Graywolf Press

Come la minuscola Graywolf Press è diventata un pezzo grosso dell’editoria

Boris Kachka BIGSUR, Editoria

Un approfondimento sulla casa editrice indipendente americana Graywolf Press. L’articolo è apparso originariamente su Vulture. Ringraziamo l’autore e la testata.

di Boris Kachka
traduzione di Davide Trovò

Prima di vincere svariati premi e scrivere un libro entrato nella top ten 2014 del Times Book Review, la giovane poetessa Eula Biss aveva cercato di vendere una raccolta di saggi ad alcune grandi case editrici. «Volevano spingerla verso uno stile più polemico», spiega Matt McGowan, suo agente letterario. Biss non ha accettato di cambiare l’approccio lirico e pacato, così non se ne è fatto nulla. Poi si è aggiudicata un premio di pubblicazione dalla Graywolf Press, casa editrice non profit di St. Paul, nel Minnesota. Quando il libro che ne è risultato, Notes from No Man’s Land, ha vinto il National Book Critics Circle Award, sono stati gli editori a corteggiare lei. «Non avrei avuto difficoltà a vendere Vaccini, virus e altre immunità a un prezzo maggiore», afferma McGowan, riferendosi al secondo volume di Eula Biss. Invece: «Ho fatto promettere mari e monti a Graywolf per star certo che ne facesse un successo». E così è andata: lo studio sulla vaccinazione di Biss ha riscontrato ampio consenso, ottime vendite, e le è valso un’altra chiamata da un editore commerciale, stavolta un’offerta a sei cifre per un’edizione tascabile. McGowan ha rifiutato: «Perché cambiare una squadra vincente?»

E Graywolf vince da un pezzo. Negli ultimi anni, intanto che i conglomerati editoriali si fondevano, ristrutturavano o lottavano contro Amazon, una casa editrice del Midwest si è fatta strada grazie a un nuovo concetto di saggistica. The Empathy Exams di Leslie Jamison è entrato all’undicesimo posto nella classifica dei bestseller del Times, mentre Citizen di Claudia Rankine, una meditazione sul razzismo scritta per metà in versi, ha scosso l’America del dopo-Ferguson. I due volumi hanno venduto più di 60.000 copie ciascuno, diventando così tra i cinque bestseller assoluti di Graywolf. Citizen, giunto alla decima ristampa, sfiora adesso le 100.000 copie stampate. Detto ciò, Graywolf non è senz’altro all’altezza di Penguin Random House, ma non è neanche un editorucolo che vuole fare il passo più lungo della gamba. È un editorucolo che ha guidato – e in un certo senso generato – una rivoluzione nella saggistica, trasformando il «saggio lirico» da genere poco invitante in grande forza culturale.

La definizione saggio lirico si è diffusa negli anni Novanta grazie allo scrittore John D’Agata (autore Graywolf) per descrivere una saggistica in cui si fondono versi, memoir e critica. Ma le origini di quest’ibrido risalgono quanto meno a Susan Sontag e Joan Didion, critiche-giornaliste la cui opera è di un’intimità magnetica. Oggi, in risposta alla modernissima esigenza di dibattiti sociali ben formulati e radicati nell’identità e nell’esperienza, la progenie del saggio lirico è più varia e diretta. Si tratta di una nicchia in rapida espansione, in cui Ta-Nehisi Coates e Roxane Gay possono trasformare dolorose confessioni in stimoli potenti, mentre – in maniera diversa – Karl Ove Knausgård e Sheila Heti possono trarre affermazioni universali da racconti personali. Su questo terreno mutevole, i poeti-critici di Graywolf non sono secondi a nessuno.

L’esaltante 2014 della casa editrice non è stato un colpo di fortuna, ma un coronamento (e quest’anno Graywolf continua a puntare sul saggio lirico con The Argonauts di Maggie Nelson, decostruzione tanto del gender quanto del genere). Nonostante Graywolf pubblichi poco più di 30 libri all’anno, i suoi autori hanno vinto quattro National Book Critics Circle Award, un National Book Award, due Pulitzer e un Nobel, il tutto negli ultimi sei anni. Nel 2015, per la prima volta, supererà i 2 milioni di dollari di fatturato. Nessun altro editore indipendente – men che meno uno attivo da 41 anni e senza scopo di lucro – è arrivato a tanto in così poco. Non è stato un caso.

«Secondo me successo significa poter dire di sì a qualcosa che non ha per forza l’aria di un trionfo commerciale», spiega davanti a yogurt e decaffeinato Fiona McCrae, editrice di Graywolf dal 1994, in una delle sue visite mensili a New York. «Sapere che una cosa è buona e dover dire di no a me sembra il peggior fallimento». McCrae, un’affabile inglese occhialuta, ha esordito nella leggendaria Faber & Faber di Londra, per poi trasferirsi nella piccola succursale americana di Boston. Tre anni dopo è venuta a sapere che il fondatore di Graywolf stava per dimettersi.

Scott Walker aveva cominciato nel 1974 a Port Townsend, nello stato di Washington, rilegando a mano chapbook di poesia. Mentre scovava poeti quali Tess Gallagher e Jane Kenyon, Walker ha fatto di Graywolf Press una non profit e si è trasferito nelle «Twin Cities» Minneapolis-St. Paul, culla di una rigogliosa base filantropica che finanzia anche gli editori non profit Milkweed e Coffee House. Ma, negli anni Novanta, Graywolf ha subito un duro colpo commerciale; Walker si è dimesso, e il consiglio ha infine assunto McCrae. Lei, a quei tempi, non aveva alcuna esperienza di non profit ed era indignata dalla compiacenza che le contraddistingue, il che forse è stato un bene per Graywolf. «Ci dev’essere un modo per valorizzare al massimo Graywolf», dice McCrae, «ma non sono certo gli altri piccoli editori il metro di confronto, su! Meglio dirsi “Tra quelli delle nostre dimensioni, siamo i più seguiti, va bene così”, oppure “Dove possiamo arrivare”?»

Nel 1999 McCrae ha ottenuto una sovvenzione di un milione di dollari, con la promessa di portare Graywolf «un gradino più in alto». Un paio d’anni dopo hanno raccolto un altro milione, grazie a un piano finanziario dettagliato: un sussidio alla traduzione, un fondo per aumentare l’anticipo agli autori, una quota destinata ai viaggi alle fiere del libro internazionali, un avamposto a New York, un «consiglio nazionale» per la raccolta fondi e il Literary Nonfiction Prize, che avrebbe poi lanciato Biss e Jamison. Altrettanto importante è che Graywolf abbia cambiato distributore, passando al prestigioso Farrar, Straus and Giroux. «È stato un segnale», sostiene Jeff Shotts, executive editor di Graywolf. «I nostri libri adesso si trovano spalla a spalla con Seamus Heaney».

Graywolf ha raggiunto i suoi obiettivi di raccolta fondi e, proprio quando McCrae cominciava a spazientirsi – «Ricordo che pensavo: dov’è il grande libro?» – le iniziative di Graywolf hanno dato frutto: il bestseller di Per Petterson del 2007 Fuori a rubar cavalli. Acquistato e pubblicizzato attraverso i nuovi contatti globali di Graywolf, inserito nei cataloghi di Farrar, Straus and Giroux a fianco di giganti, e consegnato a mano in occasione di una visita al New York Times, il romanzo norvegese ha vinto l’IMPAC Dublin Award, si è guadagnato una copertina del Times Book Review e ha venduto 70.000 copie in edizione rilegata. Da allora Petterson ha rifiutato le offerte dei grandi editori per restare con Graywolf.

McCrae ammette di aver sborsato più del solito per tenersi stretto l’autore, ma è anche grazie a Petterson se in dieci anni gli anticipi sono quasi raddoppiati (così come la produzione annuale). Adesso a Graywolf capita di pagare un libro 25.000 dollari: non è un granché, a meno che non si tratti dell’opera di un giovane scrittore che sfugge alle categorie convenzionali. Ed è proprio nelle spaccature tra storia, memoir, poesia e critica che, negli ultimi tempi, Graywolf è fiorita. Quando il National Book Critics Circle ha candidato Citizen sia al premio per la poesia sia a quello per la saggistica – non riuscendo a stabilirne la pertinenza – «è stato divertente assistere al dibattito», riferisce Jeffrey Lependorf, direttore del Council of Literary Magazines and Presses. Ma per una casa editrice più grande, «è un problema che avrebbe potuto spingere il settore commerciale a decretare la rovina del libro».

Gli ibridi saggistici di Graywolf non solo sfidano le categorie editoriali, ma offrono anche prospettive su questioni quali razza (Citizen) e gender (The Argonauts) più sfumate e raffinate di quanto piaccia ad altri editori. Riassumerli in un tweet è difficile, eppure Graywolf sfrutta il social network con ottimi risultati: ha più del doppio di follower rispetto a FSG e quasi quanti Knopf, che è sei volte più grande. È un vantaggio considerevole per una casa editrice con un surplus di voci distintive ma disponibilità finanziarie ridotte. «Lo spazio virtuale non si paga», dice McCrae. «In questo senso è democratico».

La più strana fonte di pubblicità gratuita per la casa editrice è stata lavorare all’esordio in poesia del poliedrico James Franco. L’anno scorso la discussa celebrità ha menzionato Graywolf al talk show di Jimmy Fallon mentre promuoveva la raccolta Directing Herbert White, il cui titolo è un omaggio alla poesia di Frank Bidart che lo stesso Franco ha trasposto in un cortometraggio. È stato Bidart a portare l’opera di Franco all’attenzione di Graywolf. «Certo, era un rischio, come ogni esordio poetico», spiega Shotts, editor di Franco, «e per giunta scritto da uno che è sotto i riflettori. Graywolf l’ha pubblicato con una certa perspicacia. È stata l’occasione per raggiungere lettori che di solito non si avvicinano alla poesia». E si affretta ad aggiungere che Franco ha avuto un anticipo standard e che non ha mai fatto donazioni alla casa editrice.

Fatta eccezione per la celebrità-poeta, Graywolf le tendenze o le lancia o le evita. «È chiaro che devono tenere d’occhio i trend, ma possono anche permettersi di essere un po’ più avventurosi», dice Rick Simonson, addetto agli acquisti della Elliott Bay Books di Seattle. «Ho visto case editrici più grandi tuffarsi a capofitto in qualcosa per poi tirarsene fuori. Se da New York cercassero di vendermi una raccolta di saggi, direbbero: “So che i saggi sono difficili da vendere”». Adesso che Graywolf i saggi li vende, altri ne seguono la scia. Little, Brown, solo due mesi dopo l’uscita di The Empathy Exams, gli ha soffiato Leslie Jamison con un anticipo a sette cifre.

«Crediamo sia una perdita inevitabile», commenta McCrae circa la defezione di Jamison, «ma mettersi tra un autore e un’offerta consistente non fa parte del nostro lavoro». Graywolf, a volte, riesce a competere con editori di New York, ma non può sopravvivere attingendo da un’unica fonte, che si tratti di uno scrittore-rivelazione o di un intero sottogenere di saggistica. «È come una fontana», dice McCrae, mimando con le braccia. «Lanci il libro e lui schizza subito in alto, ma poi ricade, e torni a investire. Gli ultimi cinque anni sono andati così, ma adesso che succede? C’è qualcosa di nuovo. Ad esempio The Wake».

The Wake, di Paul Kingsnorth, è un romanzo sull’invasione normanna del 1066, scritto in una versione alterata dell’inglese antico che richiede un po’ per farci l’abitudine. All’inizio il libro è impenetrabile, poi diventa coinvolgente, e si chiude con una stretta al cuore. Pubblicato in Inghilterra tramite una piattaforma di crowdfunding, è stato definito «un trionfo letterario» dal Guardian e osannato da Geoff Dyer ed Eleanor Catton. Ethan Nosowksy, editor di Graywolf, l’ha rincorso senza pace. Il Times Book Review sta per pubblicarne una recensione entusiastica.

«Il bello di Graywolf», secondo Nosowksy, «è che i titoli che non sembrerebbero avere grandi prospettive commerciali diventano poi i nostri maggiori successi. Con The Wake è andata così. Mi immagino di attraversare l’atrio di una grande casa editrice per proporlo al capo, con la paura di fargli credere che ho perso le rotelle. Ma non avevo dubbi che Fiona ne sarebbe stata entusiasta. È il nostro titolo di punta per l’autunno. Ed è molto Graywolf».

© Boris Kachka, 2015. Tutti i diritti riservati.

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