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Dal Boom al Boomerang / 1

redazione Autori, José Donoso, Juan Carlos Onetti, Julio Cortázar, SUR

Illustrazione di Fernando Vicente

Presentiamo oggi la prima parte di una riflessione sulla storia del romanzo ispanoamericano a partire dal cosiddetto Boom, compreso tra il 1958, con l’apparizione di La regione più trasparente di Carlos Fuentes, e il 1967, con Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez. Gonzálo Celorio, autore di Tre belle cubane, si immerge nei prodromi di quel momento di splendore e ci accompagna, in un imprescindibile viaggio critico, alla scoperta del romanzo contemporaneo di lingua spagnola.
L’articolo è apparso originariamente sulla Revista de la Universidad de México, che ringraziamo.

«Dal Boom al Boomerang» / 1
di Gonzalo Celorio
traduzione di Sara Proietti

Buon anno questo 2012 per celebrare il cinquantenario di ciò che si è ormai soliti chiamare il boom del romanzo latinoamericano e che ora la Real Academia Española preferisce scrivere bum, alla maniera tradizionale, togliendo alla rappresentazione grafica dell’onomatopea la carica esplosiva attribuita a un fenomeno considerato, ai tempi destabilizzante, in espansione e inaspettato. Certo, cinquant’anni fa, nel 1962, Mario Vargas Llosa vince il Premio Biblioteca Breve con La città e i cani, opera che fa trapelare alla vita civile le atrocità quotidianamente commesse in una scuola militare e che spesso si invoca come romanzo inaugurale di quello che, con il tempo, sarebbe assurto a nuovo canone letterario. Nello stesso anno, Carlos Fuentes rinnova il filone romanzesco dedicato alla rivoluzione messicana con La morte di Artemio Cruz e si avventura in un genere sincretico, tra lo storico, il fantastico e l’allegorico, con il romanzo breve Aura; Julio Cortázar pubblica Storie di cronopios e di famas, in cui già si ravvisa lo spirito ludico e iconoclasta che, solo pochi anni più tardi, animerà le pagine di Rayuela; Gabriel García Márquez preannuncia i suoi eccessi tropicali con la pubblicazione di I funerali della Mamá Grande e Alejo Carpentier dà alle stampe Il secolo dei lumi, considerato dalla critica la sua opera più significativa e uno dei migliori romanzi storici d’Ispanoamerica.

Esistono, tuttavia, opere narrative immediatamente precedenti al 1962 che risultano ascrivibili al medesimo fenomeno letterario: nel 1958 apparve il primo romanzo di Carlos Fuentes, La regione più trasparente, che, con la sua modernità urbana, la sua molteplicità di voci narranti, il flusso lirico dei suoi personaggi atemporali e la sua dimensione critica, si situa già in quello che, in un saggio successivo,[1] l’autore stesso battezzò come il nuovo romanzo ispanoamericano; nel 1961, Ernesto Sabato pubblicò Sopra eroi e tombe, che include l’agghiacciante Rapporto sui ciechi; Juan Carlos Onetti, Il cantiere, che segue romanzi profondamente debitori dell’opera di Faulkner – la cui influenza suole considerarsi distintiva del boom –, come La vita breve, Gli addii o Per una tomba senza nome, risalenti agli anni Cinquanta, e Gabriel García Márquez Nessuno scrive al colonnello, il cui protagonista dovrà attendere ancora qualche anno per evolvere – in quanto personaggio e non, evidentemente, per gerarchia militare – nel colonnello Aurelio Buendía di Cent’anni di solitudine.

Dal 1958, con la pubblicazione di La regione più trasparente, fino al 1967, con l’apparizione di Cent’anni di solitudine, la narrativa ispanoamericana stupisce il mondo letterario con romanzi sensazionali del calibro di Rayuela (1963) di Cortázar, Vista del amanecer en el trópico (1964) di Guillermo Cabrera Infante, anch’esso vincitore del Premio Biblioteca Breve e che si pubblicherà in seguito, rimaneggiato, con il titolo Tre tristi tigri; Raccattacadaveri (1965) di Onetti; Il luogo senza confini di José Donoso, La casa verde di Vargas Llosa e Paradiso di José Lezama Lima (tutti e tre del 1966). Una decade indubbiamente prodigiosa, che segna una svolta nella storia della letteratura ispanoamericana.

Non si deve credere, tuttavia, che questo fenomeno, come sembrano suggerire le denominazioni boom e nuovo romanzo ispanoamericano, nasca per generazione spontanea. Non sarebbe potuta esistere la letteratura fantastica di Cortázar senza l’antecedente di Felisberto Hernández o di Jorge Luis Borges; non sarebbe esistito L’autunno del patriarca di García Márquez senza Il Signor Presidente di Miguel Ángel Asturias, né La morte di Artemio Cruz di Fuentes senza Quelli di sotto di Mariano Azuela, L’ombra del caudillo di Martín Luis Guzmán o La tormenta ed El desastre di José Vasconcelos.

La tradizione romanzesca in Ispanoamerica è giovane. Se è vero che, durante la dominazione spagnola, andò sempre più diffondendosi nel Nuovo Mondo la lettura di romanzi, malgrado la severa vigilanza del Sant’Uffizio, come riportato da Irving Leonard, per il caso della Nuova Spagna, in Los libros del conquistador[2] e in La época barroca en el México colonial,[3] la scrittura degli stessi, invece, fu inibita a tal punto dalle autorità civili ed ecclesiastiche che nei possedimenti spagnoli d’oltreoceano non si rileva in quei secoli nessun romanzo degno di questo nome, il che conferma, a detta di Vargas Llosa, la natura sovversiva propria del genere. Come anche in altre colonie spagnole, in Nuova Spagna furono scritti alcuni testi narrativi come Los sirgueros de la Virgen di Francisco Bramón, Le peripezie di Alonso Ramírez di Carlos de Sigüenza y Góngora o La portentosa vida de la muerte di Joaquín Bolaños, opere di «timida finzione», come Alfonso Reyes qualifica la prima di queste, che non sono romanzi propriamente detti e che José Rojas Garcidueñas preferì saggiamente definire protoromanzi. Risulta altrettanto significativo che, a differenza della Spagna dove il genere giunse al suo apice agli albori del XVII secolo con la pubblicazione di Don Chisciotte, El Periquillo Sarniento del messicano José Joaquín Fernández de Lizardi, forse il primo romanzo americano che possa considerarsi tale, risalga al 1816, quando in Messico ha già preso avvio la rivoluzione indipendentista.

Guardando al nostro continente come un romanzo senza romanzieri, gli scrittori ispanoamericani del xix secolo, immersi nel complesso processo di emancipazione culturale successivo all’indipendenza politica di cui parla José Luis Martínez,[4] si mettono all’opera per conquistare, mediante l’articolazione di una voce propria, un mondo che, come in seguito avrebbe detto Alejo Carpentier, non era ancora passato del tutto al vaglio della parola. Da allora fino al boom, i nostri romanzi rispondono a una vocazione identitaria: iniziano con l’appropriarsi del paesaggio, in un processo analogo a quello condotto, in ambito lirico, da Andrés Bello con il suo Silva a la agricultura de la zona tórrida, che riprendeva in lingua spagnola l’opera di Rafael Landívar, gesuita guatemalteco stabilitosi in Messico, il quale, in impeccabili esametri latini – come si conviene allo spirito illuministico del XVII secolo – nel suo Rusticatio Mexicana celebra la bellezza di un paesaggio dove dee dell’antichità greco-latina vagano tra fichi d’India e agavi, frastornate dal gorgheggio di tacchini e are. E finiscono con l’appropriarsi di ciò che oggigiorno definiremmo il nostro patrimonio intangibile: la storia, la cultura, l’idiosincrasia dei nostri paesi.

Il nostro romanzo, in effetti, fu inizialmente tellurico. Bisognava descrivere la montagna, i fiumi, la pampa, il deserto, la selva per poi introdurre, in questo scenario grandioso e temibile, desolato o inestricabile, l’essere umano, che si vedrà costretto a lottare strenuamente contro questa natura selvaggia che vorrebbe dominare, ma che risulta sempre vittoriosa: «Li ha divorati la selva» sono le ultime parole di La voragine di José Eustasio Rivera. Si tratta dello scontro fra civiltà e barbarie – o della loro coesistenza – prospettato da Domingo Faustino Sarmiento in Facundo e che, a distanza di ottant’anni, permane attuale in Doña Bárbara di Rómulo Gallegos.

Dopo essersi appropriato di un paesaggio che fino a quel momento non era stato descritto in termini letterari, il nostro romanzo è diventato critico. Dal portoricano Manuel Zeno Gandía al messicano José Revueltas, dall’argentino Ricardo Güiraldes al peruviano José María Arguedas, dall’ecuadoriano Jorge Icaza al guatemalteco Miguel Ángel Asturias, ha denunciato lo sfruttamento del neocolonialismo nordamericano e le nuove oligarchie creole nelle miniere, le compagnie bananiere, i giacimenti petroliferi e i centri industriali, e ha condannato l’oppressione esercitata dai regimi autoritari che hanno sistematicamente afflitto i nostri paesi.

Il nostro romanzo è stato europeo e americano. Se è vero che voltò le spalle alla tradizione ispanica, i cui canoni metropolitani erano stati seguiti alla lettera durante il periodo coloniale, si adattò, però, ai nuovi modelli europei, specialmente francesi, e navigò nelle acque del romanticismo, del realismo e del naturalismo fino a sfociare nel modernismo, un movimento originale e innovativo – sebbene fondato su elementi provenienti dalla letteratura europea e indubbiamente più fecondo in ambito lirico che nella prosa – che rappresenta, per la sua influenza sulla letteratura spagnola peninsulare della Generazione del ’98, quel «primo ritorno delle caravelle» di cui ha parlato José Enrique Rodó. Se il nostro romanzo veicolò aspirazioni cosmopolite, il suo ancoraggio referenziale privilegiato rimase locale, illustrando le consuetudini e le tradizioni creole, meticce o indigene delle nostre comunità. Iniziò a farsi moderno, nel caso del Messico, con la rivoluzione del 1910. Da Mariano Azuela o Francisco L. Urquizo, che, come gli antichi cronisti, scrissero le proprie opere nel fragore della battaglia, a Martín Luis Guzmán o Agustín Yáñez, che, a distanza di anni, adottarono una prospettiva storica, il mondo che traspariva dai loro romanzi cessò di apparire dicotomicamente scisso, come era tipico nella tradizione romanzesca precedente, in buoni e cattivi, eroi (héroes) e banditi (bandoleros), per lasciare spazio ai bandolhéroes, come Salvador Novo battezzò, con un’efficace immagine simbiotica, i personaggi di queste opere e i loro referenti storici.

Verso la metà del xx secolo, la narrativa ispanoamericana guadagna una nuova profondità per quanto riguarda la propria referenzialità. Nel 1949, Miguel Ángel Asturias pubblica il romanzo Hombres de maíz, che Luis Cardoza y Aragón ha definito come «tempo senza storia». Quello stesso anno, Alejo Carpentier dà alle stampe El reino de este mundo, nel cui prologo sostiene la propria tesi sul real-maravilloso americano, frutto del contrasto con il movimento surrealista da cui aveva attinto la sua letteratura durante la sua permanenza a Parigi a partire dal 1928 e da cui si distacca dopo un viaggio ad Haiti, dove scopre la presenza quotidiana del meraviglioso nella realtà di quel paese dei Caraibi, che estende anche alla totalità della nostra America. «Ma cos’è la storia dell’America tutta se non una cronaca del reale meraviglioso?» è la domanda retorica con cui conclude il saggio introduttivo.[5]

Sei anni più tardi, nel 1955, Juan Rulfo pubblica il romanzo Pedro Páramo, in cui i morti e i vivi, il passato e il presente, la storia e il mito si avvicendano nel mondo ubiquo di Comala. Questi tre romanzi, ciascuno a modo proprio, dilatano la visione della realtà, che non si riduce più alla mera descrizione del paesaggio, al resoconto delle usanze o alla denuncia dei mali sociali per ampliare, come dice lo stesso Carpentier, le scale e le categorie della realtà. Da quel momento, il romanzo ispanoamericano non si limita a riportare ciò che gli uomini fanno, dicono e pensano, ma racconta anche ciò che inventano, ricordano o considerano reale – le loro mitologie, le loro credenze, le loro cosmogonie – e che costituisce un aspetto della realtà altrettanto o ancora più sostanziale di quella che scorre sulla superficie degli eventi. Senza queste opere non sarebbe concepibile l’apparizione, qualche anno dopo, di romanzi quali La morte di Artemio Cruz, La casa verde o Cent’anni di solitudine, dove la realtà che è servita come punto di partenza viene sovvertita dalla creazione letteraria, che ce la restituisce, ingigantita dall’immaginazione, affinché la si possa conoscere più profondamente. Oggi i nostri romanzieri – commentò Vargas Llosa quando era appena emerso il nuovo romanzo ispanoamericano – «non si cimentano più nel rappresentare una realtà, ma visioni e ossessioni personali: la loro realtà. Ma i mondi creati dalle loro finzioni, e che hanno un valore innanzitutto di per sé, costituiscono, al tempo stesso, versioni, assaggi a diversi livelli (psicologici, fantastici o mitici) dell’America Latina».[6] Ritengo che con il boom si siano finalmente realizzati gli aneliti identitari che animarono i primi romanzieri del nostro continente: i romanzi pocanzi citati e tanti altri a questi coevi risultano profondamente americani perché, forse per la prima volta nella storia della nostra narrativa, seppero farsi universali: l’identità, in fin dei conti, non è altro che questo. Come già aveva intuito Alfonso Reyes, l’unico modo per risultare proficuamente  nazionali è essere generosamente universali.


[1] Cfr. C. Fuentes, La nueva novela hispanoamericana, Joaquín Mortiz, Città del Messico, 1969.

[2] I.A. Leonard, Los libros del conquistador, Fondo de Cultura Económica, Città del Messico, 2006. Edizione originale: Books of the Brave: being an account of books and of men in the Spanish Conquest and settlement of the sixteenth-century New World, Cambridge, Harvard University Press, 1949.

[3] I.A. Leonard, La época barroca en el México colonial, Fondo de Cultura Económica, Città del Messico, 1974. Edizione originale: Barroque times in old Mexico: Seventeenth-Century Persons, Places, and Practices, University of Michigan Press, 1959.

[4] J.L. Martínez, La emancipación literaria de México, Antigua Libreria Robredo, Città del Messico, 1955.

[5] A. Carpentier, introduzione a El Reino de este mundo, Compañía General de Ediciones, Città del Messico, 1969, pp. 7-17; edizione italiana: Il regno di questo mondo, Torino, Einaudi, 1990 (traduzione di A. Morino), pp. v-xi (cit. p. xi).

[6] M. Vargas Llosa, «Novela primitiva y novela de creación en América Latina» in Revista de la Universidad de México, voll. XXIII, n. 10, Città del Messico, giugno 1969, pp. 29-36.

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