creava man mano nel passare da una voce narrante all’altra, c’era una specie di tensione che altrimenti non sarebbe esistita.
Il romanzo è diviso fra un prima, un durante e un dopo. Inizialmente, la voce «Noi» faceva da cappello introduttivo a ciascuna delle tre sezioni. Nelle prime stesure anche Adam era uno dei narratori, ma durante le fasi di editing abbiamo deciso che la sua voce non funzionava. Così come non funzionava il semplice batti e ribatti, a ping-pong, di Ava e Anna. Era cacofonico. Io tengo sempre molto presente l’aspetto della sonorità, il suono del libro me lo sento in testa, per così dire. Via via che aggiungevo altri capitoli del «Noi», quello diventava un elemento percussivo, un crescendo verso il disastro finale. Non volevo svelare mai del tutto chi è questo «Noi»: potrebbe essere Dio, potrebbe essere la natura, potrebbero essere gli spettatori accorsi in paese.
Questa voce risolveva anche i problemi tecnici creati dal fatto che sia Ava che Anna parlavano in prima persona: Anna non era al corrente di alcune delle cose che faceva Ava, quindi non potevo ricorrere alla sua voce per raccontarle; però potevo passare al Noi, che è sempre una prima persona ma diventa più onnisciente, si avvicina a una terza persona, quella che a me piace sempre immaginare come la voce di Dio. Stilisticamente parlando, i capitoli del «Noi» sono stati quelli più difficili da scrivere: in genere sono composti da una sola frase che dura per diverse pagine, sono il mio umile tentativo di emulare Laszlo Krasznahorkai, un altro autore che mi ha ispirata.
Sto anche molto attenta a non dare modo al lettore di fermarsi, e questo susseguirsi di voci crea – spero – un ritmo incalzante che fa andare avanti a leggere.
Il paesino costiero in cui è ambientato il romanzo è minacciato da una grande Onda, e per questo il libro è stato ascritto alla categoria della climate fiction. A me questa etichetta non piace granché, ma è vero che il rapporto fra gli esseri umani e il resto del mondo naturale è uno dei temi del romanzo. In cui figurano ampiamente bachi, falene e patelle (non proprio le creature più graziose del mondo), mentre un paio di animali d’affezione vengono uccisi (il che, fra parentesi, mi sembra uno dei più grandi tabù della letteratura e del cinema occidentale contemporaneo, dove il primo John Wick è l’eccezione che conferma la regola: dopo che gli uccidono un cane, Keanu Reeves fa fuori un’ottantina di persone); Anna odia la lavanda e i tramonti; Adam odia tutte le creature alate; Ava si ferisce con le schegge dei tronchi. Perché in Ava Anna Ada la natura è così poco rassicurante?
Neanche a me piace il termine climate fiction, e in particolar modo la crescente aspettativa – almeno nel Regno Unito – che la cli-fi contenga qualche elemento di ottimismo e speranza, il che, mentre viviamo qualcosa di molto reale e molto presente, mi sembra l’ennesima forma di negazionismo; ma a parte questo, è vero, nel libro il mondo naturale è davvero importante.
Sono cresciuta nella campagna scozzese e penso sia impossibile vivere in un posto del genere e vedere la natura come qualcosa di rassicurante. C’era gente che moriva per incidenti nelle fattorie, pescatori che annegavano, disoccupati che si impiccavano nei boschi: c’era sempre la sensazione che la vita avvenisse altrove. In termini di politiche e di crescita economica, eravamo in genere trascurati e dimenticati. E poi la natura stessa è brutale: fa ciò che le serve per sopravvivere. Volevo che i personaggi del romanzo riflettessero questo.
Penso che la nostra ossessiva tendenza a igienizzare la natura, che appare spesso nei memoir a tema naturalistico, nasca dall’esigenza di negare o coprire la brutalità della nostra natura di esseri umani. Riporta anche all’idea che possiamo essere salvati; io dubito che la salvezza sia possibile, arrivati a questo stadio dell’evoluzione umana. Sono influenzata da Ted Hughes, che vedeva la natura come qualcosa di brutale quanto lo siamo noi. Politicamente, per me era importante scrivere un libro che esaminasse la difficoltà della vita rurale, che invece spesso viene vista come una sorta di antidoto alla vita cittadina; la strana idea che il mare ti salverà. Oppure gli abitanti delle campagne vengono considerati meno intelligenti o meno importanti, ridotti in un certo senso all’anonimato, quindi ho voluto raccontare questa ragazzina super sveglia per contrappormi a quel cliché. E poi ero stufa di sentir definire le zone rurali come posti «in mezzo al nulla», è offensivo, quando per la gente che ci vive quello è il centro del proprio mondo. Si può inclinare leggermente la cartina in modo che, all’improvviso, le isole Shetland diventino il centro del mondo, con tutte le rotte commerciali che le toccano, il che dimostra quanto è importante la prospettiva quando si scrive di un luogo, e infatti spesso chi viene da fuori lo fa male.
Ciascuno dei personaggi è per certi versi impegnato in un regolamento di conti con il mondo naturale, il che è un modo per riflettere su quanto ce ne siamo allontanati, ma anche per chiederci se non siamo sempre esistiti a dispetto di quel mondo. Fin dai tempi più antichi, buona parte della nostra esistenza è dedicata a tenerlo alla larga, domarlo, decifrarlo. A volte penso che forse siamo le creature meno adattabili, non veramente idonee alla vita sulla terra né nell’acqua, e per Ava, Anna e Adam è senz’altro così. Le creature intorno a cui ruota il romanzo sono tutte ben equipaggiate per la sopravvivenza: le falene, le patelle, i bruchi hanno doti di adattamento che noi nemmeno ci sogniamo, per questo mi piacciono.
Quanto alla parte sul cane. All’epoca non mi sono resa conto che fosse così audace ma prima della pubblicazione il mio agente mi ha raccontato la storia di Bret Easton Ellis, a quanto pare il suo editore inglese voleva tagliare la scena del topo in American Psycho e lui mandò un fax che diceva semplicemente il topo resta, risposta che adoro. È importante sapere su cosa non si è disposti a fare compromessi. Il cane doveva restare, solo da un primo incontro così brutale poteva nascere il rapporto fra Ava e Anna. A volte scrivi una cosa e solo dopo ti rendi conto che sei stata un po’ estrema, forse sei andata troppo in là. Non mi ero riproposta fin dall’inizio di essere provocatoria, ma il mestiere di scrivere è strano, stare da sola in una stanza tutto il giorno per settimane ti fa scattare delle cose dentro. Poi c’è anche un altro aspetto: il fatto che uccidere un cane a calci non abbia conseguenze dice molto del tipo di mondo in cui è ambientato il libro, di quanto quel mondo abbia superato le norme sociali, viva una sorta di apocalisse morale.
Le due protagoniste sono entrambe persone disturbate: non sono particolarmente simpatiche, le loro azioni sono spesso indifendibili, fanno volontariamente del male a sé stesse e ad altri: e questa mi è sembrata un’interessante alternativa alle tante storie femminili di redenzione. Perché hai deciso di mettere al centro del tuo romanzo due donne così danneggiate e dannose, non avevi paura che risultassero odiose? E nel crearle, ti sei ispirata ad altri personaggi femminili di invenzione (eroine di romanzi o film, famose influencer di Instagram…)?
La questione delle storie di redenzione mi sembra molto importante. Non volevo sentirmi limitata nei temi della mia scrittura né nel modo in cui parlavo delle donne. Come scrittrice, sento una pressione a conformarmi a un certo modo di scrivere i personaggi femminili. Se perfino nel campo delle storie di fantasia le donne hanno ancora bisogno di redenzione, quanti passi avanti abbiamo fatto davvero? Ho letto un libro, ultimamente, in cui la ribellione della donna consisteva nell’andare a letto con uno molto più giovane di lei; che la trasgressione femminile ancora si esprima in relazione agli uomini mi sembra un segnale regressivo. Nei romanzi e nei film le donne sono di rado veramente cattive, spesso pensano di esserlo o pensano di lasciare i figli o il marito, ma non arrivano a farlo davvero, il che mi sembra un limite enorme al potenziale di queste narrazioni.
Spesso penso che il nostro attaccamento alle storie di redenzione o la riluttanza a creare personaggi veramente difficili sia un modo di non guardare in faccia la nostra capacità di fare il male, che è enorme. Io sono cresciuta nutrendomi della Bibbia e delle fiabe dei fratelli Grimm, uno strano incrocio forse, ma che esplorava a fondo la capacità umana di fare il male, e anche quella femminile, specie nei Grimm. Mi ha colpito molto una cosa che mi ha detto una volta la scrittrice inglese Marina Warner, e cioè che queste fiabe, benché registrate in forma scritta da uomini, sono state tramandate dalle donne: cos’è che spingeva le donne a raccontare storie così orribili su loro stesse?
Io credo che le donne siano altrettanto possessive degli uomini rispetto al proprio territorio, ma il territorio femminile è più piccolo, limitato alla sfera domestica, il che rende la nostra violenza più silenziosa, forse più nascosta, ma anche più diffusa e più accettabile. Ci sono tanti modi di fare danni a una persona. Noi magari non litighiamo su un pezzo di terra, ma spesso litighiamo su altre cose, conquistando una posizione dominante in base a quanto siamo belle o quanto siamo fertili o quanto siamo devote alla famiglia, a quanto siamo brave; ma nel complesso siamo sempre quelle che tirano su la prossima generazione di stronzi: e questo cosa dice di noi? Finché questa componente oscura non la portiamo alla luce e non la guardiamo bene, ci si incancrenisce dentro. Con Anna e Ava volevo parlare di questo: si amano davvero o sono spinte a distruggere sé stesse e ciò che hanno intorno perché è la dinamica di scarsità e competizione su cui prospera il capitalismo a creare una forza così distruttiva e limitante?
Io penso che siamo tutte e tutti danneggiati, e tutte e tutti abbiamo la capacità di danneggiare, è qualcosa che abbiamo imparato a nascondere anche se viene fuori in altri modi; ma via via che le risorse cominciano a scarseggiare temo che dovremo fare i conti da vicino con i nostri limiti originari, forse con la nostra natura più autentica, e a quel punto come potremmo rivelarci?
Uno scrittore a cui mi ispiro è Bret Easton Ellis, tutti i suoi personaggi sono irredimibili, e per molti versi quello è l’unico modo in cui si può scrivere un personaggio americano, e forse un personaggio occidentale in genere. L’idea della redenzione mi sembra un treno che abbiamo perso da un pezzo, fin da quando abbiamo cominciato il nostro progetto di costruzione dell’Impero e, in America, fin dall’arrivo dei padri fondatori. Certo, ci vuole un gran fegato a scrivere così, e non ero affatto sicura di averlo, ma forse Ava Anna Ada esiste per dimostrare il contrario.
Temevo, sì, che Ava e Ada risultassero odiose, ma è anche vero che avevo già pubblicato un memoir, ed è più facile pensare che ai lettori non piacciano i tuoi personaggi, che pensare di non piacergli tu. Con il primo libro è stato come affacciarmi al parapetto e non riuscire a scappare via, penso che mi abbia preparato a un sacco di cose, quando l’hai fatto una volta è più facile farlo di nuovo. Un’altra autrice a cui mi ispiro è Rachel Cusk, che è originale a livello di forma ma possiede anche un tipo di coraggio che mi ha dato qualcosa a cui puntare. A cui ancora sto puntando.
Ho passato un sacco di tempo nel tunnel di Instagram sul finire degli anni Dieci, quando è decollato il fenomeno delle «Instamom». Vedevo donne che fondamentalmente vendevano l’infanzia dei propri figli online, parlando spesso dei mali della tecnologia e degli schermi, eppure postando ogni loro movimento. Mi sono resa conto che sapevo tutto di quei bambini, i nomi, dove abitavano, i loro gusti, e non sarebbe stato difficile trovarli se avessi voluto, e le madri stavano sostanzialmente usando i figli per ottenere introiti pubblicitari. E sempre in quel periodo giravano tanti memoir di madri, che non affrontavano il tema della maternità e del suo effetto sulla madre con strumenti artistici, ma spesso parlavano di aspetti molto intimi della vita dei figli: mi sembrava una clamorosa violazione della privacy, ma nessuno faceva niente per impedirla. E poi mi sembrava che ci fosse una sorta di gara di popolarità in cui tutte le mamme cercavano di guadagnarsi sempre più follower e via dicendo, mi sembrava un comportamento cinico, egoista e moralmente discutibile, se non addirittura un po’ corrotto. Ovviamente tutto questo doveva finire in qualche modo dentro il libro, perché il disagio più grande nasce quando la lettrice si rende conto che Anna rappresenta aspetti che sono di tutte noi: mentre leggiamo il suo personaggio, a questo dato di fatto non possiamo sfuggire.
Io credo che i social media basati sulla profilazione degli utenti e su algoritmi di marketing, come X e Instagram – o «Lo Schermo» nel tuo romanzo – siano in ultima analisi incompatibili con una società democratica: dobbiamo scegliere se vogliamo avere l’una o gli altri. Sei d’accordo?
Sì, assolutamente. Ho cominciato a usare Twitter nel 2008, e anche se a volte mi sembrava di strillare nel vuoto, mi offriva comunque un modo di sentirmi connessa quando mi sentivo isolata – il che è stato il suo punto di forza e la sua rovina, perché anche le persone più emarginate possono essere raggiunte e selezionate dall’algoritmo. Parliamo di diventare virale su internet senza pensare alle implicazioni di questa parola: un virus non è qualcosa di molto desiderabile; misurarci numericamentre è qualcosa che ci ruba l’anima. Sappiamo che i social media ci rendono più stupidi e tirano fuori il peggio di noi, e forse questo è il diversivo perfetto: ci impegniamo tanto a guardare quei difetti lì che gli effetti più vasti e più insidiosi li ignoriamo. Volevo parlare di questo, con l’idea che spesso siamo troppo presi a guardare da un’altra parte per affrontare faccia a faccia la catastrofe imminente. Sia X, che Facebook, che Instagram offrono un sistema sempre più tacito per radicalizzare le persone, spesso fingendo di educarle o di metterle in connessione. Ci piace considerarci immuni, ma finché questi strumenti continuiamo a usarli, non lo siamo.
Io sono cresciuta all’interno di una setta, quindi certe tattiche mi appaiono molto chiare: e le ho viste usare continuamente, specie su Instagram, con gente che si spacciava per esperta pur avendo pochissima credibilità, e gente che si lasciava ingannare da ciò che vedeva. Non chiediamo mai riferimenti o fonti, ormai vedere è credere, a volte credere anche disperatamente, e l’intelligenza artificiale ha solo peggiorato le cose. Un tempo dicevo, per scherzare, che la prossima guerra mondiale l’avremmo combattuta usando i social media, ma ormai non è più una battuta né una congettura.
A volte i social mi sembrano il metodo perfetto per combattere una guerra civile: divide et impera. Abbiamo visto Trump vincere due volte le elezioni grazie ai social media, e adesso ci ritroviamo Musk come burattinaio: l’erosione della democrazia occidentale è completa, ma allo stesso tempo mi chiedo: come facciamo a ritirarci da qui? Non lo so bene. Ci iscriviamo alle piattaforme senza leggere le clausole contrattuali, e comunque le clausole contrattuali non ci dicono certo che effetti hanno i social media sulla nostra salute mentale, le nostre relazioni, le nostre aspettative o la nostra società: è veramente una rete, una rete ingarbugliatissima. Forse a un livello irreparabile. Altera il tessuto della realtà in una maniera che non riusciamo neanche a capire del tutto, e in Ava Anna Ada volevo affrontare questo aspetto. Dopo un po’, trattare la nostra vita come un video promozionale e noi stessi come merci diventa corrosivo. Vuol dire vedere solo il riflesso di noi stessi e del mondo che abbiamo costruito, mentre l’algoritmo continua ad alimentare il mostro, rifilandoci sempre di più la stessa roba, e non c’è nulla che riesca a darci una scossa e staccarci da lì.