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«La città assente»/2: una costruzione metaletteraria

redazione Autori, Ricardo Piglia, SUR

La città assente di Ricardo Piglia è in libreria. Pubblichiamo oggi la seconda parte della prefazione di Sergio Waisman all’edizione statunitense del libro, uscita nel 2000 per Duke University Press. Qui potete leggere la prima parte dell’articolo.

di Sergio Waisman
traduzione dall’inglese di Mario Tardone

Macedonio Fernández e James Joyce

La città assente contiene riferimenti e allusioni a un gran numero di scrittori argentini. Come in gran parte dell’opera di Piglia, si può rintracciare il progetto di (ri)disegnare le genealogie letterarie e sollevare problemi relativi ai canoni consacrati. Un aspetto rilevante dell’identità di una nazione è la sua eredità letteraria e il modo in cui tale eredità viene percepita – e costruita – nel presente. Tutti gli scrittori ereditano un passato, ma, come avrebbe potuto dire Jorge Luis Borges, creano anche i loro precursori, cambiando il modo in cui i lettori leggono gli scrittori precedenti attraverso la lente di quelli nuovi.

Ci sono anche molti riferimenti a opere e scrittori non argentini: Le mille e una notte, Dante Alighieri, Fëdor Dostoevskij, Robert Louis Stevenson, Edgar Allan Poe, Henry James, William Faulkner, James Joyce e altri. Tra questi, è necessario spendere qualche parola sul ruolo di Joyce nella Città assente. Ma prima, bisogna riflettere sul posto che nel romanzo occupa Macedonio.

Macedonio Fernández (1874-1952) è uno dei personaggi più originali della storia letteraria argentina, molto celebrato da Borges e altri per la sua ingegnosità, e figura chiave nei movimenti d’avanguardia del paese. Sposò Elena de Obieta nel 1901, e da lei ebbe quattro figli. Elena morì nel 1920. Tra i testi di Macedonio ricordiamo la poesia «Elena Bella muerte» (1920) e No todo es vigilia la de los ojos abiertos (1928). Nel 1904 iniziò a scrivere il romanzo della sua vita, Museo del romanzo della Eterna (Museo de la novela de la Eterna). Vi lavorò per circa quarantacinque anni, fino alla morte, ma non arrivò mai a pubblicarlo. Fu dato alle stampe postumo, nel 1967.

Nella sua scrittura, spesso umoristica e imprevedibile dal punto di vista logico, Macedonio mette in gioco l’importanza del linguaggio nel creare significati e nella nostra concezione del tempo e dello spazio. Ma lo fa svuotando la linguistica tradizionale e le costruzioni e convenzioni letterarie, per dimostrare la loro arbitrarietà e mancanza di qualsiasi reale esistenza. Il Museo del romanzo della Eterna, un testo che è allo stesso tempo romanzo e teoria del romanzo, ha più di cinquanta prologhi e personaggi dai nomi come Dolce-Persona, Forsegenio e Non-Esistente-Cavaliere.

Ma il Macedonio Fernández come figura storica realmente esistita non è necessariamente il Macedonio che il lettore incontra nella Città assente. Non bisogna partire dal presupposto che si stia leggendo di Macedonio Fernández in senso letterale. Il Macedonio della Città assente non è l’uomo che visse e scrisse in Argentina nella prima metà del Novecento, ma piuttosto un personaggio inventato che porta il nome di Macedonio.

Le origini di questa tecnica narrativa – di questa inversione tra il reale e il romanzesco – nella letteratura argentina possono essere fatte risalire a Borges, i cui testi dissolvono programmaticamente i confini tra i generi: tra il saggio e il racconto, tra la critica letteraria e la narrativa. La rielaborazione da parte di Piglia di questa tecnica è un modo di dialogare testualmente con le opere e le idee borgesiane. Ad esempio, il punto di partenza del racconto di Borges «Tlön, Uqbar, Orbis Tertius» è una scoperta che, ci dice Borges (il narratore, anche lui un personaggio «reale» ma romanzato), è stata fatta dal suo amico Bioy Casares, che noi identifichiamo immediatamente nello scrittore argentino, amico di una vita e collaboratore letterario di Borges. Questo è soltanto un esempio della contaminazione tra realtà e finzione che Borges realizza nella sua opera, una scelta che permette a Borges – e anche a Piglia – di interpretare la realtà (leggi: la storia, la politica, la cultura) attraverso la letteratura.

L’altra tecnica impiegata da Borges consiste nel mettere in scena scrittori immaginari (come Almotasim in «L’accostamento ad Almotasim» o Herbert Quain in «Esame dell’opera di Herbert Quain») che inventano testi ai quali abbiamo accesso soltanto leggendo le storie in cui sono descritti. In questi racconti, personaggi di fantasia scrivono romanzi che ci vengono riassunti come se fossero reali. Piglia applica un ulteriore giro di vite a questa tecnica, prendendo un personaggio storico, uno scrittore realmente esistito, e attribuendogli opere e azioni immaginarie. Da un certo punto di vista è l’inversione di un aspetto della poetica borgesiana; ed è ciò che Piglia fa creando il personaggio di Macedonio nella Città assente.

Sarebbe tuttavia fuorviante credere che l’uso del nome di Macedonio nella Città assente sia arbitrario. C’è anzi nel romanzo il ben preciso intento di presentare le idee anarchiche di Macedonio come una risposta estetica e politica al racconto totalizzante dello Stato, che cerca di ordinare e controllare l’individuo, di determinarne il significato e il posto nella società dall’esterno dell’io. Per Macedonio, al contrario, l’io non è ciò che percepisce, ma ciò che esprime con le parole. Si tratta dunque di una creazione instabile e immaginaria, che si oppone alle definizioni altrui della propria esistenza.

Un altro elemento è il contrasto che viene delineato tra la posizione di Macedonio come scrittore e quella del poeta Leopoldo Lugones. La critica di Lugones che si trova nel romanzo non è necessariamente collegata al valore della sua opera, ma piuttosto al fatto che Lugones si lasciò inglobare nel meccanismo dello Stato, diventando la figura dello scrittore patriottico che lo Stato utilizza per limitare la libertà. A livello estetico, Lugones può anche essere visto come la figura dello scrittore canonico usato per impedire l’accesso a pensatori più rivoluzionari o anarchici, come appunto Macedonio Fernández.

L’altra grande figura letteraria che si incontra nella Città assente, oltre a Macedonio, è James Joyce. Una domanda che sorge è perché uno scrittore contemporaneo come Ricardo Piglia sia ricorso proprio a James Joyce. Mi limiterò qui a indicare una delle diverse possibilità: sia Joyce che Macedonio, nei rispettivi paesi e nelle rispettive tradizioni, sfidarono lo status quo sul piano estetico e su quello politico. In questo senso, esemplificano bene un certo programma dell’avanguardia in cui Piglia chiaramente si riconosce. La questione, che lasciamo al lettore, è come questo tipo di sfida dell’avanguardia si applichi alla nostra condizione attuale. O, per dirla meglio: perché una risposta del genere si rende necessaria nel nostro mondo neoliberale, postmoderno?

Ma ci sono altri modi di affrontare i possibili legami tra Piglia, Macedonio e Joyce. Da una parte, si possono chiamare in causa alcuni paralleli tra Buenos Aires e Dublino, le loro affinità dal punto di vista dei rapporti tra la letteratura, la storia e la metropoli. Dall’altra, a un livello più specifico che riguarda La città assente, la perdita di Junior (la perdita della figlia, quando la moglie lo lascia portando con sé la bambina) richiama la perdita di Elena da parte di Macedonio, che lo spinge a costruire la macchina nella Città assente, così come richiama la lenta perdita della figlia di Joyce, Lucia, vittima di una progressiva follia, specialmente nel periodo in cui Joyce stava scrivendo Finnegans Wake.

La stessa forma del romanzo attinge tanto a Macedonio quanto a Joyce. Da Macedonio si riprende l’idea del romanzo come museo, di un luogo testuale in cui si può far (co)esistere praticamente qualsiasi cosa. Da Joyce deriva il romanzo come città, la città come romanzo, composto da viaggi che tracciano una mappa testuale che i lettori possono seguire mentre leggono. La struttura del romanzo non è riconducibile soltanto a Joyce, naturalmente, perché in Argentina c’è una lunga tradizione di rappresentazione testuale della città di Buenos Aires, che risale all’Ottocento, con scrittori come Sarmiento ed Echeverría, ed è esplorata di nuovo da Borges e Arlt, e poi da Marechal e Cortázar, fra altri scrittori del Novecento.

C’è da aggiungere che i vari punti di contatto tra Piglia e Joyce possono fornire qualche indizio per leggere «L’isola», che si trova nel terzo capitolo della Città assente. Come ha spiegato l’autore in un’intervista, nello scrivere questo capitolo si era posto una domanda: quale sarebbe il contesto immaginario di Finnegans Wake? In altre parole, non il contesto al cui interno Joyce scrisse l’opera, ma piuttosto la realtà implicita del testo. La sua risposta è: una società in cui le persone prendono Finnegans Wake come il Libro, in cui la lingua cambia costantemente. Questa invenzione diventa «L’isola».

Esiste infine un ulteriore parallelo tra i due romanzi che vale la pena menzionare. In un certo senso, ciò che Joyce compie con la lingua in Finnegans Wake – incrociare una lingua con l’altra, sfumare e distorcere le distinzioni linguistiche e grammaticali, per ritrovarsi con una lingua che sembra contenerle tutte – è simile a quello che fa Piglia con le linee narrative nella Città assente. Ad esempio, c’è un punto in cui varie storie si incrociano e si mescolano, e troviamo una sovrapposizione di voci narranti femminili che hanno tutte a che fare, in modi diversi, con la repressione. Tra queste l’Amalia di José Marmol, la Molly di James Joyce, l’Hipólita di Roberto Arlt, la Temple Drake di Faulkner (da Santuario), ed Evita Perón:

«Io sono Amalia, se mi mettono fretta dico che sono Molly, io sono lei rinchiusa nella cascina, disperata, minacciata dalla polizia di Rosas, sono irlandese […], sono lei e sono anche le altre, sono stata le altre, sono Hipólita, la sciancata, la piccola zoppa […], sono Temple Drake e poi, ah, vili, mi fecero vivere con un giudice di pace. […] Mi ricordo […] Evita con i ministri arrivava alle mani, Evita Perón, sì, dava uno schiaffo in faccia al ministro dell’Interno non appena il ministro diceva qualcosa di minimamente irrispettoso per le classi popolari».

Qui e in tutta La città assente, queste combinazioni inattese producono effetti sorprendenti, una rottura con la forma e la realtà. L’intenzione è quella di suggerire confronti e contrasti – letterari tanto quanto politici – che non è possibile ottenere tramite le tecniche tradizionali di narrazione. Le innovazioni di Piglia sollevano domande sulla storia e la letteratura, e sul nostro rapporto con esse come lettori e come cittadini. La città assente ci costringe a guardare in faccia l’assenza – l’autentica assenza del nostro mondo contemporaneo – per vedere e ascoltare cosa possiamo trovarci dentro.

 

Altri riferimenti letterari nella Città assente

Oltre a Macedonio e Borges, altri scrittori argentini che compaiono nella Città assente sono:

José Hernández (1834-1886), poeta e uomo politico, è l’autore del Martín Fierro (1872, 1879), il più celebre poema epico della tradizione gauchesca.

José Mármol (1818-1871) fu uno scrittore e uomo politico che si oppose al dittatore Juan Manuel de Rosas (in carica dal 1829 al 1952). Il suo romanzo Amalia (1852) descrive la città di Buenos Aires durante il periodo di questa dittatura.

Eugenio Cambaceres (1843-1888) fu uno scrittore e uomo politico. I suoi romanzi naturalisti, come Sin rumbo (1885) e En la sangre (1887), contribuirono a inaugurare il romanzo moderno in Argentina.

Leopoldo Lugones (1874-1938) fu uno scrittore del modernismo, nonché la maggior figura letteraria del paese dalla fine del secolo alla sua morte, avvenuta per suicidio. Tra le altre opere, è autore di La guerra gaucha (1905) e della raccolta di poesie Odas seculares (1910). Le sue idee politiche si evolsero dal socialismo giovanile a un nazionalismo estremo, con sfumature fasciste, negli anni della maturità.

I romanzi e i racconti di Roberto Arlt (1900-1942) sono popolati da personaggi marginali le cui vicende si svolgono in contesti urbani. Erdosain e Hipólita, personaggi dei Sette pazzi (1929) e I lanciafiamme (1931), compaiono nella Città assente.

 

Riferimenti storici

L’ambientazione della Città assente è a tratti ambigua, perché non si è mai sicuri se ci si trovi nel passato, nel presente o nel futuro. Questo effetto è creato in parte tramite riferimenti e allusioni alla storia e alla geografia argentine. Ad esempio, ci sono riferimenti molto specifici alla città e alla provincia di Buenos Aires e al Delta del Tigre, dove i fiumi Paraná e Uruguay confluiscono a formare il Río de la Plata.

I più notevoli riferimenti storici sono quelli alla dittatura militare che prese il potere nel marzo 1976 e governò fino al 1983. Durante questo periodo, noto come la «guerra sporca», il governo fece «sparire» qualcosa come trentamila cittadini, mantenendo uno strettissimo controllo su tutti gli aspetti della società. Il regime fu finalmente costretto alla resa poco dopo la sua sconfitta nella guerra contro l’Inghilterra per il controllo delle isole Malvine (ovvero la guerra delle Falkland, i cui cittadini britannici si definiscono «kelpers»).

Altre allusioni importanti riguardano diversi eventi collegati a Perón. Il colonnello (più tardi generale) Juan Domingo Perón salì al potere alla metà degli anni Quaranta, prima come ministro del Lavoro sotto un regime militare e poi come presidente eletto dal ’46 al ’55, quando un altro colpo di Stato militare, la cosiddetta Revolución Libertadora del 1955, lo costrinse all’esilio. La politica di Perón è difficile da riassumere; in termini generali la si può descrivere come una forma estrema di populismo nazionalistico, sostenuto principalmente dalle unioni sindacali e, a tratti, dai militari. Si sposò con la celebre Eva Duarte (Evita), molto attiva nel suo governo fino alla morte, avvenuta nel 1952 a causa di un cancro. Durante l’esilio di Perón, che durò fino al 1974, la resistenza peronista conservò un certo grado di organizzazione, in previsione del suo futuro ritorno. Al rientro in patria, Perón fu eletto nuovamente presidente e morì ancora in carica, nel 1975. Sua moglie Isabel, vicepresidente, gli succedette al potere fino al colpo di Stato del 1976.

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