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Respirate, aride ossa:
profilo di Henry Dumas

Lavelle Porter BIGSUR, Ritratti

Pubblichiamo un profilo dello scrittore afroamericano Henry Dumas, che apre una riflessione sull’eredità dell’afrofuturismo e sulle prospettive del movimento #BlackLivesMatter. L’articolo è stato pubblicato originariamente sul New Inquiry, che ringraziamo.

di Lavelle Porter
traduzione di Simone Orsello

Tutti gli articoli su Henry Dumas cominciano dal 23 maggio 1968, il giorno in cui venne ucciso da un poliziotto sulla banchina di una stazione della metropolitana di New York. Gli articoli, i saggi e le introduzioni su di lui ci fanno capire quanto è stato perso quel giorno e ne lodano le opere postume, raccolte in lavori come Echo Tree: The Collected Short Fiction of Henry Dumas (curato dall’amico ed esecutore letterario Eugene Redmond), la raccolta di racconti Goodbye, Sweetwater e quella di poesie Play Ebony, Play Ivory. La morte di Henry Dumas è inestricabilmente legata alla sua opera, ma con i recenti sviluppi politici si è creata un’opportunità per andare oltre, rivisitare i suoi scritti e introdurlo a una nuova generazione di lettori, scrittori e attivisti. Verrà il giorno in cui potremo parlare di Henry Dumas senza cominciare dalla sua morte tragica. Verrà il giorno in cui sarà abbastanza conosciuto da poter scrivere di lui senza dover recitare ogni volta le circostanze del suo assassinio. Ma quel giorno non è ancora arrivato.

Il lavoro di recupero di un autore come Henry Dumas dall’oblio a cui la storia della supremazia bianca l’ha condannato è parte del progetto più ampio del movimento #BlackLivesMatter, e si pone sulla scia di una tradizione intellettuale nera che ha sempre operato ai margini del mondo accademico mainstream e della sua riproposizione generazionale di pensiero anti-afroamericano. La recente biografia di Jeffrey Leak Visible Man: The Life of Henry Dumas, uscita l’anno scorso per la University of Georgia Press, riempie un vuoto nella storia della letteratura nera e ci mostra un uomo brillante e complesso, che nel corso della sua breve vita ha saputo evolversi dal punto di vista artistico e ci ha lasciato un’opera viva e affascinante. In questi mesi di protesta e dibattito sulla violenza della polizia e sul valore della vita dei neri in America, la biografia di Dumas arriva come un dono dal passato. La lista degli afroamericani uccisi durante l’arresto o la custodia cautelare è lunga e dolorosa, e si estende ben oltre gli eventi più pubblicizzati degli ultimi due anni. Ma se è vero che la violenza della polizia ha agito da catalizzatore, #BlackLivesMatter non ha mai riguardato solo quello. È un movimento che affronta tutti i diversi modi in cui le vite dei neri vengono private di valore e distrutte dalla supremazia bianca, persino dall’interno.

Jeffrey Leak non si tira indietro davanti ai dettagli scabrosi della vita dell’autore. Dumas aveva conosciuto il demone dell’autodistruzione, soprattutto negli ultimi anni, durante i quali i rapporti con le persone a lui più vicine cominciarono a logorarsi a causa dell’abuso di alcol e droghe. Era pieno di incertezze riguardo al suo lavoro, e aveva difficoltà a trovare un equilibrio tra le ambizioni artistiche e la famiglia. Dumas trasferì questa sofferenza nella sua opera, dove i personaggi combattono contro il cappio che la supremazia bianca stringe attorno ai loro corpi, ai loro spiriti e alle loro menti. Ma in essa troviamo anche una celebrazione di tutte le glorie e le contraddizioni della black culture, delle religioni e delle politiche adottate dagli afroamericani. C’è una testimonianza della lotta dei neri nel ventesimo secolo, una tensione tra il Sud e le speranze e le delusioni della vita al Nord. E c’è una visione soprannaturale e futuristica di un mondo ultraterreno, una sensibilità spirituale cosmica.

Attraverso le intuizioni dei racconti – alcuni sono lunghi poche pagine, altri sembrano abbozzi di romanzi brevi – e delle poesie liriche che attingono alle diverse correnti della tradizione afroamericana, dal modernismo dell’Harlem Renaissance al provocatorio verso libero del Black Arts Movement, l’opera di Henry Dumas racchiude tutte le tematiche più importanti della letteratura nera del Novecento, arrivando persino ad anticipare i tropi della vita urbana del ventunesimo secolo, della tecnologia informatica e dell’esplorazione spaziale.

«Rope of Wind» è l’evocativa storia di un ragazzo che assiste al linciaggio di un uomo di colore del suo paese. I raccapriccianti dettagli dell’omicidio ricordano Canne di Jean Toomer e la sua rappresentazione delle quotidiane brutture figlie della violenza razziale nel Sud. È un racconto sul terrorismo nel Sud e sull’innocenza perduta della gioventù nera. «A Boll of Roses» dipinge la fioritura del movimento per i diritti civili, e narra degli attivisti del Nord che scendevano nei campi di cotone del Sud per parlare con la gente e organizzarla, e dei neri del Sud che cercavano di capire cosa potessero significare per loro la presenza e le attività di quegli «intrusi». Rimango colpito da quanto «il Nord» esista come presenza costante in questi racconti di Dumas ambientati nel Sud, dal modo in cui le sue città luccicanti popolavano l’immaginazione dei neri del Sud, i quali pensavano a quanto la vita urbana avesse cambiato quelli che si erano trasferiti e a quanto avrebbe potuto cambiare anche loro se avessero deciso di seguirli. Per quelli che stavano diventando adulti nel primo Novecento, l’idea di andare al Nord era imbevuta di un sentimento di speranza, eccitazione, paura e diffidenza allo stesso tempo.

Dumas si era trasferito ad Harlem con la famiglia quando aveva dieci anni, ed era poi tornato a vivere a New York dopo un periodo trascorso nell’aeronautica militare e diversi anni di studio saltuario alla Rutgers University. I racconti sulla vita in città sono affascinanti quanto quelli ambientati nel Sud, e tra questi «Harlem» è uno dei più inquietanti, se pensiamo alla sua morte atroce. La storia comincia su un vagone della metropolitana con Harold Kane, un giovane intellettuale che poco dopo scende nelle vivacissime strade di Harlem e rimane incantato dai leggendari oratori della Centoventicinquesima Strada, tra cui figura un certo Elder Dawud. Lì sente parlare di consapevolezza nera e autodeterminazione, e viene risucchiato dal movimentato ambiente intellettuale del quartiere. Al pari di Ralph Ellison in Uomo invisibile, Dumas dipinge Harlem come un luogo travolgente, epico e ricco di speranza per il futuro, eppure ancora tormentato dai fantasmi del passato. Il racconto si conclude su una nota infausta con l’omicidio di un giovane nero da parte di un poliziotto, a cui segue un principio di rivolta: una serie di eventi che si è ripetuta ad Harlem e in altre chocolate cities d’America.

«Will the Circle Be Unbroken» venne pubblicato per la prima volta nel 1966 sul Negro Digest, in un numero dedicato a «significato e portata del potere nero». Probe, un musicista jazz d’avanguardia, suona al Sound Barrier Club il suo antico corno africano, uno strumento dotato di poteri mistici. Quella sera tre hipster [termine con il quale si indicavano gli appassionati di jazz durante il secondo dopoguerra; n.d.t.] bianchi che si presentano come amici di Probe riescono a entrare nel locale – si tratta di un locale per soli neri – per ascoltarlo. Alla fine il potere dello strumento si rivela letale per i tre, che dopo aver sentito la musica crollano in terra e muoiono. Secondo Leak il racconto si ispira alle tesi esposte da Norman Mailer in «The White Negro», dove si sostiene che gli hipster bianchi vivessero di riflesso attraverso il filtro dell’esperienza black. Leak vede nella storia anche l’ambivalenza di Dumas nei confronti della relazione extraconiugale con Lois Silber, una donna bianca conosciuta alla Rutgers che lo incoraggiò a scrivere, e dei bohémien bianchi che di tanto in tanto frequentava. Il racconto richiama senza dubbio alla mente alcuni dei discorsi sul privilegio e sul suprematismo bianco che sono stati fatti dentro e fuori il movimento #BlackLivesMatter. Come altri racconti di Dumas porta con sé una storia intellettuale del pensiero afrocentrico che si stava sviluppando in quegli anni, durante i quali studiosi e artisti neri esplorarono l’idea del passato e della tradizione africana nella cultura nera contemporanea.

Alcuni dei lavori più arguti e toccanti di Henry Dumas sono a mio parere le poesie, raccolte in Play Ebony, Play Ivory: «play ebony, play ivory / all my people who are keys and chords» [«suona i tasti neri, suona i tasti bianchi / tutta la mia gente è tasti e accordi»; n.d.t.]. Tra di esse figurano diverse poesie blues à la Langston Hughes, come «Outer Space Blues», ispirata a Sun Ra e a lui dedicata, e «Machines Can Do It Too (IBM Blues)», un blues nato dal lavoro di addetto al Multilith presso la sede dell’IBM di Dayton, nel New Jersey. Quest’ultima esprime le inquietudini originate dalla sostituzione della manodopera umana con quella automatizzata durante l’era industriale, e sembra anticipare alcune delle preoccupazioni del nostro tempo, in cui le macchine si stanno impossessando anche della sfera cognitiva e di quella affettiva. Termina con dei versi che richiamano alla mente Lei, l’inquietante film di Spike Jonze sull’intelligenza artificiale: «Let me tell you people, tell you what I have to do / Let me tell it like it is people / tell you what I have to do / If I find a machine in bed with me / that’s the time I’m through» [«Lasciate che vi dica, gente, che vi dica cosa devo fare / Lasciate che ve lo dica chiaro e tondo, gente / che vi dica cosa devo fare / Quando mi ritroverò a letto con una macchina / allora sì che sarò spacciato»; n.d.t.].

Questa visione (afro)futurista dell’opera di Dumas ha qualcosa da offrire alla bibliografia del movimento #BlackLivesMatter. È stato tramite Sun Ra che ho incontrato per la prima volta il nome di Henry Dumas; era sul programma di «Black Man in the Cosmos», un corso che il musicista tenne nel 1971 come artista residente presso l’Università di Berkeley. Tra i libri di letteratura, storia e filosofia esoterica consigliati c’erano anche Ark of Bones (una raccolta di racconti) e Poetry for My People, le uniche due opere di Dumas disponibili all’epoca. Lo stesso Dumas incontrò Sun Ra nel 1965; andava ai concerti dell’Arkestra allo Slug’s Saloon, nell’East Village, e finì per diventare amico del leader cosmico. Nel 1966 i due collaborarono a un’intervista, registrata nel locale e pubblicata con il titolo «The Ark and the Ankh». Dumas si trovava già nel solco della stessa tradizione afro-battista da cui arrivava Ra, si era già inserito nel nazionalismo nero degli anni Sessanta e stava già esplorando alternative spirituali al cristianesimo con il quale era stato cresciuto. Nella biografia, Jeffrey Leak analizza un saggio inedito scritto nel 1954 durante la permanenza in Arabia Saudita, dove Dumas seguì le pratiche musulmane e modificò la propria opinione su alcuni dei pregiudizi nati dalla rappresentazione limitata che la cultura popolare americana dà degli arabi. Alla fine, la filosofia di Sun Ra lo portò sempre più sul cammino verso la coscienza cosmica. Sebbene il periodo di collaborazione con il musicista sia stato breve, i racconti e le poesie più mature di Dumas rivelano un evidente legame con il pensiero afrofuturista, come dimostra l’interesse maturato per le lingue e le pratiche spirituali africane che fondeva con l’originale futurismo nero di Sun Ra.

Nell’antologia Afrofuturism, Ytasha L. Womack scrive che il movimento «combina elementi di fantascienza, romanzo storico, narrativa speculativa, fantasy, afrocentrismo e realismo magico con le credenze non occidentali». L’afrofuturismo sembra oggi aver raggiunto la sua maturità come movimento artistico grazie a mostre, festival cinematografici, una pletora di blog e nuovi media, convegni universitari e un flusso costante di libri e articoli sull’argomento. La stessa Sun Ra Arkestra, diretta ora dal sassofonista novantunenne Marshall Allen, continua a esistere e a suonare con impressionante regolarità in giro per il mondo. A questo filone critico sono stati associati i Parliament-Funkadelic, Samuel R. Delany, Octavia Butler, Nalo Hopkinson, Tananarive Due, Dj Spooky e molti altri nomi.

Ma c’è chi è scettico. Ai tempi, gli spettacoli di Sun Ra vennero rigettati da una parte della comunità nera perché considerati stupidaggini frivole ed escapiste. Ho sentito esternazioni simili sull’afrofuturismo anche tra gli intellettuali neri. Ricordo una conversazione con una scrittrice nera all’Harlem Book Fair del 2014: la sua posizione era che la popolarità dell’afrofuturismo fosse un segnale della «mancanza di idee» della sinistra black, e che i giovani artisti neri si rifugino in questo feticcio spirituale perché non trovano risposte alle opprimenti disuguaglianze strutturali che impediscono alla popolazione afroamericana di uscire dalla rete della povertà e del carcere. Le sue parole continuano a risuonarmi nelle orecchie da allora. Non c’è dubbio che un movimento del genere, con il suo immaginario fatto di spazio e realtà alternative, corra il rischio di diventare una variante nuova e alla moda di quella stessa teologia illusoria su cui si basa la chiesa nera, dove però la Nave Madre prende il posto del paradiso.

Non penso tuttavia che Henry Dumas, Sun Ra, i Parliament-Funkadelic o Octavia Butler siano mai stati a corto di idee, e nemmeno gli artisti che oggi si ispirano a loro. Anzi, il movimento #BlackLivesMatter attinge a piene mani dalle teorie afrofuturiste sulla creazione di una mitografia nera e sull’importanza di creare alternative all’iconografia, alla cultura e al pensiero della supremazia bianca. Sono pochissime le forme di espressione artistica sfuggite alle accuse di escapismo dopo essersi confrontate con la realtà materiale dell’ingiustizia e dell’oppressione («La poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie», recita grosso modo l’aforisma attribuito a Theodor Adorno).

Nelle idee di #BlackLivesMatter individuo quello che Sun Ra definiva Alter-Destiny, un nuovo modo di essere e pensare che diverge dalla distruttività della vita come esiste ora sul pianeta. Nel film Space Is the Place, Ra chiede a coloro che si rivolgono alla sua OuterSpaceways Inc. se sono pronti a cambiare il proprio destino, e in uno dei miei pezzi preferiti dice che per cambiare il proprio destino bisogna «trovare il fato quando il fato è di buon umore».

Anche se #BlackLivesMatter nasce dai violenti assassinii perpetrati dalla polizia ai danni dei neri, dalle incarcerazioni di massa e dalle disuguaglianze strutturali tuttora esistenti, il fato sembra essere di buon umore nei confronti di un movimento che unisce l’energia dell’attivismo giovanile ai nuovi mezzi di comunicazione. Nella sua forma migliore troviamo una ricerca di alternative alla costante spinta all’arresto dell’industria carceraria e all’eccessiva criminalizzazione delle persone di colore. È un movimento che inoltre si pone contro alcuni dei dogmi della vecchia guardia nera, rettificandone la visione sessista e omofobica, prendendo sul serio gli interessi del femminismo e dell’attivismo gay e rifiutando la retorica patologica della rispettabilità come mezzo di inclusione.

C’è una storia di Dumas che collega perfettamente l’afrofuturismo e #BlackLivesMatter in questo senso, ed è «Ark of Bones», un racconto postumo che riflette il percorso della sua opera. I due protagonisti – Fish-Hound, ragazzo nero che è anche voce narrante, e Headeye, suo intimo amico dotato di poteri soprannaturali – si imbattono in una misteriosa imbarcazione alla deriva sul Mississippi. Dopo essere saliti a bordo della barca fantasma, scoprono che l’equipaggio è formato da strani personaggi impegnati a raccogliere le ossa dei neri morti in seguito alla traversata atlantica, alla schiavitù e alle leggi segregazioniste. Il racconto contiene elementi che provengono dalla formazione teologica dello stesso Dumas (a un certo punto della sua vita stava per diventare pastore), e fanno diretto riferimento alla visione avuta dal profeta biblico Ezechiele nella valle delle ossa aride. Contiene anche elementi della sua cosmologia afrocentrica, dal momento che uno dei membri dell’equipaggio più vecchi dice ai ragazzi: «Su questa arca c’è una parte dell’anima di ogni africano che vive in America».

Il racconto dà forma narrativa a un concetto che l’archivista Arturo Schomburg ha elaborato in «The Negro Digs Up His Past», e cioè che il recupero della propria storia è un atto politico vitale e necessario per un popolo come quello afroamericano, a cui è stato detto che non possiede una storia significativa. A Toni Morrison va il merito di aver portato l’opera di Dumas alle stampe in qualità di editor di Random House, pubblicando le prime raccolte di racconti e poesie, e ora Jeffrey Leak ha portato a termine un importante lavoro di recupero della biografia di Dumas, raccogliendo le ossa della sua opera da lettere, interviste e manoscritti per ricostruire il racconto di una vita interrotta troppo presto.

Il recupero di quella storia è una parte importante dell’Alter-Destiny, la costruzione di un futuro basato su un passato diverso da quello raccontato dai libri della supremazia bianca. L’intento della letteratura nera è sempre stato quello di costruire una tradizione creativa e intellettuale intorno al lavoro di autori le cui vite e opere erano state fino a quel momento ignorate e perdute. Le circostanze della morte di Henry Dumas sono importanti, per troppe ragioni che conosciamo. Ma forse prima o poi arriveremo anche ad apprezzare la pienezza della sua vita e la brillantezza dell’opera che ha lasciato a illuminare il nostro percorso verso il futuro.

© Lavelle Porter, 2015. Tutti i diritti riservati.

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