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Héctor Tizón: l’uomo che se ne andò da un paese / 2

redazione SUR

Pubblichiamo oggi la seconda parte del reportage di Andrew Graham-Yooll sullo scrittore argentino Héctor Tizón. Il pezzo è uscito su Pagina/12, che ringraziamo.
Potete leggere la prima parte qui.

«L’uomo che se ne andò da un paese» / 2
di Andrew Graham-Yooll
traduzione di Claudia Tebaldi

 

Casabindo

Il primo grande romanzo di Tizón è Fuego en Casabindo (1969). Precedentemente era stata pubblicata una raccolta di racconti, A un costado de lo rieles (1960), quando era Segretario Culturale dell’Ambasciata argentina in Messico. Casabindo, il romanzo, ha una propria storia riguardante la sua origine. «Io avevo una borsa di studio, ricercavo racconti orali sul demonio nella zona della Puna. Andammo a Humahuaca. Il giorno dopo era festa patronale a Casabindo. Lì iniziarono a formarsi le prime immagini che sarebbero servite a Héctor Tizón per il suo romanzo». Anni dopo, Dardo Cuneo avrebbe raccontato, a Buenos Aires, che Tizón gli aveva inviato l’originale affinché lo leggesse e gli consigliasse possibili case editrici. A partire da quel momento, il silenzio. Lunghi mesi dopo, Tizón gli ricorda che gli aveva inviato lo scritto e gli chiede notizie. Cuneo aveva mandato l’originale a Guillermo Schavelzon, della casa editrice Galerna. In quell’occasione lo informò che aveva già pronte le bozze. Il libro era sul punto di essere pubblicato.

Fuego en Casabindo è ambientato in un paese, con personaggi originari della Puna, duri, silenziosi, taciturni, sopravvissuti alla fine della battaglia di Quera, il 14 gennaio del 1875, quando i proprietari terrieri di Jujuy si prefissero di annientare i kollas,[1] che reclamavano la restituzione delle loro terre ancestrali. Inoltre, le milizie dei possidenti volevano vendicare la sconfitta che i nativi avevano inflitto all’oligarchia locale nella battaglia di Abra de la Cruz (conosciuta anche come Combate de Cochinoca) il 3 dicembre del 1874.

Anni dopo, il compositore argentino Virtú Maragno avrebbe composto la sua unica opera, basata su Fuego de Casabindo. Venne portata in scena al teatro Colón per la regia di Alejandro Tantanian nel giugno del 2004, poco dopo la morte di Maragno, avvenuta all’età di 78 anni. Tizón andò al Colón.

Fuego en Casabindo riaffermò Tizón come abitante della Puna agli occhi dei suoi lettori. Si trovava lontano da Buenos Aires e dalle vetrine dei negozi di abbigliamento. La Puna era per Tizón una terra ancestrale. Suo padre veniva trasferito da un posto all’altro a causa del suo lavoro in ferrovia. «Ho avuto un’infanzia felice», dice Tizón negli appunti che Flora rivede. I suoi genitori furono Eduardo Tizón e Eleonor Lagomarsino.

Flora Guzmán ricorda: «Mandarono suo padre per un periodo ad Abra Pampa. In realtà lo mandavano in giro per tutta la provincia. Perciò Héctor aveva delle immagini d’infanzia così forti della Puna che l’avrebbero seguito per tutta la vita. Il luogo più simile al focolare paterno divenne Yala, dove il padre fu l’incaricato della gestione della ferrovia (che oggi è senza rotaie e l’edificio è ormai occupato da chi ne assunse la proprietà). Io stavo scrivendo di un periodo della mia vita con Héctor e mi risulta ora molto difficile. Stavo recuperando, per esempio, la storia che riporta Fuego en Casabindo».

A Yala, seduto nel giardino sotto l’albero di fronte all’ampia porta dove di solito scriveva, Tizón una volta raccontò che era riuscito a terminare i suoi libri grazie a Flora. In questo modo finì Canto del profeta e del bandito, del 1972, così come il quasi simultaneo El jactancioso y la bella. Finalmente riuscì a dedicare alla scrittura un po’ di tempo ogni mattina prima di andare in ufficio. «Così finii di scrivere, perché ero bloccato, paralizzato, come dicono gli inglesi, avevo un virus che chiamano writer’s block». Poco dopo, nel 1975, uscì a Buenos Aires Sota de bastos, caballo de espadas, ognuno con questa tremenda e pesante sensazione avvolgente di vuoto, dovuta al deserto e al panorama roccioso.

«Lo feci con slancio fisico ed emotivo. Ora, guardando questi appunti di Héctor, mi rendo conto che a volte mi costò fatica trasmettergli questa energia. Ho passato con la mia assistente, Ana, che è professoressa di Lettere, a cercare di mettere in ordine i suoi scritti», commenta Flora.

«Un giorno eravamo a Madrid con Blas Matamoro e Blas ha detto a Héctor: “Mi sono appena reso conto, grazie al libro di racconti completi con il prologo di Leonon Fleming, che sei nato in un hotel a Rosario de la Frontera (Salta)”. Durante la conversazione Tizón sosteneva che era originario di Yala. Poco dopo riconosceva di essere nato a Rosario de la Frontera, in un hotel, “dove mia madre era andata a immergersi nelle acque del luogo e dove io nacqui”».

 

Yala 

Un sabato mattina siamo andati a Yala. La prima impressione è stata che poco era cambiato. La stretta via, alla sinistra della vecchia stazione, senza binari, occupata. C’erano gruppi di persone che sbarravano case nuove. Siamo a 15 km da San Salvador de Jujuy. Flora ricorda una forte tormenta recente. Il vento, la grandine e l’acqua con una furia torrenziale avevano danneggiato il paese: «È rimasto come se non fosse stato tinteggiato da anni. Gli alberi sembravano semplici pali, spogli di foglie», ha detto Flora.

Siamo entrati nel giardino attraverso un vecchio portone di ferro. Il giardino era aperto e gli alberi non erano stati potati da tempo; abbiamo ritrovato l’entrata, la veranda, il soggiorno, dove anni prima avevamo passato lunghe notti invernali davanti al camino, conversando. Era tutto identico. Flora ha fatto entrare un idraulico, richiesto con urgenza per diverse perdite e riparazioni, nella casa vuota piena di ricordi. Ho fatto un giro in giardino, ho cercato di guardare al di là del muro in fondo, vicino al grande fiume, nascosto da alberi e da svariate piante.

La piscina vuota è indice dell’incedere del tempo, di stagioni e anni che se ne sono andati, le foglie secche sul fondo quasi asciutto appaiono come traccia dell’abbandono anche quando non c’è. Sono immagini. Forse in primavera, quando si pitturerà la vasca di un azzurro adatto a una piscina e si taglierà l’erba, il luogo recupererà subito il suo ruolo di testimone di altre vicissitudini, racconti, storie e risate, l’immagine di un posto abitato, vissuto, e i ricordi torneranno a essere colorati… La Yala di Tizón e di Flora, degli amici, i Cúneo, di Eric e Martha Nepomuceno, di Eduardo Galeano e Helena e tanti altri.

Io e Flora ci siamo seduti in due sedie nello studio di Tizón, guardando verso il giardino. Flora ha detto: «lì, sotto quell’albero, è dove vi sedevate a parlare, a discutere degli inglesi… Proprio lì batteva il sole. Lì, ti raccontava quei ricordi».

 

Esilio

«Héctor non smise mai di pensare al ritorno. Fin dal primo momento decise che sarebbe tornato. Appena vide terminare la crisi delle isole Malvine, con l’inizio della decadenza e la sconfitta dei militari, cominciò subito a fare le valigie. Provava un odio enorme verso un paese che lo aveva allontanato. Non capì mai le innumerevoli cose che gli negavano. Perché le negava con pertinacia. Per esempio, la prima che negò fu l’importanza che dava a ciò che stava succedendo intorno a lui: era convinto di poter ricevere i soldati quando sarebbero stati sconfitti qua (a Yala), gli avrebbe servito un whisky, avrebbero parlato del fatto che lui era sempre stato un democratico ed era appartenuto all’UCR.[2] Io lo guardavo sconvolta, come poteva…?»

Flora aggiunge: «Quello che voglio dire è che c’è stato un problema generazionale in Héctor. Credo che sia stato questo a provocargli un danno così atroce. Non smetteva di cercare di capire Videla, e tutto ciò che rappresentava. Insomma, da una parte era così e dall’altra Héctor affermava che quei militari dovevano capire che era stato un radicale per tutta la sua vita. C’era una disarmonia completa e, dunque, questo è ciò che ha trascinato tutto il resto… Credo di averlo avuto chiaro già allora… perché avevamo i figli, perché già saltavano fuori i ragazzi morti a Córdoba…»

Flora ha tirato fuori da una pila di pubblicazioni un esemplare di una rivista letteraria, Estaciones, pubblicazione spagnola alla quale parteciparono Tizón, Santiago Sylvester, Pepe Avello e Carlos Benítez (questi ultimi due sono spagnoli).

«A Madrid c’era un personaggio generoso, simpatico, sensibile che si chiamava Faustino Lastra – messicano di nascita ma cresciuto in Spagna, partecipò alla guerra civile come corriere – che era benestante. Faustino, che era amico di molti artisti e scrittori, iniziò a progettare una rivista che si sarebbe chiamata Canto General e che si sarebbe fatta in Messico per contenere i costi, cosicché avrebbe avuto una diffusione latinoamericana e si sarebbe pubblicata in Spagna. Chiese a Héctor di collaborare. Inoltre, ricordo che lo spedì in Messico affinché mettesse a posto le cose là. Sarebbe stata realizzata con la collaborazione di Arnaldo Orfila Reynal, che dirigeva il Fondo de Cultura… Un disastro. Prepararono tutto con l’illusione che si potesse fare, e di punto in bianco, non ricordo per quale motivo, non si fece. Uscì il numero zero. Questo aiutò Héctor in quel primo periodo, molto difficile… Fino al 1979. Non riusciva a scrivere le sue cose».

 

Ritorno a Yala

Tizón e una parte della sua famiglia tornarono a Jujuy nell’ottobre del 1982. Nel giugno del 1983 lo andai a visitare a Yala, cercando di ritrovare l’amico. Tizón viveva una felice transizione dovuta al ritorno alla scrittura. L’esilio era stato lasciato alle spalle, anche se aveva causato solchi profondi. Apparvero i testi della fine dell’esilio: La casa e il vento (1984), Recuento (1984) e, forse ancora più impressionante, chiaro ritorno alla Puna, El hombre que llegó a un pueblo (1988). Tempo dopo, un mio commento sul fatto che l’ambientazione era quasi paragonabile a un personaggio in Fuego en Casabindo e ne El hombre que llegó a un pueblo, e che invece quest’aspetto non era così tanto evidente ne La mujer de Strasser (1997), fu vigorosamente confutato. «L’ambientazione è in qualche modo presente dietro a ogni cosa. Solo che a partire da El hombre que llegó a un pueblo, ho cambiato i miei punti di riferimento. Come gli agrimensori: cambiano il teodolite e modificano il punto di riferimento rispetto alla geografia. Mi è successo in un libro che si doveva intitolare El largo adiós, ma mi hanno detto che me lo avevano già rubato… Ora si chiama La casa e il vento: era come un mio addio non solo ai temi che erano stati oggetto della mia curiosità e di quello che avevo scritto fino a quel momento, ma anche alla stessa letteratura. Credevo che non avrei più scritto. È successo nell’ultimo anno che ho passato a Madrid, quando pensavo che non sarei più tornato a Yala. Credo che fosse il 1980, 1981 forse. Stavo per dire addio a quel mondo che era anche il mio mondo. Non appena ho finito il libro si è verificato il fatto delle Malvine e l’affondamento non solo del corazzato Belgrano, ma anche del gruppo di quei figli di puttana che guidavano il paese dal 1976. Quindi sono tornato qui a Jujuy e lì c’è stata una specie di ribaltamento dei punti essenziali. Il libro successivo è stato El hombre que llegó a un pueblo, dove non c’è più una localizzazione definita, non ci sono nomi propri, non c’è praticamente nulla. C’è l’uomo, che in realtà sono due uomini, cioè lui è lui e l’immagine che gli altri hanno di lui. È la storia di un uomo che cerca sé stesso. È la sorte che tutti subiamo».

Sento un’enorme riconoscenza per averlo conosciuto, letto e molto altro ancora. Spero che un giorno gli argentini si rendano conto che Héctor Tizón non è solo Jujuy, è la letteratura argentina e molto di più.

 

[1] Popolo indigeno del Norte Chico del Cile, della Bolivia e del nord dell’Argentina. [n.d.t.]

[2] Unione Civica Radicale. [n.d.t.]

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