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Da un’assurdità all’altra: l’etica dello scrittore

redazione Autori, César Aira, SUR

Il marmo di César Aira è in libreria. Ve lo presentiamo con un’interessante recensione di Felipe Benegas Lynch, che ringraziamo, già apparsa su Boca de Sapo.

«Da un’assurdità all’altra: l’etica dello scrittore»
di Felipe Benegas Lynch
traduzione di Andrea Volpicelli

Mentre saltavamo nel vuoto si è avuta la dimostrazione che il supermercato era un mezzo, non un fine.
La sua realtà era indiscutibile, ma non si esauriva in sé stessa.

Ancora una volta il romanzo breve airiano dà del filo da torcere al Romanzo. Si tratta di essere innovativi, originali, di sviluppare uno stile peculiare e ben identificabile all’interno del supermercato generico in cui tutto tende all’uniformità, alla classificazione rasserenante e necessaria per la mercificazione.

Il marmo è la ricerca di un racconto a partire da un’immagine, da una sensazione. Il narratore, seduto nudo su un blocco di marmo, verifica la presenza delle proprie parti intime, ma non ricorda come sia finito lì. La rievocazione di quest’episodio costituisce la trama il romanzo, che prende forma – alla stregua di un sonetto – a partire dall’esibizione e raccolta di tutta una serie di “gadget provvidenziali” che scandiranno il divenire della vicenda sino a giungere all’episodio iniziale, che viene a coincidere con il finale stesso.

I gadget sono: pile, un occhio di gomma, una tabella delle proteine, una forcina dorata, un cucchiaino lente d’ingrandimento, un anello di plastica dorato e una macchina fotografica delle dimensioni di un dado. Così procede, «da un’assurdità all’altra», al ritmo incalzante dell’avventura. Perché tutto è lecito nella brama di raccontare da romanzo d’appendice: è questa la forma di diluire il marmo (il genere Romanzo, con l’iniziale maiuscola), di poter raccontare a partire dalla semplicità del proprio corpo, dal piacere di pronunciare una parola, “marmo”, lasciando che l’immaginazione filtri e agisca nelle porosità della parola.

C’è un’immagine che dà inizio al viaggio, e che innesca la proliferazione di storie che seguiranno. Ma non si accumulano «immagini semplicemente per hobby», c’è un’etica e una responsabilità di fronte a questo turbine che tutto trascina via con sé, ci sono conseguenze da tener in conto: «Chi poteva garantirmi che Jonathan sarebbe uscito indenne dalla frammentazione delle immagini? O forse dovrei dire: dalla irresponsabilità delle immagini. La superficialità delle immagini. Le immagini prive di funzione, giocherellone, ballerine, cubiste, astratte… Ciò le rendeva adatte come veicolo per attraversare l’identità dei mondi, ma nulla garantiva che fossero adatte, piuttosto il contrario, per riconfigurare un organismo in grado di funzionare […] La mia responsabilità di fronte al mondo si è trasferita, senza ridursi, su questo ragazzo cinese che il destino aveva messo sulla mia strada».

Così Aira crea mondi: a partire da elementi quotidiani, triviali, da ciò che ci circonda nel modo più immediato, ma sempre esercitando il suo diritto a demistificare e decodificare ciò che all’apparenza è inalterabile. Così elabora stereotipi, generi, proverbi, metafore, mezzi di comunicazione, coscienza di classe. Mai tralascia di sondare la “doppiezza” della parola nel suo oscillare tra significato figurativo e letterale.

In questo senso il marmo (quello dei monumenti, di Carrara, dei busti di grandi scrittori, delle lapidi) è diluito sino a diventare proto-marmo, la forma più insignificante di resto da dare in un supermercato cinese e allo stesso tempo un esperimento extraterrestre degno della più azzardata fantascienza.

Tuttavia il narratore, che si dichiara devoto a Zezè e l’albero d’arance, disdegna la fantascienza, e fa di tutto per non cadere nelle maglie di quel genere. Nonostante si invochino glin extraterresti, Aira piega intenzionalmente la trama in modo da evitare la «suddetta narrativa di genere».

Come un essere alieno Aira decifra e disarticola i codici culturali per inocularvi il virus del nuovo, del piccolo, del folle, che, muovendo dalla noia, dalla rassegnazione o dall’ispirazione, genera comunque sia scrittura, brandendo sempre la lucidità delirante di colui che da un momento all’altro dirà qualcosa di illuminante.

Come se una statua prendesse vita.

Come se un carrello della spesa si mettesse a parlare.
Il romanzo breve di Aira resuscita ciò che si era pietrificato nella struttura marmorea del Romanzo. Il marmo è la lapide mortuaria, ciò contro cui si ribella la vita (la scrittura) nella sua brama di sussistenza. Da qui la lotta per l’inclassificabile, per l’infinitamente unico, per trovare una «differenza nell’identico» in grado di reintrodurci nel regno del tempo dove la nostalgia è una realtà.

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