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La letteratura argentina contemporanea secondo Damián Tabarovsky

Damián Tabarovsky Editoria, Scrittura, SUR

Pubblichiamo oggi un lungo approfondimento di Damián Tabarovsky, scrittore e editore argentino, sulla letteratura argentina contemporanea e le sue molteplici declinazioni. Il pezzo è apparso su Letras Libres, che ringraziamo. L’illustrazione è di Martín Kovonsky

«La letteratura argentina di oggi: quanto più è marginale, più è centrale»
di Damián Tabarovsky
traduzione di Gianluca Di Cara

Che cosa rende argentina la letteratura argentina? C’è qualcosa che la definisca come “argentina”? Qualche particolare tratto identificativo, qualche identità ultima? La risposta riporta alla domanda e al suo errore: è una domanda posta male. Si potrebbe dire, questo sì, che esistono diverse tradizioni argentine e, fra queste, una che comprende, fin principio, la disputa, la discussione, la dimensione agonistica. E la follia. L’Argentina, con la sua letteratura, ma non solo, è un territorio attraversato da un costante conflitto interno, sempre irrisolto, che va avanti di lite in lite, di dibattito in dibattito. Questa posizione tanto controversa non mi è affatto estranea e direi che mi sembra quasi attraente, vitale. Provo invidia per gli scrittori francesi o tedeschi, che non esitano a parlare di letteratura francese o tedesca, fermi e convinti nell’affermare che qualcosa che porti questo nome esista davvero. A noi – o quantomeno a me – questa certezza non è data; al contrario, sappiamo che esiste un interrogativo sull’esistenza stessa della tradizione letteraria argentina. Ma allora esiste la letteratura argentina?

Se la letteratura è una lotta fra tradizioni, è perché la tradizione è, prima di tutto, una costruzione che ritorna attuale a ogni nuovo scontro e a ogni nuova frattura. Non esiste una tradizione identitaria che stabilisca una direzione univoca per la letteratura e la cultura, anche se è molto semplice identificare i diversi momenti storici in cui si è tentata una semplificazione del genere. Quindi, possiamo immaginare uno scrittore argentino, un qualsiasi scrittore argentino, anche il sottoscritto, al centro di diverse lotte, strategie e situazioni irrisolte. In Argentina il polemos è sempre presente, ed eccoci qui, ora, a invocarne il fantasma.

Su questa mappa è presente almeno una tradizione argentina che mi interessa, sulla quale torno spesso e non smetto mai di discutere. È una tradizione che riappare a più riprese e che ha contribuito alla creazione di uno dei migliori periodi della narrativa argentina – se non il migliore in assoluto, tout court. Una tradizione che non si scontra solo con altre tradizioni argentine, ma anche con sé stessa: appare sotto forma di rovina, appare in rovina, vestigia di ciò che avrebbe potuto essere, ma non è stata. Non parlo rovine intese come ciò che viene dopo – prima l’edificio, poi le sue rovine, per intenderci – ma come una condizione che permette di riflettere. Prima la rovina e poi la tradizione argentina: è un percorso privo di centro, una costellazione a sé stante, una comunità immaginaria o persino un “gruppo senza gruppo”, se questa calzante definizione non fosse già stata applicata agli scrittori contemporanei messicani. In altre parole, si tratta di una tradizione che non esiste. Che non esiste nella realtà. E allora tocca a noi crearla, inventarla, darle spessore intellettuale. Non è un capriccio. Non è arbitraria. Non è intercambiabile con altre tradizioni. È una poderosa operazione di lettura, un atto strategico che non è che il risultato della storia nazionale – e del dibattito sull’effettiva esistenza di una storia nazionale – e che sfocia nella costruzione di un immaginario letterario.

Questa tradizione argentina riunisce, in un solo movimento, una dimensione politica e un’altra caratterizzata, invece, dall’eccentricità. È una tradizione folle, strana e inclassificabile che, al contempo, pone in modo erudito le domande più radicali sullo stato della frase, sullo stato della prosa. Eccentrica e politica, e ciò che la rende politica è proprio la sua eccentricità. In questo caso, eccentricità non è sinonimo di frivolezza, snobismo, arbitrarietà o superficialità, ma l’esatto contrario. Eccentrica è la topografia, il luogo della mappa occupato dalla letteratura argentina più radicale, e quel luogo laterale, decentrato, minore, è quello che permette di leggere in chiave politica lo stato della frase. Perché è di questo che si tratta, degli interrogativi sulla frase, degli interrogativi riguardo a quale parola ne segua un’altra e a quali parole vengano invece scartate. E in che modo queste parole compongano una frase. E quale altra frase la segua, e in che modo le varie frasi assumano un senso compiuto. Tali interrogativi – le domande fondamentali della letteratura moderna – in un modo o nell’altro ricompaiono in questa tradizione, e sono ciò che rende politica la letteratura. Un romanzo non è politico perché parla di dittatori, né è sociale perché parla di narcotrafficanti, o ancora filosofico perché tra i suoi personaggi troviamo Heidegger. Questa non è che una soluzione semplice e perfino grossolana. Insignificante. È la letteratura che viene creata per essere riprodotta, acclamata dal mercato (“Un grandioso romanzo sull’Argentina!”, solo perché parla di Videla o di un desaparecido). Ciò che davvero rende politica la letteratura sono gli interrogativi sulla frase. Sono le decisioni prese sulle parole o sulle frasi da utilizzare a rendere politico un testo. Tale interrogativo, e tale tradizione, possono riguardare varie letterature; ma è in questa tradizione dell’eccentricità argentina che è ben presente ed è particolarmente produttivo.

Prendiamo due casi, due nomi, due secoli: il XIX e il XX. Sarmiento e Borges. Sarmiento scrive Facundo, o civiltà e barbarie, libro chiave del pensiero argentino e dell’intera America Latina. Ma che cos’è Facundo? A quale genere appartiene? È un saggio? Un romanzo? Sono memorie? Rientra nel filone dell’esotismo? È un Tocqueville in salsa argentina? È quello che oggi chiameremmo “una cronaca”? Non lo sappiamo. Sicuramente è tutto ciò. Oppure no. Ma soprattutto: non importa. L’inclassificabile singolarità di Sarmiento ha prodotto effetti radicali sul pensiero e sulla letteratura argentina, evidenti ancora oggi.

Il più grande scrittore della letteratura argentina del secolo scorso, Borges, non scrisse mai un romanzo. Anzi, disprezzò il genere canonico per eccellenza e si dedicò alla scrittura di racconti, che molto spesso non sono nemmeno tali: sono “finzioni”, brevi narrazioni, miscellanee, riscritture. Frammenti. Ne «Lo scrittore argentino e la tradizione», indica in modo esplicito quale sia la sua posizione sulla mappa (che nella sua megalomania equivaleva al “luogo della letteratura argentina”): totalmente inserito nella letteratura universale, eppure marginale, in prossimità del bordo, su una piega. Diversi e a tratti anche opposti, Sarmiento e Borges senza dubbio integrano questa tradizione, una tradizione in costante inventarsi, in costante divenire: la tradizione resta nel futuro – che trasforma in un gesto politico la stranezza, l’inclassificabile, il piacere per le cose meno importanti, rare ed eccentriche (anche Ezequiel Martínez Estrada, come molti altri, naturalmente, è parte di questa costellazione, ma preferisco non farmi esagerare: la digressione è il mio destino).

Questa tradizione argentina che riunisce eccentricità e politica si scontra quindi con la lunga tradizione argentina che è alla ricerca di una letteratura “normale” (un sogno che coinvolge anche la politica: a ogni elezione vince sempre il candidato che afferma che l’Argentina è un paese normale; ma a chi interesserebbe vivere in un paese normale? Avere una letteratura normale?). Qui il normale si scontra con molte difficoltà, concentriamoci su almeno due di esse: la prima è l’illusione del mainstream. La tentazione di una letteratura che raggiunga le classi medie (l’esistenza di grandi classi medie illuminate è uno dei felici miti nazionali: la più grande differenza tra noi e il resto dell’America Latina!). Da Ernesto Sabato a Osvaldo Soriano, da Cortázar alla maggior parte del catalogo della casa editrice Planeta negli anni Novanta, con tutte le dovute differenze, abbiamo davanti letterature che sognano di toccare la meta di una classe media che si sente nel pieno dell’ascesa sociale.

La seconda difficoltà di una tradizione argentina “normale” passa invece per la lingua, intrappolata ormai in una meta-narrativa accademica e prevedibile, in una letteratura contenutistica (com’è avvenuto per un’importante parte dei romanzi degli anni Ottanta, costruiti con banali contenuti pedagogici sulla dittatura e sui desaparecidos) o in un realismo grossolano. Tutte variazioni che riprendono la lingua dominante per applicarla in modo acritico alla letteratura. La letteratura che interessa a me, però, guarda sempre con sospetto la lingua. Sa, come diceva giustamente Barthes, che il “linguaggio è fascista” o, per dirla in un altro modo, che nella lingua si concentrano giochi di potere, egemonie e battaglie culturali. La tradizione eccentrica e politica è invece scritta contro la lingua ufficiale, al margine della norma stabilita, e sospetta della sintassi cristallizzata.

Allunghiamo il passo e avviciniamoci al presente. Negli anni Sessanta questa tradizione laterale, sempre in costruzione, fragile e particolare, diviene esplicita: l’argomento viene approfondito da Saer e Osvaldo Lamborghini, da Copi e Puig, da Héctor Libertella e Néstor Sánchez, e, successivamente, negli anni Ottanta, da Fogwill e Aira, che radicalizzano l’interrogativo politico sulla frase e introducono il paradosso, la sintassi sopra le righe, la respirazione convulsa, la critica al realismo dall’interno del realismo stesso. Per dirlo con le parole usate da Foucault su Bataille, sono «una prefazione alla trasgressione».

Arriviamo, finalmente, al presente. Al difficile momento in cui nascono nuove generazioni di scrittori, confondendo norma e sovversione, avanguardia e normalità. Troppi scrittori argentini ormai scrivono come Aira, respirano come Saer, usano violenza come Lamborghini. Come se scegliessero solo le strade più ovvie e palesi, solo alcune caratteristiche stilistiche, dimenticandosi invece di tutto ciò che c’è dietro, di ciò che, in realtà, è la parte veramente importante: una sintassi folle, una cultura sorprendente, il piacere del polemos. Questo è il momento in cui una tradizione in divenire sembra essersi trasformata in tradizione accademica. Chi, fra noi, si sente parte di questa tradizione deve ricordare che non si tratta di scrivere come loro, ma di scrivere con loro e persino contro di loro, di spingersi oltre.

Tuttavia, la narrativa argentina recente presenta una vitalità più che interessante e una diversità (un eclettismo?) che non smette mai di sorprendere. A volte io stesso, vecchio avanguardista démodé, sento la mancanza di certi punti di rottura, di certe scissioni, dibattiti e divisioni, per lo più assenti nella letteratura argentina di oggi. Mi piace discutere dell’estetica e della tensione tra estetica e politica, ma questo orizzonte, oggi, sembra non esserci. Eppure, da un altro punto di vista (dal punto di vista di una certa “democratizzazione”), è interessante notare come ogni scrittore stia realizzando la propria opera senza occuparsi della discussione su programmi, stili e strategie culturali.

Pablo Katchadjian (Buenos Aires, 1977) è uno degli autori più coerenti nel suo interrogarsi su che cosa sia una frase e sugli effetti radicali di questa domanda. Autore di testi sperimentali in cui gioca con i classici argentini (Martín Fierro, Borges, per esempio) e di vari romanzi, è ricordato in particolare per essere l’autore di Qué hacer, un autentico tour de force in cui spezza la linearità narrativa tradizionale e, in una sola mossa, rende di nuovo attuale l’eredità del nonsense, dell’assurdo, del tardo surrealismo e del gioco di parole. Nel romanzo, Alberto e il narratore passano continuamente da un luogo a un altro, da un tempo a un altro, con una naturalezza stupefacente che è il risultato di una serie di biforcazioni che si susseguono fino a sfociare in una profonda indagine letteraria interessata alla mutazione come fenomeno estetico. Di tanto in tanto, Alberto e il narratore ritornano alla scena originale – l’aula di un’università inglese – come in un ritornello sempre ricco di sensodell’umorismo. Quella di Katchadjian è una delle più importanti figure degli ultimi anni. Sempre su questo filone, seppur con le dovute sfumature, differenze e divergenze, troviamo anche Emilio Jurado Naón (Buenos Aires, 1989) e il suo primo libro, A rebato, racconti brevi in cui l’humour assurdo e il funzionamento macchinico del testo ci lasciano senza respiro.

Ariana Harwicz (Buenos Aires, 1977, residente in Francia) con solo due romanzi brevi, Matate, amor e La débil mental, è riuscita ad attrarre su di sé, e meritatamente, l’attenzione di pubblico e critica. Scritto come un flusso di coscienza che richiama molto da vicino la tradizione moderna di Virginia Woolf e Nathalie Sarraut, e attraversato da una violenza scatenata davvero poco frequente nella narrativa contemporanea, La débil mental narra di una relazione quasi animalesca tra madre e figlia, di una pulsione sessuale inesauribile, della biografia di un corpo in cui tutto è sepolto. Narrata attraverso tremende quanto brevi scene (madre e figlia in discoteca, con degli uomini, a bere whisky, o a giocare insieme, divertendosi), il romanzo non sfocia mai nel sordido ma, al contrario, sfiora la poesia, ponendo importanti interrogativi sulla condizione umana, sul desiderio, su mandati familiari impossibili. La scrittura della Harwicz è una delle più forti degli ultimi tempi, così intensa da catturarci fin dalle primissime righe. Non esiste un’altra letteratura come la sua nella narrativa argentina contemporanea.

Acuto lettore di Miguel Briante, di Juan José Saer e di Rodolfo Walsh, Hernán Ronsino (Chivilcoy, 1975) è uno dei più validi narratori non solo della sua generazione, ma dell’intera letteratura argentina degli ultimi decenni. I suoi tre romanzi, La descomposición, Glaxo e Lumbre, attraversano e abbandonano un tema e un luogo (un piccolo paese nella provincia di Buenos Aires), gli girano attorno, lo riprendono e lo ampliano, sviluppando al contempo una serie di personaggi che riflettono su ricordi, assenze, conflitti personali e situazioni politiche. L’ultima dittatura militare, la vita in fabbrica, i conflitti generazionali sono tutti temi sviluppati da Ronsino in una narrativa caratterizzata da frasi lente, costruite con la meticolosità di un orafo. Senza dubbio quella di Ronsino è una delle letterature che più a fondo riflettono sul bisogno di memoria e che si domandano fin dove può arrivare la memoria di un paese – un termine da intendersi in entrambe le sue accezioni – che ha fatto della dimenticanza e della mancanza di senso critico i suoi tratti caratteristici. Non sembra che Ronsino stia scrivendo dei romanzi, nel senso di scriverne semplicemente uno e poi un altro ancora: la sua ambizione (peraltro finora completamente realizzata) è quella di creare un’opera. Ha un progetto, ha un suo punto di vista, ha un modo tutto suo di guardare alla letteratura come a un modo per rendere spessore intellettuale e densità letteraria agli interrogativi sul passare del tempo.

Selva Almada (Villa Elisa, 1973) è per molti, incluso il sottoscritto, una delle figure più interessanti – se non la più interessante – della narrativa argentina moderna. Iniziata con un primo libro di racconti edito nel 2005 e una lunga cronaca su gli omicidi di tre donne, pubblicata quest’anno, la sua opera ha indubbiamente raggiunto una posizione di notevole centralità con i suoi romanzi del 2012 e del 2013, El viento que arrasa e Ladrilleros. Con una letteratura esigente e una scrittura sorprendentemente precisa è riuscita a farsi apprezzare al tempo stesso (fatto raro, rarissimo) dalla critica più specialistica e da un vasto pubblico, spesso non interessato da questo genere letterario. I suoi testi riportano in vita una letteratura tipica del Río de la Plata degli anni Cinquanta e Sessanta, influenzata dalla letteratura del sud degli Stati Uniti (scrittori così diversi come Saer e Onetti sarebbero impensabili senza l’influenza di Faulkner). In El viento que arrasa e in Ladrilleros possiamo sentire l’eco di Flannery O’Connor mescolato, in modo davvero innovativo, con la parlata popolare della regione mesopotamica argentina (la zona limitrofa a Brasile e Paraguay) da cui proviene la Almada. Se c’è una cosa che manca nella letteratura di Selva Almada, però, è una seppur minima briciola di costumbrismo, di regionalismo. È piuttosto un incrocio tra un realismo cinematografico e uno squisito volo poetico. Oliverio Coelho (Buenos Aires, 1977), un altro dei migliori scrittori contemporanei, non appena fu pubblicato El viento que arrasa, scrisse un articolo su La Nación in cui affermò che il romanzo era destinato a diventare un classico della letteratura argentina (un’opinione condivisa da molti). Per quanto mi riguarda, anch’io adoro il modo in cui la Almada costruisce i propri personaggi e le situazioni secondarie, i latrati dei cani, le auto che si rompono, le tormente che esplodono all’improvviso, il clima dei suoi romanzi. È un’autentica maestra della narrativa.

Fermiamoci qui un momento, per non perderci in una selva di nomi e per segnalare un altro punto molto importante. Sia i libri di Pablo Katchadjian, sia quelli di Ariana Harwicz, Hernán Ronsino e Selva Almada (salvo Chicas muertas, il suo libro di cronaca) sono stati pubblicati da piccole casi editrici. E non solo loro, ma anche di quelli di molti altri, altrettanto apprezzabili. Si potrebbe dire, senza incorrere in errore, che una buona parte della più interessante narrativa argentina degli ultimi dieci anni è stata pubblicata da piccole case editrici indipendenti. Si potrebbe inoltre affermare che, seppur esistano scrittori davvero talentuosi, è difficile poter parlare di una “nuova letteratura argentina”. Al contrario, sono certo che esista qualcosa che potremmo definire “nuova editoria argentina”. Concedetemi un’altra parentesi per dare una rapida idea del contesto: negli anni Novanta, gli anni del neoliberismo selvaggio, si è verificato un terribile processo di concentrazione editoriale. Le case editrici tradizionali argentine furono acquisite da grandi multinazionali e le piccole case editrici di qualità scomparvero quasi del tutto. Beatriz Viterbo e Paradiso, nate agli inizi degli anni Novanta, e Adriana Hidalgo, nata invece alla fine di quel decennio (e oggi divenuta una casa editrice di medie dimensioni, con forte presenza in tutti i paesi di lingua spagnola) furono in pratica le uniche eccezioni. Dopo la crisi del 2001 e la successiva ripresa economica nacque un ampio gruppo di piccole editrici. L’abbassamento generalizzato dei costi dovuto ai progressi tecnologici, il ricambio generazionale e i notevoli cambiamenti nei profili degli editori (che permisero di abbandonare il paradigma dell’editore come responsabile marketing, un concetto tipico degli anni Novanta, lasciando spazio a una figura colta, coraggiosa e inquieta) non sono certo fattori ininfluenti. Una notevole percentuale di queste case editrici riuscì a conciliare l’alta qualità dei propri cataloghi con un alto livello di professionalità, offrendo così libri ben fatti, ben distribuiti, molto presenti sulla stampa e sugli scaffali delle librerie. Da allora abbiamo avuto almeno due generazioni di piccole case editrici argentine molto note che oggi iniziano a essere presenti anche in Spagna e nel resto dell’America Latina. Entropía, Interzona, Mansalva, Eterna Cadencia, Katz, Caja Negra, Bajo la Luna, La Bestia Equilátera e Mardulce sono solo alcune di esse. Queste case editrici pubblicano autori giovani, ma anche mostri sacri (che sanno che, pubblicando con loro, potranno avere meno pubblicità e meno riconoscimento di quanto ne otterrebbero affidandosi a case editrici multinazionali o comunque di grandi dimensioni) e testi tradotti. Gli autori argentini, inoltre, iniziano ad acquisire fama internazionale senza dover passare per grandi editori, come avveniva un tempo: Lumbre, di Hernán Ronsino, sarà pubblicato l’anno prossimo in Francia da Gallimard, mentre El viento que arrasa, di Selva Almada è stato pubblicato o è in corso di traduzione in francese, tedesco, portoghese, italiano, olandese e svedese. Un’ultima osservazione, questa volta sulle traduzioni spagnole di autori stranieri svolte da queste case editrici. Com’è noto, le traduzioni in spagnolo commissionate dalle grandi case editrici multinazionali sono svolte in Spagna, nella variante peninsulare della lingua spagnola. In Spagna le traduzioni sono svolte anche da eccellenti editori indipendenti, da quelli internazionali (Anagrama, Pre-Textos, ecc.) e da quelli nati più di recente. Alcune traduzioni sono buone, altre discrete, altre pessime, come avviene un po’ ovunque (detesto questo nostro luogo comune che afferma che in Spagna traducono sempre male e in Argentina lo fanno sempre alla perfezione: è una presunzione che, ancora una volta, ci mostra la megalomania della pampa). Com’è risaputo, in Argentina la distribuzione di opere tradotte in spagnolo e pubblicate da case editrici messicane o di altri stati dell’America Latina è piuttosto limitata e non è proprio svolta a regola d’arte: in pratica, se i piccoli editori argentini non esistessero, non disporremmo di traduzioni fatte in Argentina e perderemmo in un colpo solo ricchezza linguistica e diversità bibliografica. Queste piccole case editrici, per via delle loro dimensioni, traducono pochi libri l’anno. Messe insieme, però, ci permettono di godere di una quantità di libri che, se non ci fosse, lascerebbe ai lettori argentini soltanto opere tradotte nello spagnolo peninsulare o nelle sue varianti dell’America Latina, non in quella del Río de la Plata. Pur senza lo Stato (per lo più assente quanto si tratta di sostegno all’editoria indipendente), queste case editrici svolgono anche – oserei anzi dire “soprattutto” – un ruolo politico: permettono, infatti, di creare un dibattito sullo status dello spagnolo parlato in ogni regione e paese, un dibattito che nasce con la formazione degli stati nazionali. Si tratta di una discussione di fondamentale attualità e importanza, che unisce la lingua all’economia e l’estetica con la politica.

Fine di questa lunga parentesi: torniamo alla letteratura argentina di oggi e ai suoi autori. Per il critico Maximiliano Tomas, che nel 2000 ha pubblicato La joven guardia, libro che garantì una maggiore circolazione a molti degli allora giovani autori, La hora de losmonos, di Federico Falco (Cordoba, 1977) «è uno dei migliori libri di racconti pubblicati negli ultimi anni». Mauro Libertella (Messico, 1983, residente fin da piccolo a Buenos Aires) è il figlio del grande scrittore Héctor Libertella. Quello che, al momento, è il suo unico libro, Mi libro enterrado, è una commovente testimonianza della sua relazione col padre, alcolista, malato e ormai defunto, che affida al proprio titolo un notevole gioco di parole, quasi concettuale: Liber-Tella, Liber-Terra, Libro-Enterrado, ovvero sepolto. Leonardo Sabbatella (Buenos Aires, 1986) ha pubblicato due romanzi: El modelo aéreo ed El pez rojo. Sono entrambi eccellenti e si distinguono per una scrittura che richiama una ben determinata tradizione di negatività letteraria (alla Kafka o alla Bartleby). A meno di trent’anni, Sabbatella ha già una propria riconoscibilissima voce. Roque Larraquy (Buenos Aires, 1975) ha scritto La Comemadre e Informe sobre ectoplasma animal in cui, con un gran senso dell’umorismo, ha creato una pseudoscienza che sfocia in una critica forte al positivismo ambientale. Fernanda García Lao (Mendoza, 1966) ha da poco pubblicato il romanzo Fuera de la jaula; tra i suoi libri ricordiamo Cómo usar un cuchillo, che le è valso numerosi riconoscimenti e che si caratterizza per uno stile che unisce tratti di assurdo e ironia mordace. Molto letta in Argentina, ma anche all’estero, dato che i suoi libri sono tradotti in varie lingue, è oggi ormai una scrittrice di riferimento.

Fermiamoci qui, prima che questo articolo diventi una noiosa serie di nomi impossibili da ricordare (sempre che non sia già successo). Sicuramente, senza volerlo non ho citato alcuni libri che meriterebbero invece di essere menzionati: la letteratura è un’attività arbitraria e gli articoli che si propongono di presentare “panorami” letterari lo sono ancora di più. È anche difficile, per non dire impossibile, trovare punti in comune e associazioni tra i libri e gli autori che ho citato. Prima di cercare queste similitudini, magari forzate, preferisco pensare a questi libri come a dei punti di fuga, come a un sistema ormai esploso, formato da evidenti diversità; in fin dei conti, per trovare qualcosa in comune tra loro, bisogna procedere per esclusione. La parte più interessante della narrativa argentina recente si sottrae al realismo grossolano, non sono polizieschi ambientati a Oxford, non riprendono i luoghi comuni dei romanzi su dittatura e desaparecidos, non sono testi predigeriti e very typical pronti a inserirsi nella cosiddetta “letteratura internazionale”, né sono romanzi mainstream che mirano a diventare best-seller ricorrendo a colpi bassi e addentrandosi nel sordido, parlando di povertà, di violenza e della dura vita argentina. No, non sono nulla di tutto ciò. Sono romanzi eterogenei, così eterogenei che spesso è impossibile anche solo pensare di accostarli, che, in un modo o nell’altro, mettono in discussione le convenzioni del passato per interrogarsi da un punto di vista politico su cosa sia una frase, una briciola di follia, una passione per l’eccentricità e un luogo marcatamente laterale sulla mappa della letteratura mondiale.

Pensando ai luoghi sulla mappa, la letteratura argentina recente probabilmente risente dell’influenza della geniale definizione di Héctor Libertella: «Se l’Argentina è un paese periferico nel mondo, il suo scrittore più periferico sarà allora il più centrale in Argentina. È stato molto difficile, per me, sostenere questo paradosso ma… Quanto più si è marginali, più si è centrali!»

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