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I racconti di Enrique Serna

Raul Schenardi SUR

Nel 2004 ricevetti da un amico di Città del Messico che sapeva della mia passione per la fantascienza le fotocopie di un racconto che s’intitolava «L’orgasmografo», dello scrittore messicano Enrique Serna. Ambientato in un futuro nel quale un governo dittatoriale esige dai cittadini un certo numero di orgasmi settimanali, e dove i dissidenti sono costretti a rivendicare la castità come ultima frontiera dell’identità, il racconto mi ricordò Robert Sheckley e quel filone della fantascienza che si ispirava alla feroce satira sociale, e mi suscitò la curiosità di leggere altre cose di questo autore. E a partire dal 2005 ho avuto il piacere di tradurre diversi suoi romanzi («Angeli dell’abisso», e/o; «La paura degli animali» e «Miss Messico», Voland) e due raccolte di racconti: «L’orgasmografo», appunto, e «Amori di seconda mano», entrambi pubblicati da Voland. Di quest’ultimo volume presentiamo oggi la prima parte di un racconto, «Uomo con minotauro sul petto», che è stato scelto da Gabriel García Márquez per la sua personale antologia dei nove migliori racconti messicani del 900. La seconda parte sarà pubblicata mercoledì.

Voglio raccontare la storia del bambino che chiese un autografo a Picasso. Come tutti sanno, all’inizio degli anni ’50 Picasso viveva a Cannes e ogni mattina prendeva il sole sulla spiaggia La Californie. Il suo passatempo preferito era giocare con i bambini che facevano castelli di sabbia. Un turista, notando quanto gli piaceva la compagnia infantile, mandò il figlio a chiedergli un autografo. Dopo aver ascoltato la richiesta del piccolo, Picasso guardò con disprezzo l’uomo che lo usava come intermediario. Se c’era una cosa che detestava della celebrità era che la gente comprasse la sua firma e non i suoi quadri. Fingendosi deliziato dalla grazia del bambino, chiese al padre il permesso di portarlo nel suo studio per regalargli un disegno. Il turista diede il consenso più che volentieri, e mezz’ora più tardi vide tornare il figlio con un minotauro tatuato sul petto. Picasso gli aveva concesso la firma tanto desiderata, ma impressa sulla pelle del bambino per impedirgli di farne commercio. Questo, mutatis mutandis, è l’aneddoto che raccontano i biografi del pittore di Málaga. Tutti celebrano l’episodio, convinti che Picasso abbia impartito una lezione ai mercanti d’arte. Da tempo avrei dovuto contraddirli, ma divulgare la verità non mi conveniva.

Adesso non posso più starmene zitto. So che maneggiano informazioni di seconda mano. So che mentono. E lo so perché il bambino del tatuaggio ero io, e la mia vita è una prova irrefutabile del fatto che la rapacità dei mercanti ha trionfato su Picasso. Tanto per cominciare, voglio mettere in chiaro che mio padre non era un turista né si è mai preso una vacanza fin quando ho vissuto al suo fianco. Sia lui che mia madre erano nati a Cannes, dove lavoravano come guardiani nella villa della signora Reeves, un’obesa milionaria cinquantenne, americana naturalmente, che passava le estati in Costa Azzurra e per il resto del tempo divideva il suo ozio – un ozio tanto grande da non trovare posto in una sola città – fra Firenze, Parigi, Valparaíso e New York. Eravamo una famiglia di cattolici praticanti a cui Dio ogni anno concedeva un figlio, e dato che le nostre entrate, insensibili al precetto biblico, non crescevano né si moltiplicavano, soffrivamo una miseria che a lungo andare arrivò a sfiorare la denutrizione. Mio padre aveva visto sul giornale la foto di Picasso e pensò di poter guadagnare qualche soldo con l’autografo. Lo scherzo del pittore non lo scoraggiò.

Quando la signora Reeves tornò a casa, mi ordinò di mostrarle il petto. Lei era una collezionista d’arte e nel vedere il minotauro rimase sbalordita. In un sorprendente impulso di tenerezza mi abbracciò, triturandomi le costole con tutta l’energia dei suoi duecento chili, e senza chiedere il permesso dei miei genitori organizzò una serata di gala per esibirmi di fronte ai suoi amici. Io ero uno di quei bambini asociali che non salutano gli adulti. Sbuffavo quando le amiche di mia madre mi facevano smancerie per strada, e cercavo di essere sempre imbrattato di fango per non dover subire i loro baci. Decisi di boicottare il mio debutto in società. A denti stretti mi rassegnai a indossare uno stupido completo da marinaretto e a farmi impomatare i capelli, come il giorno della prima comunione, ma non volevo saperne di lasciarmi imprigionare i piedi nelle ridicole scarpe di vernice pagate dalla signora Reeves, come il resto della mia tenuta, per incorniciare degnamente il suo tesoro pittorico.

Barricato sotto il letto, sentivo le grida di mia madre e i tentativi di corruzione della signora Reeves, che mi offriva un sacchetto di caramelle per scendere in sala, dove un gruppo scelto di bon vivants attendeva con impazienza la mia apparizione. E sarei rimasto lì tutta la sera, scontroso e ribelle, se mio padre, sentendo il parapiglia, non fosse venuto a tirarmi fuori a calci dal mio nascondiglio.  Se Dio e l’inferno esistono, gli auguro le torture peggiori. Dal momento in cui Picasso mi appose la firma sul petto, smisi di essere suo figlio per diventare il suo affare. Ricordo come gli brillavano gli occhi quando la signora Reeves, tronfia come un’elefantessa appena maritata, mi condusse a petto nudo al centro di un capannello formato da viveur di professione e aristocratici decaduti, che si chinavano per contemplare il tatuaggio con quella espressione da adoratori in estasi che hanno gli snob quando credono di trovarsi di fronte ai capolavori dell’Arte con la A maiuscola.

Isn’t it gorgeous? – domandò la cicciona, sfolgorante di soddisfazione.

Oh yes, it’s gorgeous – risposero in coro gli invitati.

A tavola mi avevano riservato il posto d’onore. Mia madre cercò d’infilarmi la camicia, nel timore che potessi prendere freddo, ma la signora Reeves glielo impedì con un gesto deciso. Un famoso pilota di auto da corsa mi fotografò il petto, stando attento a posizionare la macchina in modo che il mio viso – carente di valore artistico – non rovinasse la foto. La sua fidanzata, a quel tempo cantante di protesta e adesso azionista di maggioranza della Lockheed, mi strizzò l’occhio con complicità, quasi a suggerire che lei aveva capito lo scherzo di Picasso e disprezzava gli idioti che prendevano la cosa sul serio. Simpatizzai di più con gli invitati diffidenti, in particolare con una contessa afflitta dal morbo di Parkinson che tuttavia, per istinto materno o forse per indispettire la padrona di casa, si impegnò a imboccarmi. Nessuna delle sue tremanti cucchiaiate mi arrivò alle labbra, ma diverse finirono sul mio capezzolo sinistro sporcando la testa del minotauro. Anche se la signora Reeves cercò di minimizzare l’incidente con un sorriso benevolo, colsi nel suo

sguardo una scintilla di rancore quando chiese a mio padre di pulire la macchia con un batuffolo di cotone inumidito nell’acqua tiepida. Io non capivo perché mi trattassero con tanta delicatezza, ma in mezzo alla confusione una cosa mi era chiara: quel giorno, in casa, comandavo io. Perciò, quando mio padre si chinò per pulire le corna del minotauro, gli rovesciai sui calzoni un piatto di minestra calda.

Con quella cena la signora Reeves riscosse un grande successo in società. In un certo senso fu la sua laurea in raffinatezza, l’esame di perfezionamento che doveva superare per entrare nel bel mondo, di cui conosceva solo i dintorni. Io le spalancai le porte del paradiso e alla fine dell’estate volle tenermi con sé come amuleto. Ricordo vagamente una discussione a porte chiuse fra i miei genitori, le lacrime della mamma mentre mi preparava le valigie, i saluti sul molo con tutti i miei fratelli ad agitare fazzoletti bianchi. Allora non sapevo cosa stesse succedendo. Credetti alla pietosa bugia di mia madre: la padrona mi portava in vacanza sul suo yacht perché si era affezionata a me. Confesso di non aver avuto nostalgia della mia famiglia durante la traversata del Mediterraneo. La signora Reeves, oltre a nutrirmi con generose razioni di filetto (una prelibatezza sconosciuta al mio stomaco di bambino anemico), mi lasciava correre come un bolide in coperta, giocare ai pirati con i membri dell’equipaggio e torturare Perkins – il suo gatto viziato – a cui accendevo i fiammiferi sulla coda. In cambio di tanta libertà mi proibì solamente di esporre il petto al sole per evitare scottature che – a sentire quella grande ipocrita – potevano essere dannose per la salute.

Aprii gli occhi troppo tardi, quando prendemmo l’aereo per New York. Sulla scaletta la signora Reeves mi salutò con un laconico take care, e due domestici mi sollevarono da terra prendendomi con delicatezza sotto le ascelle, come un oggetto fragile e prezioso. A quel punto mi sentivo già un piccolo re e pensavo che mi avrebbero portato di peso sul jet. E così fecero, ma non in prima classe, come immaginavo, bensì nella stiva degli animali, dove mi avvolsero nella gommapiuma per proteggere il minotauro da eventuali graffi. Perkins miagolò vendicativo quando mi misero vicino a lui. Nella sua gabbia sembrava molto più libero e umano di me. Allora capii che mi avevano venduto. E piansi. Non si trattò, naturalmente, di una vendita alla luce del sole. Gli avvocati della signora Reeves ingannarono le autorità francesi presentando la faccenda come una borsa di studio vitalizia. Lei si impegnava a coprire le mie spese di vitto, alloggio, vestiario e istruzione in cambio del permesso di esibire il tatuaggio. Mio padre si liberò di una bocca da sfamare e ottenne 50.000 franchi con un’unica transazione commerciale.

Non so in quale fessura della sua coscienza cristiana poté nascondere una simile canagliata. Indurito dal dolore e dall’oltraggio, decisi di approfittare della nuova situazione e dimenticare per sempre il focolare perso. Ero uno schiavo, certo, ma uno schiavo avvolto in lenzuola di seta. Con la signora Reeves mi abituai alle comodità e all’ozio. Appena arrivati nel suo appartamento a Park Avenue, mi sciorinò un elenco di privilegi e obblighi. Intendeva essere una madre per me: avrei avuto insegnanti di inglese, di pianoforte, equitazione e scherma, i giochi più belli, i vestiti più costosi. Mi chiedeva soltanto di imitare, davanti ai visitatori, la quiete del mobilio. Mi assegnò un posto di riguardo nella sala, fra una litografia di Goya e una versione in miniatura del Mercurio di Rodin. Il mio lavoro – se si può chiamare così – consisteva nel restare immobile mentre gli invitati contemplavano il minotauro. Ben presto cominciai a odiare la parola gorgeous. Davanti al tatuaggio gli amici della signora Reeves non riuscivano a dire altro. Ma ancora più insopportabili erano gli “esperti” che dopo l’esclamazione di prammatica fornivano una lettura personale dell’opera.

– Il minotauro simboleggia la virilità. Picasso ha raffigurato sul petto del bambino la propria ansia di ringiovanire, usando il tatuaggio come un filo d’Arianna che gli consentisse di uscire dal labirinto interiore per andare verso il territorio solare della carne e del desiderio.

– Dite quel che volete, il soggetto di Picasso è sempre stato la figura umana. È naturale che l’interesse per l’uomo lo abbia spinto a prescindere dalla tela e a dipingere direttamente sulla pelle, per fondere il soggetto e l’oggetto dell’espressione plastica.

I commenti di quegli imbecilli mi fecero odiare Picasso, e con lui una parte della mia persona. A quel tempo non potevo capire i loro discorsi, ma cominciavo già a sentirmi trascurato, invisibile, sminuito dal tatuaggio che meritava più attenzione e rispetto di me. Alcuni non si prendevano neanche la briga di guardarmi in faccia: si fissavano sul minotauro, come se io fossi stato una cornice di carne e ossa. Tuttavia la signora Reeves, quando non interpretava il ruolo dell’anfitriona colta, si mostrava tenera e affettuosa con me, altrimenti credo che mi sarei suicidato prima di cambiare i denti da latte. Mi salvò l’ingenuità. Ignoravo che le opere d’arte devono essere conservate.

Con i suoi timori materni e la commedia dell’abnegazione e del calore umano, la signora Reeves non faceva altro che tutelare il proprio investimento. Così come proteggeva dall’umidità gli oli di Munch e Tamayo, mi trattava amorevolmente per preservare una vita che – le piacesse o no – faceva parte dell’opera. Avevo sedici anni quando i miei ormoni dichiararono guerra all’arte contemporanea. Una macchia di peluria nera coprì prima le gambe del minotauro, poi salì dall’ombelico fin dove cominciava la testa del toro e finì per seppellirlo sotto un fitto intrico di peli. La signora Reeves non aveva previsto che la sua proprietà sarebbe diventata un uomo dal petto villoso. Disperata, tentò di rasarmi con una lametta, ma desistette non appena mi procurò un piccolo taglio che – per sua disgrazia e mia soddisfazione – cancellò la “o” della firma di Picasso. Dopo avermi schiaffeggiato, come se fossi colpevole dell’attività delle mie ghiandole, calmò i nervi con una forte dose di tranquillanti. Le vennero in aiuto svariati esperti in conservazione dei dipinti. Secondo loro il problema non era tecnico, bensì estetico.

Depilarmi con la ceretta era il meno, ma avevano il diritto di interrompere l’evoluzione di un’opera concepita per trasformarsi nel tempo? Picasso avrebbe usato la pelle umana se non avesse voluto che i peli nascondessero il tatuaggio quando io fossi cresciuto? La questione fu risolta da un poeta che si vantava della propria amicizia con il pittore. A suo giudizio, i peli adempivano la stessa funzione dei biglietti della metropolitana e delle scatolette di fiammiferi nei quadri del periodo del cubismo sintetico, dipinti in collaborazione con Braque. Eliminarli sarebbe stato un crimine di lesa cultura, una bestialità spaventosa quanto rasare la Monna Lisa baffuta di Marcel Duchamp. Temendo di essere additata come nemica dell’avanguardia, lasignora Reeves si rassegnò a lasciare il minotauro coperto di peluria. Credevo fosse giunto il momento della mia liberazione. A chi poteva interessare un Picasso invisibile? Non avevo considerato che i furfanti delle arti plastiche, quando non possono ammirare un’opera, la esaltano e la mitizzano. Se il minotauro nudo aveva fatto sensazione, rivestito di peli ottenne un successo formidabile. Insuperbita, la signora Reeves si paragonava alla signora di Guermantes: organizzava tre cocktail a settimana, eppure aveva ancora in lista d’attesa centinaia di socialités che si contendevano il privilegio di NON VEDERE il tatuaggio. Adesso i gorgeous erano demenziali, euforici, ealcuni invitati che non si accontentavano di elogiare l’inesistente mi carezzavano la peluria sul petto convinti che Picasso avesse voluto creare un oggetto da toccare. Dalle carezze maschili mi difendevo con calci e spintoni, ma le mie bizze entusiasmavano gli aggrediti invece di placarli, e c’era addirittura chi mi supplicava, con il permesso della signora Reeves, di picchiarlo ancora più forte.

– Quando il ragazzo colpisce, – esclamò un giorno un critico del “New Yorker” sanguinando dal naso e dalla bocca – la protesta implicita nel minotauro si riversa sullo spettatore che prova così, sulla propria pelle, l’esperienza estetica.

Quel periodo difficile, in cui non sapevo se frenare o scatenare la mia aggressività, finì provvidenzialmente quando la signora Reeves ebbe un’embolia che la spedì all’altro mondo. Consentitemi una pausa nel racconto per infangare la sua memoria. Anche da morta continuò a prendersi gioco di me. Non mi aspettavo granché dal suo testamento, magari una modesta rendita per tutti gli anni di servizio, ma non avrei mai immaginato che mi includesse fra i suoi beni. E si diede persino arie da filantropa. Venni donato al museo del suo paese natale (New Blackwood, North Carolina) “con l’augurio che i miei contemporanei conoscano i capolavori più importanti dell’arte moderna”, secondo quanto lasciò scritto in una lettera per le autorità locali. Questo tradimento esaurì la mia pazienza. Era chiaro che non mi avrebbero mai concesso la libertà, se non l’avessi conquistata con le mie forze. Il notaio della signora Reeves ritardò di proposito le formalità della donazione per esibire davanti agli amici il pezzo che custodiva. Era un tipo volgare e spregevole. Non badava certo alle sottigliezze, e non si limitò a ferire la mia dignità umana depilandomi rudemente: offese anche il mio orgoglio artistico. Nella sala della signora Reeves mi ero ritrovato in mezzo a opere di pregio, e ora non potevo sopportare la compagnia di carabattole piccoloborghesi. Io, un Picasso, vicino a una riproduzione dell’Ultima cena di Salvator Dalì!
Quando scappai dalla casa del notaio, la mia sensibilità era a pezzi. Vagando per le vie di Manhattan arrivai al Greenwich Village, dove strinsi amicizia con un borseggiatore portoricano, Franklin Ramírez, che si offrì d’insegnarmi il mestiere purché diventassi il suo aiutante. Lavoravamo sui vagoni della metropolitana nelle ore di punta. Io lasciavo cadere qualche moneta, e Franklin faceva scivolare le sue agili dita nelle tasche degli ingenui che mi aiutavano a raccoglierle. Con lui passai i giorni più felici della mia vita. Finalmente qualcuno mi trattava come un essere umano. Ero libero, avevo un compagno d’avventure, mi guadagnavo da vivere facendo qualcosa di più divertente che posare come un bambolotto di lusso. La cosa più ammirevole di Franklin era la sua impressionante sincerità in materia di pittura. Il minotauro non gli piaceva. Secondo lui la testa del toro era disegnata male, era uno sgorbio deforme, e come esempio di qualità artistica mi mostrava il proprio tatuaggio: una bionda con le cosce spalancate dipintagli su una spalla da un artigiano di San Quentin. Franklin mi dava il venti per cento del bottino e mi pagava vitto e alloggio. A modo suo era più generoso della signora Reeves, ma restava pur sempre un ruffiano. Finse di credere che ero un orfano appena uscito dal riformatorio (avevo inventato quel racconto inverosimile per non risvegliare la sua cupidigia), ma intanto indagava sulla mia vera identità. Povero Frank, non gliene faccio una colpa. Quando i giornali annunciarono la ricompensa per chi avesse fornito informazioni sul luogo in cui mi trovavo, pensò di concludere il primo affare pulito della sua vita. La polizia irruppe all’alba nel nostro nascondiglio, in un piccolo albergo nel West Side. Vedendo che il mio socio non era nella stanza capii che mi aveva tradito. Ero già grandicello per piangere. Feci qualcosa di più intelligente: lo denunciai per corruzione di minore. Lo arrestarono quando andò a ritirare la ricompensa. Povero Frank. Lui si era comportato come Giuda, ma io non ero Gesù Cristo.

Finimmo in prigione tutti e due. Franklin tornò a San Quentin e io venni trasferito in un carcere più immondo, il museo di Blackwood, dove mi era stata riservata una gabbia di vetro con una targhetta che rendeva merito alla signora Reeves per la sua generosa donazione. Adesso mi chiamavo Uomo con minotauro sul petto. Il titolo suggeriva che non solo il tatuaggio ma anche io, il suo sventurato portatore, eravamo creazioni di Picasso. Insorgendo contro questa ignominia mi attirai le antipatie del direttore del museo, un funzionario grigio e meschino per il quale le mie richieste di ricevere un trattamento umano erano soltanto capricci da star. “Di cosa ti lamenti,” mi diceva “ti guadagni da vivere senza muovere un dito.” Accampando il pretesto delle riduzioni di bilancio, mi razionava il cibo. Il suo era un museo democratico, non poteva spendere per me più che per le altre opere. Democraticamente, voleva costringermi a rimanere immobile per ore, a sorridere quando i visitatori mi fotografavano, a sopportare senza starnutire l’umiliante piumino del vecchio che faceva le pulizie. Siccome ero lì contro la mia volontà, non sentivo di dover collaborare con lui. Assunsi un atteggiamento ribelle e sfrontato. Appannavo col fiato la mia vetrina, scioperavo coprendomi il petto, mostravo il pene alle ragazzine dell’High School e mi prendevo gioco dei loro insegnanti di storia dell’arte interrompendo le lezioni con urla sfrontate: “Non date retta a questocretino: Guernica è una porcheria e Le signorine di Avignone erano puttane come voi!”

Le lamentele sulla mia condotta arrivarono all’orecchio del sindaco del paese, che sottopose il caso a un’assemblea pubblica. Il direttore del giornale locale sosteneva che nessuna opera d’arte, a prescindere dalla sua importanza, aveva il diritto di insultare gli spettatori. Considerato che, se Picasso era ateo, io potevo anche essere l’Anticristo, il capo della chiesa metodista sollecitò la mia immediata espulsione da New Blackwood. I liberali si opposero: non avrebbero mai permesso a un fanatico di distruggere il patrimonio artistico del paese. Per non scontentare nessuno, il sindaco decise di tenermi incatenato e con la mordacchia. Neanche gli animali dello zoo ricevevano un simile trattamento.

È giusto il detto: quanto più amare sono le disgrazie, tanto più vicini siamo alla liberazione. La notizia della mia cattura aveva messo in allerta i ladri newyorkesi di musei. Quello di New Blackwood era poco protetto. Vi penetrarono di notte, dopo avere immobilizzato senza problemi due guardiani ottusi e arrugginiti dopo anni di inattività. Quando i ladri mi illuminarono con le torce, non potei trattenere un urlo di gioia. Con circospezione li aiutai a disattivare l’allarme della vetrina e mi misi ai loro ordini: “Portatemi dove volete, ma tiratemi fuori di qui. Cercherò io stesso il mio compratore, non vi darò noie.” La mia buona disposizione a lasciarmi rubare non li commosse. Sentii un colpo alla nuca e una puntura nel braccio. Il mondo mi crollò sulle palpebre…

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