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Un latinoamericano che ha voluto leggere di tutto

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Pubblichiamo oggi la prima parte di una celebre intervista a Julio Cortázar del giornalista peruviano Alfredo Barnechea. L’intervista risale al 1971 ed è stata poi ripresa in Peregrinos de la lengua (Alfaguara, 1998).

Intervista a Julio Cortázar / 1
di Alfredo Barnechea

Traduzione di Carmen Mangiola


Sebbene Cent’anni di solitudine sia il preferito dai lettori, se fossero gli scrittori a votare, molto probabilmente, il romanzo latinoamericano più influente del secolo sarebbe Rayuela.

L’opera, e i racconti dell’autore, aprirono loro la strada verso una lingua libera, un castigliano nuovo, estremamente creativo e intelligente.

Julio Cortázar s’imbarcò nel 1951 lasciando l’Argentina per sempre. A Parigi, che da allora divenne la sua nuova casa, lavorò all’inizio come traduttore, mentre imbastiva una delle grandi opere letterarie di questo secolo; uno dei frutti più belli del suo lavoro fu la meravigliosa traduzione de Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar.

Negli anni Sessanta, Parigi era diventata il rifugio ideale per gli scrittori di lingua spagnola che convergevano lì. Nato nel 1914 (come Octavio Paz e Camus), Cortázar fu una specie di anticipazione del boom. In quel gruppo di scrittori fortemente politicizzati, Cortázar fu, forse, all’inizio, uno dei più apolitici e legati al puro piacere della letteratura. Non sappiamo con certezza che cosa cambiò nella sua vita privata, ma sta di fatto che questo grande scrittore si trasformò, nel tempo, in un progressista attivo, quasi ingenuo.

Aveva già assunto questa posizione, quando arrivò in Perú, nel 1972, mentre era in atto quella che allora appariva, a molti intellettuali latinoamericani, un’interessante rivoluzione militare.

Di tutte le interviste raccolte in questo volume, questa è la più antica. Avevo vent’anni, muovevo i primi passi nel mondo giornalistico, come forse si noterà leggendola. Tuttavia, questo eccezionale scrittore, dal volto di bambino, mi concesse l’intervista. «Mi cerchi all’hotel», mi disse, «Chieda di Monsieur Karvelis». Si faceva registrare con il cognome della sua compagna di allora, Ugné Karvelis. «Ma dopo ci porta a vedere il pugilato». Ho dimenticato l’incontro e quelli che vennero con noi, ma oggi, dopo venticinque anni, ricordo ancora l’emozione salendo le scale del vecchio Hotel Bolívar per parlare con il Cronopio.

JC: Sono un latinoamericano che ha voluto leggere di tutto, sapere tutto, che ha divorato molte pagine, ma che è anche cambiato, perché la mia vita non è più la stessa di prima. Ora non posso più esclusivamente leggere e scrivere tutto il giorno, perché partecipo a riunioni, prendo contatti e coordino molte cose, anche non letterarie. Mi interesso molto più di prima alla politica dei nostri paesi, e questo richiede tempo, amico.

AB: È nato in Belgio, quasi per sbaglio, nel ’14. Nel ’23, a Banfield, trascinato da suo zio, ha assistito all’incontro tra Dempsey e Firpo, il toro selvaggio. Si è recato a Buenos Aires, ha insegnato nelle scuole di provincia, nel ’32 ha tentato di emigrare maldestramente in Europa in nave, ma non ci è riuscito ed è rimasto altri vent’anni in Argentina e quando è andato via veramente, nel ’51, era ormai troppo tardi per liberarsi di Buenos Aires, di Gardel, della nostalgia di quel periodo. Nel 1963 ha pubblicato Rayuela, opera somma della letteratura latinoamericana. Dopo così tanti anni, che percezione ha del suo paese?

JC: Lo considero uno dei paesi latinoamericani. La risposta può sembrare ovvia, ma a guardare bene non lo è. Sono stato lontano fisicamente, è vero, ma non in ciò che è veramente importante; penso che dieci libri siano una prova che forse non potrebbero addurre molti di quelli che si lamentano a destra e a manca del famoso esilio.
Buenos Aires mi aveva tolto l’aria ed è stata Parigi a permettermi di guardare con occhi totalmente nuovi il mio paese e l’America latina. Parigi, o meglio l’Europa, mi aprì un orizzonte totale, planetario, che non avevo a Buenos Aires. Non ho nessuna ricetta, parlo solo per me, ma so che senza Parigi non avrei scritto ciò che ho scritto. Se fossi rimasto là, in un ambiente ristretto, la mia maturità di scrittore si sarebbe manifestata in forma diversa, di sicuro più soddisfacente per gli storici della letteratura, meno provocatrice, aggressiva per chi legge i miei libri per ragioni vitali. Chiaramente, sono con loro. Non solo non sono rimasto, ma non sono tornato, e continuo a pensare che Parigi è il luogo perfetto per uno come me, per i miei gusti, per ciò che scrivo.

 

La geografia, un’illusione; le mappe, un’invenzione illecita delle enciclopedie. Lì, Cortázar decide che non valeva la pena restare. Ma, comunque, bisogna essere pazzi, farsi beffe della propria tristezza, per dire di una città ciò che lui ha detto di Buenos Aires:
«Si può, allora, continuare ad andare avanti e a tornare sui propri passi, annullando il pregiudizio delle leggi fisiche, comprendendo e comprendendosi tramite una visione e un linguaggio che nulla hanno a che vedere con la storia e le circostanze. Come se tutto fosse raggiunto da un ritorno progressivo, guardo ora la mia città con lo sguardo di chi viaggia sui binari di un tram, retrocedendo mentre avanza, e di tutto quel profumo notturno, degli infiniti incontri con gatti e biblioteche e Cinzano e Razón Sexta e cinema continuo, mi ritornano soprattutto i giorni da studente, i bar automatici di Constitución, la calle Corrientes delle prime fughe temerarie degli anni Trenta. Corrientes inconcepibile oggi, con le sue orchestre di signorine, senza cinema lunghi e stretti e uno schermo nebuloso dove personaggi con barba e uniforme rincorrevano per saloni lussuosi povere ragazze con cappellini e boccoli. Lo chiamavano cinema realista. Sono le rabonas di Plaza Italia con un sole caldo di libertà e poche monete, di penombra allucinogena del Pasaje Güemes, l’apprendistato del biliardo e la virilità dei caffè del Once, i giri per San Telmo tra la notte e l’alba, un tempo di sigarette bionde e il tram 86, Villa Urquizo e la Plaza Irlanda, dove per un breve autunno fui felice con qualcuno che morì troppo presto».

 

AB: Sono vent’anni che Julio Cortázar vive in Francia, scrivendo in una lingua e parlandone un’altra. Come ha risolto il problema?

JC: Be’, ho avuto fortuna, perché, dopo essermi guadagnato da vivere in modo pittoresco a Parigi, ho superato un esame dell’Unesco come traduttore freelance. Nella traduzione è indispensabile non perdere di vista la propria lingua madre, e se a questo aggiungiamo il mio lavoro di scrittore, e di lettore onnivoro, nel corso degli anni la mia lingua non ne ha sofferto. A volte, mi sorprendo a usare un gallicismo, ma mi capita sia in Argentina sia in Francia e, vabbè, dopo tutto, non è poi così grave.

AB: Minuzioso, originale, divertente e spiritoso, con una cultura multilaterale, quasi eclettica e labirintica. Per molti è questo il vero Julio Cortázar. È d’accordo con questa immagine?

JC: Guarda, sì, accetto tutte queste definizioni, anzi ne aggiungo altre che non sono contraddittorie, bensì complementari: sono molto serio, estremamente esigente anche con me stesso, inconsapevole (i temi mi arrivano da regioni non controllate dalla mia mente, che è modesta), paradossale (per lottare contro i monoliti ideologici e culturali), innamorato del brusio del mondo, sordo agli elogi, perduto in una vigile astrazione da inguaribile cronopio.

AB: Horacio Oliveira, il protagonista di Rayuela, è, diciamo così, infrancesato, un uomo tra due mondi, in cerca del suo equilibrio. Non si può fare a meno di ravvisare delle somiglianze con Julio Cortázar. In una certa misura, Rayuela terminerebbe con una sconfitta, se ci atteniamo al percorso del personaggio. Julio Cortázar…

JC: Aspetti, un attimo. La sconfitta di Oliveira, innanzitutto, mi sembra molto più proficua di tanti trionfi della società occidentale. Inoltre, non è la sconfitta di Julio Cortázar, se è lì che vuole andare a parare. In ogni caso, è il problema, non la sua soluzione. Ho già parlato del mio rinnovato rapporto con l’America latina, soprattutto dopo la rivoluzione cubana, di questa condizione contraddittoria in cui ci si sente altrove e definitivamente qui, allo stesso tempo.

AB: Si dice che lei abbia scritto Rayuela tutto d’un fiato…

JC: Più che di filato, ho scritto Rayuela in momenti discontinui, iniziando da quella che è diventata, in realtà, la seconda parte e che ho finito solo dopo aver concluso la prima; contemporaneamente, ho aggiunto i capitoli “teorici”, i ritagli di giornali e le citazioni di saggi e visionari.

AB: È successa la stessa cosa con le altre opere? La stesura è molto lunga? Come nasce in lei la necessità di scrivere?

JC: È molto difficile per me iniziare a scrivere, perché l’elaborazione di un racconto o di un romanzo corre sotterranea dentro di me e a modo suo; ma una volta che parto sul serio, assomiglio a Fangio, vecchio mio, e non mi fermo se non quando è il testo stesso ad alzare bandiera bianca.

AB: A trentacinque anni lei ha pubblicato I re. Un esordio un po’ tardivo, in quanto era preceduto solo da una raccolta di poesie, pubblicata sotto pseudonimo. A che età ha iniziato a scrivere?

JC: Avevo appena quindici anni, ma soltanto verso i trenta ho deciso di pubblicare una raccolta di poesie, firmando con uno pseudonimo. Ho sempre scritto poesie. Da adolescente ero convinto, come altri miei coetanei, che il senso di isolamento che avvertivo preannunciasse il poeta. Scrivevo le poesie che si scrivevano allora e che è più facile scrivere rispetto alla prosa a quell’età. Ma niente di più. Per questo sono rimasto sorpreso quando, un giorno, all’Avana, Gianni Toti mi ha detto che di tutte le mie opere, le poesie erano quelle che preferiva. Quando ho scritto I re avevo ormai acquisito l’arte del mestiere, figlia del rigore. In seguito, sono venuti i racconti di Bestiario, che ho scritto con totale sicurezza. Ma il mio apprendistato si è rivelato lungo e tormentato. Ha richiesto molta determinazione, e allo stesso tempo, dovevo fare i conti con una costante sfiducia in me stesso. In poche parole, questo mi ha portato a non pubblicare molto presto, un peccato quotidiano nei nostri paesi.

AB: Parlerebbe così a un giovane scrittore che le chiede consiglio?

JC: Sì, se mi chiede un consiglio di questo tipo. Se, invece, vuole sapere come si scrive, farei come un maestro zen: gli romperei una sedia in testa. Tuttavia, gli darei anche un altro consiglio che deriva dalla mia esperienza personale. Ho strappato migliaia di pagine prima di pubblicare per la prima volta, perché, anche se rispondevano al mio impulso più recondito, qualcosa in me mi rendeva capace di giudicarle e sapevo che non meritavano di essere pubblicate. Non smetterò mai di essere grato per la severità che sono riuscito a impormi.

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