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Eduardo Galeano, l’Obdulio Varela della letteratura

Fabrizio Gabrielli Autori, Eduardo Galeano, Interviste, SUR

Pubblichiamo oggi un’intervista di Fabrizio Gabrielli, traduttore di Chiuso per calcio di Eduardo Galeano, a Ezequiel Fernández Moores, il celebre giornalista sportivo argentino che ha firmato la prefazione dell’edizione originale dell’opera. Buona lettura.

 

Si può dire che il successo della scrittura di Eduardo Galeano, specie quella relativa al calcio, sia nella sua universalità?
L’aneddoto più bello sull’universalità di Galeano ha a che fare con David Goldblatt, il miglior sociologo che si sia mai occupato di calcio. Che si è messo a rincorrere un certo tipo di storie proprio grazie a Galeano. Mi ha confessato, Goldblatt, che quando ha letto – in inglese [tradotto da Mark Fried, n.d.a.] – Splendori e miserie del gioco del calcio è rimasto così scioccato che si è detto: Il calcio contiene ogni cosa al suo interno, grazie al calcio posso raccontare qualsiasi cosa voglia raccontare, e che succeda a un inglese, per me, è una dimostrazione potente dell’universalità di Galeano. Giustamente me lo domandi perché hai appena tradotto in italiano l’ennesimo suo libro che parla di calcio, e anche questa è una grande dimostrazione di universalità, no? Immagino a questo punto che sia stata tradotta in quasi tutte le lingue, la sua produzione calcistica.

 

Vi conoscevate già da prima che scrivessi la prefazione all’edizione originale di Chiuso per calcio?
Certo, lo conoscevo già da prima che facessimo insieme quel programma televisivo [Fútbol Pasión, nel 2014, per la televisione nazionale argentina, n.d.a.], e ti dico di più: io ho fatto parte di quel programma proprio perché era stato lui a richiedere la mia presenza. È stato lui a ideare quella serie di interviste, e noi ci conoscevamo già perché mentre scriveva Splendori e miserie del gioco del calcio gli avevano suggerito di incontrare un po’ di persone, tra le quali io. E allora mi è venuto a trovare qui, a Buenos Aires, e ovviamente non potevo crederci quando ho ricevuto la sua chiamata e mi ha detto che voleva incontrarmi per chiacchierare. Così, al di là del divertimento, della passione per il calcio che condividevamo, dell’amore per la letteratura è nato un rapporto sincero. Ogni volta che attraversava il Río de la Plata, o io andavo in Uruguay, trovavamo il tempo per vederci. Siamo anche stati un po’ di giorni in vacanza insieme, là a Piriápolis.

 

 

C’è un momento particolare, che ricordi, di questa vostra amicizia?
C’è stata una notte in cui abbiamo bevuto del buon vino con le nostre signore, e mentre tornavamo in hotel con il taxi la radio passava Alfredo Zitarrosa, una canzone che si chiama «El violín de Becho», una delle sue più belle. E noialtri, in quel taxi, a cantare a squarciagola come fossimo Pavarotti e Carreras. Un momento indimenticabile.

E poi quando abbiamo iniziato a registrare le interviste, che erano tutti racconti sulla storia dei Mondiali dal suo punto di vista, avevamo una manciata di minuti per starcene seduti l’uno di fronte all’altro e parlare di calcio. Dal momento che erano brevi spezzoni dovevamo prepararli bene, seguire una scaletta. Io ero totalmente schiavo di quella scaletta, sarà stata anche la mia inesperienza in televisione ma volevo quasi abbracciarmela, poi iniziamo la chiacchierata e cosa fa Eduardo? Si mette a fare polemica contro la FIFA, e non era mica previsto in quella scaletta. Quando arriva il momento della pausa gli dico: «Eduardo, guarda che dovremmo anche seguirla un po’, questa scaletta»; lui mi guarda e mi dice: «Dove andiamo, a cena, stasera?» Capito? Non gliene fregava niente. Il solito Eduardo di sempre.

In molte delle storie di Galeano il narratore è lui stesso, però da bambino. Secondo te è così perché il racconto della passione per il calcio è sempre il racconto di un’Arcadia passata? Oppure il racconto di un’innocenza perduta?
Sì, c’è un po’ di tutto questo, il calcio continua a essere un gioco, al di là di tutto quello in cui l’hanno trasformato. Continua a essere un gioco, e tutta questa imprevedibilità che ne consegue ci suscita le emozioni infantili, primitive, dei nostri giochi di bimbi. A Eduardo piaceva tantissimo giocare, soprattutto con le parole, non mi sorprende né mi sembra strano che gli piacesse il calcio. Un gioco, appunto.

 

Sono ancora aperte, le vene dell’America Latina? Anche nel calcio?
In questa parte del mondo abbiamo sempre avuto una concentrazione inedita di governi antimperialisti molto allineati con quella posizione che potremmo – semplificando – definire sinistra. In America Latina abbiamo parlato di Patria Grande, e ciononostante il mondo continua a essere sempre più ricco di diseguaglianze, sempre più ingiusto, tanto che il nostro amico Eduardo, sicuramente, avrebbe trovato nuove storie per raccontarci quanto le vene del suo continente fossero – e seguiteranno a essere – ancora decisamente aperte.

 

Galeano è stato il migliore nell’interlacciare le narrazioni di politica e calcio? Come avrebbe raccontato il mondiale qatariota?
La FIFA ha assegnato gli ultimi due Mondiali a Russia e Qatar, e dopo aver preso questa decisione ha assistito all’irruzione dell’FBI, la superpolizia del mondo, che poi equivarrebbe a dire che ha assistito all’irruzione degli Stati Uniti. E infatti come conseguenza la FIFA a chi ha assegnato i prossimi Mondiali [quelli del 2026, n.d.a.]? Agli Stati Uniti.

Il Mondiale del Qatar è stato il primo in cui il mondo arabo è stato così rappresentato. Non si erano mai sentiti tanti cori a favore della Palestina, e anche questo è un segnale inequivocabile del fatto che il calcio è sempre più, inevitabilmente, politicizzato. In questo periodo storico, peraltro, gli Stati Uniti hanno deciso di fare il loro ingresso in maniera prepotente nel mondo del calcio, e non solo tramite l’FBI che ha sfracellato la vecchia FIFA, ma anche attraverso l’acquisto da parte di magnati, o fondi di investimento, americani dei migliori club, quelli più prestigiosi, del mondo. Ci concentriamo tanto sugli emiri, sugli sceicchi, sui magnati russi, ma non parliamo mai di quanto gli Stati Uniti continuino a essere potentissimi, anche nel calcio.

Per quanto riguarda il Mondiale del Qatar, credo che Galeano non avrebbe scelto di abbracciare la narrazione classica della stampa occidentale. Era troppo curioso, e conosceva troppo a fondo il mondo arabo che sono certo si sarebbe preso l’incarico di raccontarci dettagli che ignoravamo. Ovviamente senza omettere la questione del mancato rispetto dei diritti umani, degli affari loschi degli emiri, ma anche parlandoci di quanto quei paesi, in passato, siano stati colonie di altre potenze mondiali.

 

I trionfatori, insomma, in una parentesi della loro storia sono sempre stati degli sconfitti. E Galeano amava raccontare gli sconfitti, no?
Credo fosse Gay Talese, uno scrittore statunitense, quello che ha detto che non c’è niente di più educativo dello spogliatoio di una squadra sconfitta. Una volta ha anche provato a farsi accreditare al seguito della nazionale cinese prima della fase finale di un Mondiale femminile, voleva essere a tutti i costi in quello spogliatoio, poi non c’è riuscito ma nel descrivere gli sconfitti era insuperabile: il suo racconto del boxeur Floyd Patterson, per esempio. Anche i compositori dicono che la loro musica racconta le sconfitte della loro vita, in fondo.

Eduardo sapeva raccontarci le sconfitte quotidiane, tutte quelle di fronte alle quali ci mette la vita. E sapeva tracciare un parallelismo tra le nostre sconfitte intime e quelle nello sport, specie oggi che l’ipercompetitività ha tracciato un solco molto più profondo tra vincitori e sconfitti.

Eduardo sceglieva gli sconfitti perché stava dalla parte di quelli che soffrivano, sempre. Per questo ha sempre ritagliato un posto particolare, nei suoi racconti, a Obdulio Varela, capitano di quell’Uruguay protagonista del Maracanazo, e al gesto del capitano che dopo aver vinto la finale, dopo aver fatto sprofondare nella disperazione il popolo brasiliano, abbandona la dirigenza uruguayana, che considerava traditrice e corrotta, per andare a bere con i brasiliani atterriti dalla sconfitta. Quindi potremmo dire, in un certo senso, che Eduardo era l’Obdulio Varela della letteratura, della letteratura calcistica e non solo.

 

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