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Il narratore inattendibile

Adam O’Fallon Price BIGSUR, Editoria, Scrittura Lascia un commento

Humbert Humbert, Mr Stevens, Marlowe… che cos’hanno in comune questi personaggi? Sono tutti narratori inattendibili. Il perché ce lo spiega Adam O’Fallon Price in questo interessante articolo, pubblicato originariamente su The Millions, e qui riprodotto per gentile concessione della testata. 

di Adam O’Fallon Price
traduzione di Maria Cristina Virgilio

Tutte le narrazioni in prima persona sono inattendibili. Più che essere una caratteristica strutturale della narrativa questa è una caratteristica strutturale della condizione umana. Mentiamo a noi stessi, mentiamo agli altri, e anche se vogliamo raccontare la nostra storia in tutta sincerità, non possiamo mai comprenderla a pieno. Il detto recita più o meno così: la prova che siamo narratori inattendibili è il fatto che ognuno è il protagonista della propria storia.

Alcuni generi narrativi, forse, si avvicinano alla piena attendibilità, poiché si preoccupano più di sviluppare la trama che di svelare il carattere dei personaggi; possiamo sostanzialmente essere sicuri che Katniss Everdeen sia attendibile, visto che esiste soprattutto in quanto mezzo per raccontare la storia degli Hunger Games in cui gareggia. Dal punto di vista di Suzanne Collins non avrebbe alcun senso che la sua narratrice alterasse la verità. Questa non vuole essere un’offesa, serve solo a dire che lo scopo di gran parte del genere fantascientifico, del fantasy e dei thriller è sviluppare la trama, non comunicare complessità nascoste della psiche dei protagonisti. Ma all’interno del mondo di ciò che consideriamo fiction letteraria in senso ampio, il personaggio gioca un ruolo fondamentale e la vera attendibilità è impossibile.

A dire il vero, come molti critici hanno sottolineato prima d’ora, la narrazione letteraria davvero attendibile è un tipo di narrazione coerentemente inattendibile. L’esempio principe dei narratori attendibilmente inattendibili è il mostro della dissimulazione di Lolita, Humbert Humbert. Nelle oltre quattrocento pagine del romanzo, Humbert trascina il lettore in un passo a due di odioso fascino, seducendolo e repellendolo di continuo attraverso la sua biografia teatrale di stupro minorile. La lettura di Lolita è di fondo l’atto di decodifica della narrazione di Humbert, una narrazione codificata con la stessa attendibilità del diario che tiene nella stanza degli ospiti di Charlotte Haze. Siamo attratti dal suo linguaggio fino ad arrivare così vicini da essere respinti dall’oggetto di quel linguaggio. E capiamo che, nonostante asserisca di essere una confessione e l’oggetto di uno studio psicologico, il progetto è un atto di autogiustificazione: l’autogiustificazione della pedofilia, non perché in sostanza si simpatizza con lui o per precedenti storici, ma attraverso un progetto più ampio che la vuole rendere più estetica, trasformando l’aggressione in arte. È, alla fine, un atto e un manufatto di egotismo di satanica grandezza.

Mr Stevens di Quel che resta del giorno è un altro archetipo di narratore attendibilmente inattendibile. La perfetta inattendibilità del romanzo funge da equazione che può essere usata per risolvere tutte le dichiarazioni di non-fatti e pietosi inganni di Mr Stevens. Una volta capito che Lord Darlington era un nazista e che Stevens era innamorato di Miss Kenton, sappiamo che, riguardo a quasi tutto ciò che dice di loro, dovremmo credere sia vero il contrario: lui non va in gita in campagna a incontrare per caso Miss Kenton; soprattutto non vuole «parlare in modo scherzoso» con gli altri; non è fiero del suo servizio presso Lord Darlington, che non crede sia un brav’uomo.

Personaggi come Humbert e Mr Stevens concedono al lettore di avere un grado di fiducia e una certezza delle motivazioni che sono per lo più introvabili nel caso dei narratori convenzionali. Dopotutto è facile capire chi mente sempre, come lo è capire chi dice sempre la verità. Meno comprensibili potrebbero risultare narratori come Holden Caulfield che non è, da un punto di vista narratologico, strategicamente inattendibile; cioè, se e quando mente, non lo fa in modo consapevole o per ricavarne qualche vantaggio. Caulfield, come la maggior parte delle persone normali, ha una visione lusinghiera di sé stesso, stupide nozioni su come vivere, pregiudizi privi di fondatezza e così via, ma queste idee non sono disposte in senso di importanza attorno a un principio cardine/tema/punto debole come la pedofilia di Humbert o i rimpianti professionali o romantici di Mr Stevens.

Eppure, ci sono il fratello morto di Holden, e il fatto che la narrazione si rivolge a uno psicologo fantasma. Il lettore, e il romanzo in sé, comprendono che manca qualcosa, anche se Caulfield non se ne accorge, almeno non a pieno. Se la maggior parte delle narrazioni in prima persona non sono strutturalmente ingannevoli come in Lolita o in Quel che resta del giorno, per la maggior parte però sì, incorporano consciamente un elemento di incertezza nel racconto che il narratore fa della storia. Questa incertezza ha un ritmo e un tono che fanno parte dell’esperienza della lettura tanto quanto le tendenze descrittive dell’autore, la sua sintassi e dizione.

In questo senso, paradossalmente, sebbene tutti gli io-narranti siano inattendibili, la maggior parte delle narrazioni in prima persona sono attendibili o forse sarebbe meglio dire intellegibili. Ovvero, i punti deboli e gli inganni del personaggio sono coerenti con gli scopi generali e l’architettura del testo; più che coerenti, ne sono un elemento essenziale.

Ma esiste una categoria rara di libro che sembra fraintendere il suo stesso narratore. O il narratore è inattendibile e il libro stesso non lo capisce, oppure il libro comprende l’inattendibilità del proprio narratore ma si fa un’opinione errata della sua natura.

Un esempio del primo caso è Il grande sonno. Philip Marlowe dovrebbe essere un cronista abbastanza sincero della propria storia; forse un po’ un asociale e tormentato, ma è, più o meno, ciò che sembra: duro, sardonico e meticoloso. Questa meticolosità è spesso spettacolarizzata attraverso la sua incorruttibilità vis-à-vis con le donne, in particolare Carmen Sternwood, che gli si getta addosso per tutto il romanzo senza suscitare alcun effetto. Be’, qualche effetto lo suscita, a dire il vero. Dopo che Carmen si presenta nuda nel suo appartamento, Marlowe riferisce quanto segue: «Sono tornato verso il letto e l’ho guardato. C’era ancora il segno della sua testa sul cuscino, ancora il segno del suo piccolo corpo corrotto sulle lenzuola. Ho poggiato il bicchiere vuoto e ho fatto a pezzi il letto con totale ferocia».

Qui, l’apparente intento di Raymond Chandler – dipingere Marlowe come un uomo riservato, dai forti principi sessuali – manca malamente il bersaglio; eppure, a una lettura superficiale, questa reazione è coerente con l’idea del libro che Marlowe è, sostanzialmente, una persona morigerata. Mettetegli un crocefisso d’oro al collo e sarebbe più riconoscibile come crociato morale, un fratello cristiano che ripulisce Sodoma. Certo, beve un bel po’, e i suoi metodi per combattere il crimine vivono in un mondo d’ombre al di fuori di dove operano le normali forze dell’ordine, ma la sua schiena è dritta come quella di qualunque membro del Rotary Club del Midwest in piedi sul podio. Più che dai soldi o dalla curiosità professionale, Marlowe sembra essere motivato da una specie di disgusto puritano persistente nei confronti del mondo perverso degli Sternwood, di Arthur Geiger ed Eddie Mars. Tra i molti personaggi che fanno venire il voltastomaco a Marlowe: i ricchi, i pornografi e i giocatori d’azzardo.

Ma soprattutto le donne dissolute e i gay. La misoginia e l’omofobia sono il bimotore di disgusto timoroso che alimenta la logica emotiva del romanzo. Nelle scene con Carmen abbiamo la sensazione che il narratore sia meno abituato alle avances femminili di quanto non sia terrorizzato e irritato da loro. Allo stesso modo, i gay sono un gruppo che il romanzo si sforza enormemente di sminuire. «Una checca», dice Marlowe al giovanotto che si prepara ad affrontare «non ha ferro nelle ossa». La casa di una vittima di omicidio ha «il disgustoso, furtivo aspetto di una festa di froci». L’omosessualità nella Los Angeles degli anni Trenta di Chandler, come in gran parte degli Stati Uniti ai tempi, era tabù, verboten. Ma anche per gli standard di quei posti lo squallore spettrale che c’è nella rappresentazione dell’omosessualità nel Grande sonno sembra insolito, accompagnato da un viscerale terrore della generale onnipresenza del vizio, come se Los Angeles fosse un tronco marcio con sotto un tappeto brulicante di larve. Arthur Geiger, un pornografo gay, gestisce una lurida libreria su Santa Monica Boulevard e commercia foto di «tale indescrivibile oscenità» che Marlowe – e l’occhio narrativo – deve distogliere lo sguardo.

Eppure, torna a posare lì lo sguardo ancora e ancora, con una ripulsione incantata che dopo diverse letture sembra meno omofoba e più densa di tensione omoerotica. Più e più volte viene attirato verso casa di Arthur Geiger, il luogo del principale reato che motiva il romanzo, come una falena verso la sua odiata e amata fiamma. Questi movimenti acquistano un significato speciale nell’opera di Chandler, uno scrittore che era famoso perché non gettava le basi delle sue storie in anticipo e che affermava di restare lui stesso confuso davanti alle trame labirintiche dei suoi romanzi. Disegnano una specie di mappa del subconscio narrativo, e nessuna location è più centrale del bungalow di Geiger, con le sue cineserie frou-frou e la camera da letto occupata dal giovane amante segreto dell’uomo. Marlowe torna in questo posto non meno di sette volte, imitando l’impotente attrazione del Grande sonno verso la sua stessa sussunta eccentricità. Su questo punto, Marlowe e la narrativa che tesse sono veramente inattendibili, e Il grande sonno si legge più che mai come il diario di un gay che resta ignaro della propria sessualità a tutti i costi.

Un esempio diverso di inattendibile inattendibilità forse si può trovare nell’Uomo che andava al cinema di Walker Percy. Il libro è fortemente consapevole della stranezza del suo narratore Binx Bolling. Binx, un mediatore di borsa di New Orleans, è un flâneur e artista nel profondo, un asociale sognatore che passa le giornate al cinema, e veniamo a sapere che è preda di una specie di disperazione nonostante professi di amare lo stile di vita semplice americano. Ma il romanzo stesso si fa un’opinione errata del proprio protagonista. Secondo me, Binx gongola, si crogiola in una versione artificiale di tedio artistico e instabilità emotiva incarnati in modo autentico da Kate, sua cugina bipolare con tendenze suicide. Nelle sue abitudini, Binx è un uomo bianco privilegiato abbastanza normale, figlio dei suoi tempi, a cui piace fare i soldi, che amichevolmente molesta una serie di sue segretarie perché vadano a letto con lui, che pretende di sedersi comodamente nella posizione di vantaggio dell’ordine sociale. Eppure, vuole anche sentirsi speciale, fuori dal mondo ma parte di esso, quindi si autoafferma come un cercatore grazie a oscure farneticazioni sulla Ricerca [1] e una conseguente gamma di piccole e pacchiane routine mentali. Fa pienamente parte della società normale mentre la disprezza; nessun episodio del libro illustra meglio il carattere inconscio di Binx della storia di come è diventato membro di una confraternita, in cui insulta in modo noncurante un altro aspirante membro per affermarsi come parte del circolo interno, per poi passare quattro anni a bere birra da solo sul porticato mentre giudica in silenzio i suoi confratelli come scemi. Il libro termina con lui che va a letto con la sua instabile e vulnerabile cugina, che sposa e con cui sostiene di aver trovato una specie di compiacente, co-dipendente felicità.

L’epigrafe del libro di Kierkegaard, «La qualità specifica della disperazione è la seguente: non sa di essere disperazione», potrebbe essere modificata per Binx: «La qualità specifica di un coglione è la seguente: non sa di essere un coglione». Né, così pare, lo sa L’uomo che andava al cinema o almeno non come dovrebbe. La narrazione di Binx è veramente inattendibile, inattendibilmente inattendibile, visto che la storia che lui occupa fraintende lui tanto quanto lui fraintende sé stesso. Il lettore deve decodificare non solo le percezioni sbagliate di Binx, ma anche le percezioni sbagliate di una narrativa che non ha il completo controllo del suo narratore.

In questo senso, i romanzi inattendibilmente inattendibili possono rappresentare la più grande sfida come il più grande divertimento in quanto esperienza di lettura attiva. Gli scrittori come Kazuo Ishiguro creano testi che sono rompicapo gratificanti, un tipo di escape room con tanto di curatore che lettori attenti devono esplorare e di cui devono risolvere gli indovinelli. Le narrazioni più normali, meno strutturalmente inattendibili, assomigliano più alle storie di detective, dove il lettore ricopre il ruolo del poliziotto investigativo che deve mettere insieme gli indizi del vero io del narratore: l’io come un mistero che non viene mai risolto a pieno o definitivamente. Ma libri come Il grande sonno e L’uomo che andava al cinema sono più come mappe fallate di lande desolate in cui chi legge si trova abbandonato. Dovete trovare la vostra strada, interpretando il clima, il vento e la direzione, tracciando il vostro tragitto malgrado – sfidando? – il libro.

 

[1] La Ricerca di cui Binx si definisce adepto è «quella che ognuno intraprenderebbe se non venisse soffocato dal trantran della propria via quotidiana». Da L’uomo che andava al cinema, traduzione di Eileen Romano, Marcos y Marcos. [n.d.t.]

 

© Adam O’Fallon Price, 2018. Tutti i diritti riservati

 

Adam O’Fallon Price scrive per The Millions ed è autore di due romanzi,The Grand Tour (Doubleday 2016) e The Hotel Neversink (Tin House Books, 2019). I suoi racconti sono stati pubblicati su The Paris Review, VICE, The Iowa Review e in molte altre riviste. Il suo podcast,Fan’s Notes, ospita continue disquisizioni sui libri e sul basket. Potete seguirlo online a adamofallonprice.com and su Twitter a @AdamOPrice.

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