Federico Falco

Intervista a Federico Falco

Giulia Zavagna Interviste, SUR

In attesa di incontrare Federico Falco durante il suo tour italiano (qui tutti gli appuntamenti), pubblichiamo oggi una bella intervista di Giulia Zavagna, redattrice e editor della collana SUR, all’autore. L’articolo è uscito originariamente sulla SURletter, lo spazio in cui raccontiamo un pezzetto di mondo, quella nostra collezione di cartoline che è il catalogo della casa editrice. (Se ti va di scoprirne di più clicca qui.)

 

Federico Falco è nato nel 1977 a General Cabrera, nella provincia di Córdoba, in Argentina. Nel 2010 è stato selezionato dalla rivista Granta come uno dei migliori scrittori in lingua spagnola sotto i 35 anni. Nel 2017 Silvi e la notte oscura è stato finalista al Premio Gabriel García Márquez per il racconto. Le pianure è il suo ultimo romanzo.

 

 

Fin dalla prima riga, nelle Pianure c’è una riflessione sul tempo, un modo particolare di narrare il tempo, che mi sembra uno degli aspetti più coraggiosi e controcorrente del libro: non la necessità di accumulare episodi, personaggi, di occupare tutto il tempo a disposizione, ma prendersi il tempo – appunto – di osservare, di descrivere, perfino di sentire. Da questo punto di vista, forma e contenuto nel romanzo creano un’armonia davvero rara. È qualcosa che ti eri proposto fin dall’inizio?

Non mi è molto chiaro quale sia stato l’inizio della scrittura delle Pianure. Mentre scrivevo alcuni dei racconti del mio libro precedente (Silvi e la notte oscura) ho cominciato a prendere appunti sparsi, osservazioni sul paesaggio, sull’orto, su certi temi che mi interessavano.

Quegli appunti poi hanno preso ad accumularsi nel corso degli anni. In un primo momento non pensavo al «tempo» come a un argomento centrale, avevo piuttosto la sensazione di vivere una vita troppo accelerata, troppo piena di lavori, interessi, vincoli, commissioni da fare e, di colpo, per esempio, mi trovavo davanti gli alberi di jacaranda in fiore e mi dicevo: è già novembre! Oppure magari finiva la giornata e io non me rendevo conto, d’improvviso era già sera. Allora la scrittura ha cominciato a essere un modo di fissare lo sguardo, di osservare, di obbligarmi a rallentare e guardare: prendere nota e, nel tentativo di conservare in qualche modo le cose attraverso le parole, tentare anche di essere più presente, di frenare il tempo.

 

È un romanzo che parla molto anche di solitudine: per un attimo, il protagonista che sceglie di lasciare la città e vivere da solo in campagna, lontano dalla società, mi ha ricordato il re delle lepri, l’eremita al centro del primo splendido racconto di Silvi e la notte oscura. Eppure, la sensazione è che il libro sia comunque pieno di voci. Vuoi dirci qualcosa su questo?

Mi piacciono i personaggi solitari. Il re delle lepri è uno dei miei personaggi preferiti, perché è una persona che segue i propri desideri, per quanto questi siano percepiti dagli altri come qualcosa di strano, di folle, di estremo. Tuttavia, con il narratore delle Pianure sentivo che ci fosse il rischio di obbligarlo a confrontarsi con una solitudine eccessiva, una solitudine troppo difficile da abitare. Allora pian piano sono apparsi alcuni personaggi che, da una certa distanza, accompagnano o punteggiano la sua quotidianità. Ed è stato in quel momento, soprattutto, che mi è venuta l’idea di fargli trasferire in campagna l’intera biblioteca, perché avesse tutti i suoi libri a fargli compagnia, da leggere e rileggere accanto al fuoco, per sottolineare frasi e prendere appunti.

 

A partire dal titolo, la natura – il paesaggio, anzi – ha un ruolo centrale nel romanzo: «Qui si è soli nel paesaggio. Il paesaggio come specchio. Nel male e nel bene». Il paesaggio è quiete, rinascita, eppure ha sempre qualcosa che sfugge al controllo del narratore, come la scrittura. In questo senso l’orto e la pagina bianca sembrano contenere possibilità e insidie in parti uguali. Qual è il tuo rapporto con il paesaggio, e con la scrittura? Per te sono sempre stati legati come in questo romanzo?

Il paesaggio o, meglio detto, l’habitat, l’ecosistema in cui abitiamo, le forma geografiche che popoliamo e gli animali, gli insetti, la vegetazione con cui conviviamo sono sempre stati argomenti a me cari, che mi interessano e mi spingono verso la scrittura: com’è la vita di qualcuno che vive nella pianura? Com’è la vita di un personaggio che vive nella foresta, o vicino al mare, o in montagna? Nel trasferirsi a Buenos Aires, un personaggio che viene dalla patagonia avrà nostalgia delle stesse cose rispetto a un personaggio che viene dalla puna jujeña? Che tracce lascia dentro di noi il paesaggio in cui siamo cresciuti? Come cambia la nostra quotidianità vivendo in un posto o in un altro? Sono domande che mi hanno sempre interessato molto. In generale, non riesco mai a sedermi a scrivere se non so in quale paesaggio, in quale geografia trascorre la storia, da quale paesaggio provengono i personaggi, e che rapporto hanno con quel paesaggio: lo amano?, detestano essere cresciuti lì?, vorrebbero essere nati da un’altra parte? Questi interrogativi hanno sempre abitato i meandri, il backstage della mia scrittura, quello che è cambiato con Le pianure è che per la prima volta sono salite più in superficie e sono diventate parte integrante del testo.

 

C’è nel tuo romanzo un equilibrio delicatissimo nell’uso del linguaggio: la tua prosa è diretta, concreta, precisa, chiami le cose esattamente con il loro nome, e l’effetto nel lettore è di grande familiarità. Quando ti leggo ho da una parte la sensazione di vedere ciò che descrivi, e dall’altra quella di rivedere qualcosa che conosco, che ricordo. È qualcosa di cui sei consapevole, e quanto lavoro c’è dietro?

Non so se mi costa molto lavoro, ma è un lavoro quotidiano, costante. Ed è un lavoro che ha molto a che vedere con il desiderio di essere presente, di scrivere il tempo per cercare di essere nel momento stesso. A volte, in certi periodi della mia vita, quando sono molto occupato, o molto ansioso, o molto angosciato per qualcosa, mi capita di estraniarmi, mi chiudo sempre di più in me stesso e nei miei problemi e tutto quello che mi circonda scompare: gli oggetti, le persone, gli animali, il paesaggio. Vado per la vita come un treno ad alta velocità: tutto quello che si trova fuori dal finestrino si confonde in tratti vaghi che rapidamente restano indietro. Nominare, sapere il nome delle cose, mi è sempre parso un buon modo per rallentare. Obbliga a guardare, a distinguere, a chiedersi: come si chiama questo?, e quest’altro? C’è una frase della poetessa uruguayana Circe Maía che mi piace molto: «raccogliersi in sé stessi è non uscire da sé stessi». Quando mettiamo qualcosa in parole, invece, appare l’altro: il vicino, l’amico, la persona che incrociamo per strada, il lettore. Dare un nome alle cose è un modo di comunicare con l’altro, di aprirsi all’altro. Nel nominare appare la comunità: chiedere come si chiama qui una certa pianta, o un certo animale, è cominciare a conoscerlo e cominciare ad avere un linguaggio in comune con quella comunità, uscire da sé stessi a poco a poco per integrarsi e tessere dei legami.

 

Alcuni dettagli del narratore sembrano rimandare alla tua biografia: il protagonista si chiama Federico, è uno scrittore, ha trascorso l’infanzia a Cabrera per poi trasferirsi a Buenos Aires. Immagino che il suggerimento autobiografico sia voluto, e mi pare una scelta fino a questo momento inedita nella tua produzione. Il protagonista ci ragiona soprattutto rispetto alla sua vita in provincia, quando dice: «In un paese siamo tutti una biografia». Com’è stato affrontare questo aspetto della scrittura?

Le pianure è un romanzo e, in quanto tale, è un racconto di finzione. Ovviamente, molta della materia prima che ha dato origine al romanzo è basata sulla mia stessa esperienza. Il narratore condivide molte zone della sua biografia con la mia stessa biografia, e la prima persona è una prima persona molto vicina alla mia, ma su quella materia prima originaria c’è stato poi anche moltissimo lavoro successivo, molta invenzione, immaginazione, dare struttura, combinare aneddoti provenienti da due o tre persone o tempi o luoghi diversi in una sola, eccetera. Io ho avuto un orto in campagna, per esempio, ma non ho mai passato nove mesi isolato lì. L’enorme solitudine con cui si confronta il protagonista è qualcosa che io non potrei mai gestire. Fin dall’inizio nel progetto delle Pianure hanno quindi convissuto due elementi: da una parte dei materiali più vicini all’autobiografico, e dall’altra materiali più finzionali. Quell’ibridazione, quella mescolanza è qualcosa che da lettore mi ha sempre attirato molto ma che quasi non avevo esplorato nella scrittura. A un certo punto, mi è sembrato che questa fosse una buona opportunità per farlo. In parte è per questo che, quando ho dovuto dare un nome al narratore, ho pensato proprio all’idea secondo cui in un paese siamo tutti una biografia, ed è apparsa la possibilità di giocarci un po’, di costruire una specie di biografia parallela, ibrida, mescolata: la possibilità, al riparo sotto l’ombrello del romanzo in quanto forma finzionale, di ampliare la mia stessa biografia, di dire cose che magari io non avrei detto, di inventarsi un’altra vita o di ampliare le possibilità di questa. Perché, come dice il narratore, citando una frase della psicanalista Alexandra Kohan, «in certi momenti la finzione è l’unico modo di pensare il vero».

 

Negli ultimi tempi, da lettrice ho la sensazione di fare le scoperte migliori in quei libri in qualche modo ibridi, che mescolano fiction e non fiction, o che vanno oltre un determinato genere per esplorare nuove strade. Credo che Le pianure si possa annoverare fra questi: è un romanzo, ma con pagine che ricordano un diario intimo, e insieme contiene illuminanti riflessioni sulla scrittura stessa. Sei d’accordo? Avendo scritto fino a oggi soprattutto racconti brevi, se vogliamo più legati a un concetto rigido di forma, la scrittura delle Pianure ti è sembrata più libera, più complessa, diversa?

Il racconto breve è un genere che amo molto, ma è vero che dal punto di vista formale è piuttosto rigido, esigente. Il mio avvicinamento alla scrittura di racconti ha sempre avuto un che di ribelle, come se volessi sfidare le forme, mescolare vari materiali, ibridare, tendere la forma cercando di portarla fino a un certo limite oltre il quale continuava a essere un racconto ma poteva anche smettere di esserlo. Per molti anni questa ricerca ai limiti del genere stesso ha funzionato come una sorta di motore di scrittura, qualcosa che mi faceva venir voglia di sedermi a scrivere e a provare cose. In questo senso, Le pianure è un po’ l’evoluzione naturale di quella ricerca. Per quanto io lo senta come un’evoluzione, però, è stato anche un salto piuttosto brusco: all’inizio avevo la sensazione che non ci fossero limiti, che un romanzo – o che questo romanzo in particolare – potesse essere qualsiasi cosa, potesse accettare qualunque materiale. Parte del processo di scrittura significava imparare a gestire quella mancanza di limiti, quella nuova libertà che mi dava il progetto che avevo tra le mani.

 

Per finire, ci consigli un brano, una canzone (un suono, un rumore), con cui accompagnare la lettura delle Pianure?

Qualche disco che ascoltavo mentre davo gli ultimi ritocchi al romanzo:

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