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Gabriel García Márquez: il nobel sotto esame

redazione SUR

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Illustrazione di Fernando Vicente

La letteratura di Gabriel García Márquez, maggior rappresentate del Boom, vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1982, è stata anche aspramente criticata. Pubblichiamo oggi un articolo di Antonio José Ponte uscito sulla rivista Letras Libres, che ringraziamo.

«Gabriel García Márquez: il Nobel sotto esame»
di Antonio José Ponte
traduzione di Angela Masotti

Prima di Macondo c’era Comala. Prima ancora, Bolombolo, «país exótico y no nada utópico, / en absoluto! ¡Enjalbegado de trópicos / hasta donde no más!», cantato dal colombiano León de Greiff. E ancor prima, nell’opera dello stesso Gabriel García Márquez (Aracataca, 1927), i racconti riuniti in Occhi di cane azzurro.

La lettura di questi brani pubblicati tardivamente rivela la goffaggine dei vent’anni e un’inettitudine per il fantastico. «Non gli servì a nulla trascinarsi con le viscere in fiamme per scacciare i corvi della lussuria. Cercò di appostarsi dietro il baluardo della sua infanzia. Cercò di erigere tra il suo passato e il suo presente una trinchea di fiori», scriveva il giovane García Márquez. E in un altro racconto: «Ma l’esteta che abitava in lui, dopo una lotta approssimativamente uguale alla radice quadrata della velocità che avrebbe potuto constatare, vinse il matematico, e il pensiero dell’artista si avviò verso i movimenti della lama che biancazzurverdeava ai diversi colpi di luce».[1]

In seguito migliorerà, naturalmente, perfezionando con gli anni pretese letterarie non molto diverse.

Tra questi primi racconti compare Macondo. Zanzare, astromerie, tarabusi, urubù, scampanate di chiesa, mandorli dalle foglie putride: García Márquez ha confessato di aver appreso da Graham Greene un’algebra per codificare i tropici. Attraverso pochi elementi disparati, ma uniti tra loro da una certa coerenza, tutto l’enigma del tropico veniva così ridotto «alla fragranza di una guaiava putrida». Gli stessi dettagli botanici e lo stesso bestiario passeranno di romanzo in romanzo. Cadrà sempre la pioggia (in qualsiasi adattamento cinematografico del mondo garciamarquiano si dovrà riservare una cospicua voce del budget alla pioggia artificiale).

Come confessa ancora lo scrittore colombiano, Franz Kafka gli avrebbe donato la disinvoltura necessaria a far svegliare qualcuno trasformato in insetto senza porsi troppi problemi. E dopo vari tentativi falliti, Kafka gli avrebbe anche insegnato a evitare il ginepraio delle spiegazioni.

In una frase di La signora Dalloway incorse nell’anticipazione di quelle rovine che poi avrebbe prodigato in tante pagine. Virginia Woolf aveva scritto: «Ma dubbio non v’era che chi sedeva là dentro era un alto personaggio; un alto personaggio passava, nascosto agli occhi della folla, per Bond Street, discosto un palmo appena dai semplici mortali che per la prima e l’ultima volta forse in vita loro si trovavano a portata di voce dalla maestà d’Inghilterra, dall’imperituro simbolo d’uno Stato che formerà un giorno oggetto di studio per gli archeologi, pronti sempre a scandagliare i resti del passato, quando Londra non sarà più che uno spiazzo erboso, e di tutti coloro che nel mattino di questo mercoledì se ne vanno per le vie della città, altro non resterà che un mucchio d’ossa, e tra la loro polvere qualche anello matrimoniale e l’oro di innumerevoli otturazioni di denti guasti».[2]

Oltre alle rovine premonitrici e ai simboli del potere politico, lui trovò in questa frase quel preciso mercoledì a cui si sarebbe tante volte appellato: un giorno in contrapposizione a tutta l’eternità, una concrezione che gli consentisse di scrutarenel troppo astratto. Se i tropici potevano essere compendiati in un armamentario ricorrente, il tempo macondiano si riduceva a trascendenza (il ghiaccio che scaturisce dal muro della fucilazione)[3] e a premonizione: la morte annunciata.

Diversi commentatori hanno conferito l’onere della sopravvivenza letteraria a un romanzo come Cent’anni di solitudine, scritto a quarant’anni. Ma i problemi erano iniziati prima, visto che già a metà del libro, passata la morte del colonnello Aureliano Buendía, Cent’anni di solitudine potrebbe esser stato scritto non da Gabriel García Márquez, ma dagli imitatori di Gabriel García Márquez a cui il romanzo darà luogo. Morto Aureliano Buendía, tutte quelle divertenti trovate non divengono che cattiva retorica: una pioggia di farfalle gialle per Mauricio Babilonia. E mentre le guerre federaliste recavano ancora qualche buona pagina a Macondo, l’arrivo della compagnia bananiera statunitense restava artificiosa, letterariamente infausta quanto il mare smontato e portato via «in pezzi numerati» dagli ingegneri gringos nell’Autunno del patriarca (sempre attento a non scontrarsi con le autorità, delicatissimo nei confronti della chiesa cattolica, l’antimperialismo dell’autore non risulta convincente sulla pagina).

Da buon amministratore della propria sopravvivenza, García Márquez ha tacciato di superficialità la scrittura del suo romanzo più noto, mostrando di preferirgli altri libri e sostenendo di aver scritto Cent’anni di solitudine per indirizzare i lettori verso un volume precedente: Nessuno scrive al colonnello. In Odor di guayaba conversa con Plinio Apuleyo Mendoza sugli intralci della fama: «il peggio che può accadere a un uomo che non ha vocazione per il successo letterario, in un continente impreparato ad avere scrittori di successo, è che i suoi libri si vendano come hot-dog». E nell’intento di superare tale maledizione, pubblica quello che forse può essere considerato il suo miglior libro: Cronaca di una morte annunciata.

È stato a partire da Cent’anni di solitudine che gli incipit dei suoi libri sono divenuti così perentori, i personaggi dai nomi impossibili e le descrizioni sempre più affettate? Mentre Borges aggettiva per l’inusitato, García Márquez lo fa per ragioni dolciarie, per aggiungere sciroppo alla frase, per ghiottoneria.

Dopo Cent’anni di solitudine ci azzeccherà ancora qualche volta, almeno in parte. Tratteggerà un memorabile incontro tra l’anziano dittatore e la regina della bellezza nell’Autunno del patriarca (letto con attenzione, il furore nerudiano di questo episodio si avvicina alla parodia di Neruda fatta da Juan Ramón, a proposito della teoria della sostituzione). E sovvertirà le modalità del romanzo rosa con un romanzo rosa, L’amore ai tempi del colera, opera di un kitch che non esita a farsi passare per kitch.

Il generale nel suo labirinto – in cui un autocrata sconsolato quanto il patriarca di un volume precedente vive una morte annunciata come quella di un libro anteriore – riesce solo ad annoiare. Dell’amore e altri demoni sono le bozze di un pessimo romanzo. Nell’ultimo libro pubblicato, Memoria delle mie puttane tristi, gli innamorati divorano rose e gardenie, si inventa il telefono senza cuore… insomma, ci sarebbe posto per qualsiasi scempiaggine del cinema di Eliseo Subiela. Ma il peggio è che questa storia ha la pretesa di prendere a modello La casa delle belle addormentate di Yasunari Kawabata, citata in epigrafe – la traduzione trasforma il delicato erotismo dell’originale in voracità per la verginità e sfoggio di potenza nonagenaria; ci sarebbe da chiedersi perché allora ogni notte la giovane del postribolo colombiano venga sedata (in casi come questo, o come quando parla di musica classica, non si può non sospettare in García Márquez uno spirito poco sottile).

Oltre alla narrativa, il Nobel colombiano è autore di memorie di infanzia e giovinezza, e di un giornalismo poco distinguibile dalla sua letteratura, una sorta di giornalismo sentimentale, più attento alle emozioni che alla verità. Vivere per raccontarla, il volume delle sue memorie, consente di ritrovare gli abitanti di Macondo nei luoghi più impensati – questo genere di intrecci è rintracciabile in molti suoi libri: per esempio, il giovane tesoriere della rivoluzione, che firma il trattato di Neerlandia in Cent’anni di solitudine,lo ritroviamo anziano in Nessuno scrive al colonnello.

Mi chiedo che cosa penseranno i diligenti archeologi immaginati da Virginia Woolf quando, tra le rovine del tempo, s’imbatteranno nell’opera di García Márquez. Quando le capitali non saranno che spiazzi erbosi, dalle mani fossilizzate dei passeggeri della metro si estrarranno i volumi del colombiano, e chissà saranno considerati suoi libri migliori Cronaca di una morte annunciata e Nessuno scrive al colonnello (malgrado il finale enfatico riutilizzato nell’Amore ai tempi del colera). Rientrerà forse in questa selezione futura qualche altro romanzo, ma di certo nessun racconto e nessuno dei suoi tentativi cinematografici.

In quanto a Cent’anni di solitudine, azzardo l’ipotesi che passerà a far parte della letteratura per ragazzi o per bambini. I Buendía saranno messi accanto alla famiglia Mumin. Macondo prenderà la sua definitiva forma di fermacarte e, come nei fermacarte, avrà poca importanza se piove o nevica, visto che il mondo è protetto sotto una palla di vetro – tale protezione è quel che poi si è chiamato realismo magico, un metodo sicuro per confezionare trovate a basso costo. Macondo potrà essere dato in mano a ragazzi e bambini, confidando che qualsiasi disgrazia lì è irrilevante e quanto c’è di più terribile vi risulta addomesticato. Non ci sarà bisogno di chiudere il libro di colpo, perché l’autore cancellerà sempre l’inammissibile con la dolcezza della frase successiva.

Valga come esempio il modo in cui si narra la fine di un personaggio in Cronaca di una morte annunciata:«senz’arte né affetti, rientrò tre anni dopo nelle forze armate, conquistò il grado di sergente maggiore, e una mattina radiosa la sua pattuglia penetrò in territorio di guerriglia cantando canzoni di bordello, e non si seppe più nulla di loro».[4] Malgrado il pericolo, la pattuglia non si curava di tradire la sua presenza cantando a squarciagola. Andavano dritti verso l’imboscata, nessuno degli uomini ne sarebbe uscito vivo, ma chi poteva trattenersi, in una mattina così radiosa, dal cantare canzoni di bordello?

I lettori più giovani si addentreranno nell’opera di García Márquez con la stessa felicità irresponsabile di quella pattuglia. Tralasceranno tiranni e liberatori, assassini e guerre, rovine e segnali dell’Apocalisse per giungere all’atto fondamentale dell’universo macondiano: l’amore primigenio. Ma per avventure più adulte è raccomandabile piuttosto Yasunari Kawabata, per citare un altro Nobel.


[1] Gabriel García Márquez, Occhi di cane azzurro, trad. di Angelo Morino, Mondadori 1983.

[2] Virginia Woolf, La signora Dalloway, trad. di Alessandra Scalero, Mondadori 1981.

[3] «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio»: incipit di Cent’anni di solitudine, trad. di Enrico Cicogna, Feltrinelli 1968.

[4] Gabriel García Márquez, Cronaca di una morte annunciata, trad. di Dario Puccini, Mondadori 1982.

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