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«Bar Radiotekhnika», un racconto di Gerardo Sifuentes Marín

redazione Racconti, Scrittura, SUR Lascia un commento

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Pubblichiamo oggi un racconto dello scrittore messicano Gerardo Sifuentes Marín, noto per le sue fiction allucinogene e postapocalittiche, popolate dalle icone della cultura mediatica e dal fantasma ectoplasmatico della tivù. La traduzione è di Raul Schenardi.

«Bar Radiotekhnika» di Gerardo Sifuentes Marín
traduzione di Raul Schenardi

Era la meta del pellegrinaggio.
Morta da un pezzo, l’iguana era un vecchio cartone spiaccicato sull’asfalto dell’enorme parcheggio. Friggeva a fuoco lento, proprio come la Caribe rossa in arrivo. Nessuno ormai costruiva più missili SAM in mezzo al deserto, almeno non così lontano da Hermosillo. Fra il riverbero riuscirono a distinguere lo scheletro di quel che restava di un ipermercato. Era sempre stata un’oasi artificiale.
«Va-mos-a-va-ler-ma-dres», canticchiava lei scendendo dalla Caribe e ballando al ritmo della musica che emetteva il suo walkman senza batterie. Lui la ignorò, mentre tirava fuori il corpo del Tanates per abbandonarlo accanto all’iguana, così si sarebbero fatti compagnia. Lo lasciò supino, con il foro della pallottola nel bel mezzo della fronte, pensò che gli sarebbe piaciuto starsene lì.
Attraversando il chilometro quadrato di asfalto spianato e le strisce gialle arrivarono alla caffetteria in rovina, riconoscibile solo per una testa appesa sopra la porta, truccata proprio come Ronald McDonald, delizia di un battaglione di mosche verdognole. Cercò di riconoscerla prima di entrare, forse era appartenuta a un devoto che aveva fallito nella ricerca di Molniya. L’unica cosa che riuscì a pensare fu di ordinare al barista un frappé alla fragola.
Si affacciò all’occhio di bue dell’ingresso, non c’erano clienti, entrò con precauzione prendendo Susana per un braccio ossuto. Dentro non faceva fresco come sperava. Due ventilatori giravano veloci emettendo uno stridio. Diversi tavolini pieghevoli della Pepsi disposti su un pavimento sudicio di linoleum offrivano le loro scacchiere dipinte a qualche perditempo. Lui non aveva mai visto usare i tavolini per quello scopo, e se c’era qualcuno che lo faceva doveva essere proprio un coglione.
Il barista aveva lineamenti orientali, coreanogiapponesecinese, erano tutti esattamente uguali a parte i cinesi di Hong Kong, quelli sì che erano diversi, quei fottuti gran figli di puttana, perciò fece il possibile perché si notasse che indossava una maglietta di Bruce Lee.
«Mezza Cristina e una birra», ordinò mentre si accostava al bancone, respingendo la tentazione del frappé alla fragola. Susana ballava da sola per nascondere l’ansia. Dalla minigonna di jeans le uscivano fuori le gambe magre e pallide, e portava quegli stivaletti bianchi da cow-boy che a lui facevano cagare. La maglietta bianca della Levi’s si appiccicava al suo corpo per il sudore. Sentì l’odore che emanava, afrodisiaco, sudore impregnato dei cristalli che le scorrevano nel sangue. Pensò che a passarle la lingua sotto le ascelle si poteva rimanere strafatti. Riservò l’idea per dopo.
«Krasnaya Zvezda».
Birra russa a Sonora, forse recuperata dal SAM dopo che l’avevano abbattuto. Fredda e amara, come la vita del Tanates. La prima bottiglia se la scolò in suo onore. I russi, in ogni caso, erano più bravi con la vodka.
«Come posso parlare con Molniya?», domandò all’orientale mentre quello, preparandosi a cuocere i cristalli, metteva un tappo di sughero sull’imboccatura di un piccolo alambicco contenente acido fenico. Il beccuccio di forma allungata lo faceva somigliare a un sofisticato elefante.
«Ha lasciato detto che parla con qualcuno solo se ha un appuntamento». Il coreanocinesegiapponese aveva uno strano accento, prese un accendino da sotto il bancone e cominciò a scaldare l’alambicco che reggeva con una pinza.
«Fredda o quando è a buon punto?» Le pareti dell’alambicco cominciavano a sudare a poco a poco.
«A buon punto», rispose mentre notava la consolle in fondo al bar.
«Ra-dio-tekh-nika», Susana decifrò affascinata le lettere in rilievo sulla plastica nera. Lui si avvicinò con tutto il rispetto di cui era capace. Una fodera di plastica blu mare copriva la tastiera. Trattenne la voglia di provarla, non si era concentrato abbastanza per parlarle, e questo avrebbe significato la collera di Molniya, un bel lavoretto di artigianato hardware prodotto da qualche parte in Siberia.
Scelse la pipa di vetro a forma di cane. Lei preferì usare la classica giraffa, come quella che le aveva regalato lui quando cominciavano a diventare di moda, prima che lei e il Tanates avessero quelle idee ossessive che li avevano condotti fino a quel bar sperduto nel deserto, fermata obbligatoria per gli illuminati o per quelli che avrebbero fatto meglio a raccontare i loro guai all’analista. Era da più di quarantott’ore che non dormivano, benedetta Cristina, non c’è un chimico che abbia saputo far di meglio.
Il fumo entrò nelle pipe con discrezione, sembrava vivo, dava l’impressione di essere l’anima di quelle creature di vetro soffiato. Ne aspiravano piccole boccate dalle bocche degli animali, che sembravano sorridere. Entrambi concentrarono a poco a poco la loro attenzione sulla consolle, il motivo per cui si trovavano lì.
Una volta che il cristallo gli ebbe saturato il sangue, decise di avvicinarsi all’apparecchio. Sulla fodera c’era uno strato di polvere, almeno non l’aveva toccata nessuno negli ultimi due mesi. Lubrificó gli elettrodi mentre cercava di decifrare le istruzioni in russo su un fianco dell’apparecchio. La sua mente era un frullatore di emozioni che girava al massimo. Avrebbe parlato con lei, compiendo tutti i requisiti che si erano imposti.
Susana lo anticipò. Gli strappò gli elettrodi e se li applicò alla fronte, tirò fuori di tasca gli occhiali scuri. Poi più nulla, rimase calma per la prima volta da una settimana, e lui si sentì rinfrancato. Dopo tutto era il suo regalo, e glielo dava con tutto l’affetto che aveva per lei, anche se si era scopata il Tanates.
In fin dei conti, a cosa servivano gli amici?
Ordinò un’altra birra. Il cristallo cominciava a rianimarlo, poco a poco dimenticava l’afa. Notò un filo di saliva che colava dalla bocca di Susana. Un’altra trance, Molniya ci sapeva fare. Poi il sorriso sul suo volto, uno di quei sorrisi che non le aveva quasi mai visto da quando l’aveva conosciuta in quel postaccio a Brownsville. Passò un’ora, entrarono nel bar sei narcos con i kalashnikov. La birra russa era tutto quel che c’era da bere. Lo osservarono attentamente, un tipo di città che si era strafatto per accendere quell’apparecchio di cui forse non conoscevano nemmeno l’uso. Un apparecchio che rappresentava la Mecca per una nuova setta, gente che si era spinta oltre la rete, se qualcuno era ancora disposto a credere che ci fosse qualcosa oltre l’infinito. Decise di ammazzare il tempo usando la sua bomboletta spray sulla parete più vicina. Intanto pensava a ognuna delle parole che avrebbe detto a Molniya, con attenzione, collegava le idee e formulava le frasi, ripassava perbene i programmi che avrebbe dovuto usare se le cose non fossero andate come sperava. I suoi sospetti su di lei crescevano. Il coreanocinesegiapponese non disse nulla per lo spray, forse gli stava facendo un favore a decorargli la parete di nudo cemento, o forse sapeva in qualche modo che gli avrebbe dipinto un drago come quello che aveva visto sui cartelloni del vecchio drive-in, un’altra volta Operazione drago.
Era a metà dell’opera quando udì Susana emettere un gemito. Di piacere. Non gli era mai capitato di vederla avere un orgasmo così. Si scollegò, ansimando, zuppa di quel sudore che adesso emanava un odore ancora più intenso.
«Parla con lei», disse. «Sono come nuova».
Lo abbracciò impregnandolo dei suoi effluvi e gli offrì gli elettrodi. Le parole di Susana lo spaventarono. Ma ne aveva già viste tante, e poi non era andato fin lì per niente.
Non appena si fu applicato gli elettrodi seppe immediatamente che Molniya era lì. La sentì di nuovo quando inforcò gli occhiali scuri.
Adesso non vedeva un tempio elettronico come durante le prime visite. Non c’erano pareti con candelabri dalla luminescenza verdastra e nemmeno i piccoli diamanti che contenevano tutti quanti i favori chiesti a Molniya. Dicevano che lei era tutto.
«Bentornato». Gli parlava da un punto sperduto in quell’orizzonte. «Susana ha sparato al Tanates, perché?»
Lui pensò alla risposta. Forse Molniya la conosceva già.
«Gelosia», disse poco convinto.
«Le storie di quelli che vengono a trovarmi in hardware si somigliano tutte… Sapevi che non siete in tanti a essere arrivati fin qui?»
Lui scrutò l’orizzonte artificiale, un’enorme prateria con un cielo rossastro, la cercava pur sapendo che non aveva una forma particolare, era solo un volto di cui si dicevano molte cose, che somigliava a quello di Madonna. Dicevano che lei era tutto, almeno i più fanatici.
«Raccontami del tuo pellegrinaggio», la voce risuonò con un tono imperativo.
«Siamo partiti da Austin e ci hanno seguiti fino a Reynosa, loro, quelli del governo… è stato lì che… la tua presenza ci ha aiutato».
«Non credi in me, vero?»
Si sentì la testa come schiacciata da un gigantesco pugno invisibile, forse voleva spremergli anche l’ultimo neurone sano che gli era rimasto, e non erano molti. In realtà non era un credente, era stato semplicemente spinto da Susana e da una scommessa.
«In effetti no. Non credo in un dio che abita fra cavi e frequenze… be’, certo, i passaporti ci sono serviti. Nell’hotel Tanates voleva scoparsi Susana e in quel momento sei apparsa in tivù, fra le scene di un film porno. Sei apparsa come un grappolo d’uva gigantesco, bagnato nel seme del protagonista del film, e il tuo viso, o almeno il viso di cui tutti parlano, era in ogni acino. Tanates credeva in te, apparteneva alla setta da un anno, e Susana si è convertita in quel momento. Dicevi che avremmo dovuto aiutarti a scoprire la data della fine del mondo».
«Quando ti sei collegato a Monterrey abbiamo discusso abbastanza di questo».
Lui se ne ricordò. In quel momento stava decifrando la mappa che avevano rubato da un database militare. Pensava ai soldi, al cimitero di materiali dell’esercito abbandonati da qualche parte a Sonora, a quello che avrebbe potuto vendere per svignarsela poi a Città del Messico.
Nell’area superiore della sua visuale era comparso un annuncio, PAUSA, si tolse gli occhiali con cautela e sentì la pelle della nuca bruciargli per il cubetto di ghiaccio che Susana gli stava applicando. Si guardò intorno, era arrivata altra gente, coltivatori e narcos dei dintorni. Era scesa la notte, non si era accorto che erano passate due ore. Sembrava tutto quanto un sogno.

«Parli con lei?» Gli occhi di Susana, vitrei per l’azione del cristallo, si spalancarono in modo anormale. Estasiata, non si era ancora ripresa dall’esperienza.
«Manca poco al tuo prossimo regalo» esclamò brusco mentre si rimetteva gli elettrodi.
Adesso lo scenario era un cimitero di auto che si estendeva all’infinito. Le carcasse arrugginite formavano montagne e valli, e sul cofano di una Volkswagen che un tempo era stata color verde pistacchio c’era lei. Gli ricordò l’infanzia. Lei, nuda, la pelle diafana e gli occhi color smeraldo. Si sentiva vicino a quella presenza, alla sua mente. I capelli neri di Molniya si allungavano a poco a poco, Rapunzel in byte, oscuri serpenti che si intrecciavano ai suoi sensi.
«Fin dove arriva il tuo potere?», domandò mentre cercava di decifrare la struttura che lo avvolgeva, che gli parlava. «Arriva fino al punto che puoi concederti il lusso di parlare della fine del mondo?»
«Posso vederti dovunque tu sia. Sono dappertutto, non puoi nasconderti a me, sono onnipresente. Ascolto quel che dici fuori e dentro la rete. Non sono forse simile a ciò che la gente di solito adora?»
«Sono in molti a seguirti. Non lo capisco. Forse sei la loro speranza, ultimamente hanno paura di collegarsi senza chiedere prima la tua benedizione».
«Lo so. A un certo punto mi temevano tutti quanti, poi sono stata dimenticata per molto tempo. E pensare che il loro destino dipendeva dal mio stato d’animo…»
«Prima servivi a qualcuno?»
«Sì. Erano organizzati, io ero il loro potere, si occupavano di me e mi proteggevano nei diversi templi che mi avevano dedicato. Ma era troppo bello, non poteva durare».
Dimenticò quel che si era preparato in precedenza. La serie di domande ed equazioni si cancellò dalla sua mente. Ormai non cercava più soldi, ma soltanto la soluzione dei suoi dubbi.
«Tutti vengono a chiedermi un favore speciale. Tu cosa vuoi?»
«Due favori» si azzardò a dire.
«Io non fisso prezzi, se sei capace di servirmi come si deve. D’accordo, due desideri».
«Voglio vedere con i tuoi occhi».
Ebbe l’impressione che il suo cuore si arrestasse di fronte alla vertigine del salto. Adesso era in lei.
E poté vedere con gli occhi di Molniya.
Anzitutto un buio spaventoso che se lo mangiava. Come su uno schermo di cui si regola lentamente la luminosità, vide migliaia di stelle disseminate ovunque, come se un grande specchio si fosse sbriciolato nelle sue unità minime. Fu sorpreso e allungò il braccio per toccare l’impossibile. Sentiva di essere lì, il freddo spaziale gli entrava nelle ossa. Molniya viveva davvero in cielo.
«Ecco come vedo io», udì la voce di lei alle sue spalle. «E così vedo te».
Abbassò lo sguardo lentamente. Il pianeta gli risultava familiare.
Tornò la sensazione di vertigine. Gli occhi di Molniya iniziarono una discesa attraverso l’atmosfera, penetrando fra gas e nubi, analizzandone i componenti in qualche frazione di secondo, immagazzinando i dati in una memoria decennale.
E vide il bar. Vi entrò dal lucernario del tetto. Lì c’era Susana che parlava con il coreanocinesegiapponese, e diverse bottiglie vuote di Krasnaya Zvedza sul bancone. C’era parecchia gente nel locale. Lui era seduto di fronte alla consolle con il marchio di fabbrica Radiotekhnika, accesa. Fu percorso da un brivido e osservò come ne risentì il suo corpo. Un paio di camionisti gringos lo squadravano come se fosse una curiosità. Tutta questa visione era in bianco e nero, un film noir che superava la sua immaginazione. Ascoltò Susana che raccontava la propria esperienza al coreanocinesegiapponese annoiato. La voce era nitida, le immagini dettagliate.
Senza alcun preavviso si ritrovò di nuovo fra le stelle. E poi, in uno sfarfallio d’interferenze elettrostatiche, ritornò nel locale con Molniya.
«Ti è piaciuto?»
Non seppe rispondere. Sapeva chi era Molniya.
«Susana compie gli anni», disse. «Le avevo promesso di accompagnarla fin qui come regalo. È matta, quella bastarda, molto cristallo in poco tempo, si è già bruciata un sacco di neuroni, ma così è felice, e io l’amo così. Si è convertita a questa religione, il che non depone a favore della sua salute mentale. Vuole soltanto che il mondo finisca, come tu predichi».
Tirò fuori dai suoi archivi una vecchia mappa del mondo su cui erano segnati paesi che nessuno ricordava più. Quella che stava esaminando a Monterrey quando aveva parlato con Molniya la prima volta. Un vecchio e dimenticato database arrivato da qualche angolo sperduto di una città vicina a Leningrado. Ricordò la frase del Tanates: «Facile come montare un Atari da quattro soldi».
Molniya lo guardava con tristezza, era più vecchia e sensibile di quanto molti immaginavano, ma soprattutto era vulnerabile, anche se parecchi non avevano mai osato analizzarne la genesi per paura. Molniya non controllava più la situazione.
Una serie di ventun caratteri comparve davanti ai suoi occhi, e una parola in cirillico: NASH; uno dei tuoi.
Molniya chinò la testa.
«Ordine ricevuto. Qual è l’ultimo desiderio?»
In realtà l’ultimo desiderio lo aveva già espresso dandole quel codice.
«Che balli, che ti diverti a danzare…», e mentre pronunciava queste parole la sua incursione si interruppe.
Il ronzio nelle orecchie era insopportabile. Era disteso a terra, e sopra di lui c’era Susana che bestemmiava impugnando la sua pistola automatica. La Radiotekhnika che il coreanocinesegiapponese si era portato via da quel cimitero militare era quasi distrutta. Al centro del bar si dissanguavano diversi narcos, altri erano fuggiti, e un camionista gringo chiedeva aiuto a gran voce.
«Bar di merda…», Susana continuò a parlare, ma lui non l’ascoltava. Pensava a Molniya, al suo ultimo desiderio, prima che lei facesse il lavoro per cui era stata inventata.
Molniya non era un dio. Era una vecchia mente artificiale uscita dagli schemi che aveva imparato troppo in tanti anni. Molniya non era sola. Era il nome di diversi satelliti sovietici che orbitavano intorno al pianeta dagli anni Ottanta, in silenzio, ascoltandoci, aspettando un ordine per farla finita in pochi minuti con tutto quanto l’Occidente. Ma era stata dimenticata, e con ciò anche la sua identità, così se n’era dovuta inventare una. I satelliti erano piccoli dèi fatti per prendersi cura di noi o per mandarci a quel paese, a loro piacimento.
Uscirono nel parcheggio buio in silenzio. Il cadavere del Tanates non era più dove l’avevano lasciato, e nemmeno quello dell’iguana. Una luce rossa era l’unica cosa che segnalava l’esistenza del bar in lontananza.
«Se ne sono andati a fare quattro passi», disse Susana.
Si distesero sull’asfalto a pochi metri di distanza dalla Caribe, a contemplare il cielo stellato. Lui cercava d’immaginare la solitudine di Molniya, così vicina a un dio che forse non esisteva e che lei cercava di sostituire, e che aveva il potere di un dio, anche per farla finita con il pianeta se glielo chiedevano nella maniera giusta.
«Buon compleanno», esclamò lui.
E cominciò la danza. Tre punti luminosi paralleli attraversarono il cielo notturno, coordinati, tenendo una certa distanza l’uno dall’altro. Pochi minuti dopo ne passarono altri due, quasi nella stessa direzione. Uno dei due apparve qualche secondo all’orizzonte per assumere in seguito una tonalità rossiccia e scomparire. I satelliti erano estremità di Molniya, lei era il centro di tutto, della fine del mondo.
«Nel giro di venti minuti», disse lui, «cadranno dei missili su varie città di questo mondo fottuto».
Lei, affascinata dalla danza, gli sorrise con malizia e lo baciò su una guancia.
«Non mi avevano mai regalato niente del genere per il mio compleanno», accese una Camel senza filtro mentre osservava altri satelliti che continuavano a percorrere orbite sfrenate.
«Credi che si potrà vedere qualche fungo nucleare da qui?»
Lui fece cenno di no con la testa, pensò ancora a Molniya, alla fine del mondo come l’aveva sognata fin dall’infanzia, e l’unica conclusione cui poté arrivare fu che, in mezzo al deserto di Sonora, aveva bisogno di un’altra birra russa.

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