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Paradiso, un assaggio

José Lezama Lima Autori, José Lezama Lima, SUR Lascia un commento

Pubblichiamo oggi un estratto da Paradiso, il capolavoro dello scrittore cubano José Lezama Lima che con una prosa barocca e surrealista racconta la vita e la formazione del poeta José Cemí Olaya e rappresenta al tempo stesso il culmine della riflessione poetica dell’autore. Buona lettura!

di José Lezama Lima
traduzione di Glauco Felici

 

José Cemí era uscito di scuola portando con sé un lungo gessetto, il gessetto conservava tutta la propria lunghezza, se vi si fosse appoggiato l’avrebbe spezzato, a causa di quell’assorta distrazione, tipica dei suoi dieci anni. La noia delle ore di scuola spiegava perché all’uscita cercasse appoggio, distrazione. Quel giorno lo aveva trovato grazie al gessetto. La scuola posta al centro dell’accampamento aveva sul retro un lungo prato, e sulla destra un muro che mostrava la sua calce sporca e la costolatura di mattoni allo scoperto, come se il tempo l’avesse strofinato con una pelle scamosciata mescolando sabbia, limone e lisciva. Si era avvicinato al muro cercando compagnia. Ma fu quella compagnia che seguiva solo sé stessa, pietra su pietra, pensiero su pensiero, irriproducibili. Il suo cammino procedeva in quel momento come il muro, passi dopo passi sommati, come sommati mattoni che ci davano l’altezza del muro. Mentre il cemento del muro sembrava pantano molliccio, mostrando lunghe strisce della propria pelle, il mattone ricotto dal diretto raggio zenitale, si adattava come le chiazze che formano il tronco del platano.

Alla fine, appoggiò il gessetto come se chiacchierasse con il muro. Il gessetto cominciò a emanare il bianco, che l’obbligata violenza del sole riempiva di rilievo e di eccezione in rapporto agli altri colori. Arrivava ormai il prolungato gessetto alla fine del muro, quando la personalità fino a quel momento indiscussa del gessetto fu sostituita da una mano che lo teneva e lo stringeva esageratamente, come se temesse che la sua distrazione finisse per sfuggir via, poiché quella mano cominciava a pretendere obblighi, come se la mano richiedesse il corpo di una preda catturata.

Se il gessetto era stato sostituito da un’altra mano, lui aveva dovuto mettere al posto del muro, il corpo; se ne accorse molto lentamente e ormai lo teneva per il braccio. Non se ne sarebbe accorto fino all’estinzione di quell’interposta avventura. Dietro il muro si nascondeva una casa dal grande cortile circolare, che mostrava le semplici camere occupate da una povertà soddisfatta.

Si trascinò fino al centro del cortile, mentre quel corpo cominciava a vociferare. Un gridio tanto torrenziale contribuiva a mantenere l’indistinzione della persona che lo aveva spostato fin lì. Sembrava a Cemí un vortice di voci e colori, come se il muro fosse crollato e immediatamente si fosse ricostituito in un cortile circolare. Poté appena osservare la ristrettezza della porta d’ingresso in rapporto alla dimensione ingrandita del cortile riverberante di coperte, di grani odorosi, di sfavillii indecifrabili di inutili metalli, di sudori diversi di pelli straniere, di disperse risate di criollos sventati, che distribuivano incoscientemente, come arte dissipata, corpo e ombra.

«È lui, è lui», diceva il corpo schiarendosi, in un’ingurgitazione murata, come se gli occhi stessero per scoppiargli nell’ampolla del suo mondo di brume. «È lui», continuava, «che scarabocchia il muro». «È lui», diceva mentendo, «che tira i sassi alla tartaruga che sta sul muro e che ci serve per segnare le ore, perché si muove solo per cercare l’ombra. Lui ci ha lasciati senza ora e ha scritto sul muro cose che sconvolgono gli anziani nei loro rapporti con i giovani». Cemí, dopo avere sommato quella sfilza di costernazioni, era istupidito. Non andava a sbattere contro il vetro della sua ampolla, come l’urlante, ma aveva abbandonato la propria realtà e navigava. Il vicinato abbandonava le sue camerette per andare a vedere il discolo e l’urlante. Dopo averlo visto al centro del cortile, non sapevano che cosa fare, sconvolto il lavoro che avevano iniziato e cinte le spirali dell’ozio. L’arrochito continuava e Cemí aveva ormai lasciato cadere le proprie braccia, cominciando a passare nella noia. Gli stessi abitanti del luogo cominciavano a fare giravolte, formando coppie e alzando il sussurro. Comparse e comprimari non sollevavano gli occhi. Le urla non interessanti seppellivano i loro propri echi.

Mamita, silenziosa come la sua piccolezza, attraversò il cortile, guardò l’urlante e così sciorinò: «Stupido, idiota urlatore, non ti sei accorto che è il figlio del Colonnello?» Prese Cemí, lo portò in camera sua, mentre il vicinato riconosceva il bambino, che trascinato da Mamita, assumeva adesso il suo primo piano. L’urlante, ingurgitando, si sprofondò così tanto sotto la superficie, che ormai non aveva più faccia, e i piedi che si prolungavano sotto un’incessante rifrazione, finivano per poggiarsi su banchi di sabbia.

Mamita aveva tirato su Trinidad, Vivino, Tranquilino e l’ordinanza. Quei nomi si erano contratti per semplicità ed erano Truni, Tránquilo e Vivo. La chiamavano Mamita perché era la Nonna. Non si parlava mai dei loro genitori, si erano dissolti in un chiaroscuro familiare. Mamita era la vecchia rinsecchita, piccola, lieve, filatrice sempre desta, parlava poco, come se nel parlare le si interrompesse il respiro. La sua carne era la sua bontà. La sua fedeltà lontana era il Colonnello. Da lontano lo seguiva, lo curava con orazioni e rosari. Sapeva che la sua casa e i suoi nipoti dipendevano da lui. Nel 1910 si era strappata da Sancti Spiritus. Bisognava far entrare i nipoti nell’esercito. L’ordinanza Morla, chiacchierone e falso, aveva il posto assicurato. Tránquilo, che aveva domato puledri, bisognava metterlo nel Permanente. Vivo era pigro e sempre pronto a scappare. Il suo operato acquistava sempre il risalto di una fuga. Truni, per metà domestica e per metà ragazza di compagnia, aveva sempre a che fare con qualche fidanzato. Avrebbe sposato Zoar lo spagnolo, ordinanza in seconda. Mamita scivolava via tra tutte quelle figure forti, dissimulatrici, astute, con accenti di silenzio e di bontà. Quando quei contadini, che il Colonnello avrebbe incasellato nell’esercito, parlavano dei loro signori, Mamita senza odiarli, taceva per fare più grande la propria fedeltà. In quegli anni sembrava già che stesse per andarsene, che sarebbe morta molto presto. È sempre quella persona indecisa, cagionevole, che quando la conosciamo deve morire tre anni dopo. Così si raggomitola nel ricordo, tra il suo penare e il suo dileguarsi. La sua vecchiaia era come un’ulteriore forma di giovinezza, più acuta verso la trasparenza, la leggerezza. Saltava dal sonno alla vita quotidiana senza stabilire differenze, come se si allontanasse da sola, camminando sulle acque.

Le casupole nella vicinanza con la rissosa casa del Vedado, danno luogo a una povertà da vorrei ma non posso, abbondante il rattoppo si fa finimento e si ramifica in una cravatta Zulka, regalo del padrone in vena di moine alla zia pasticciera. Juan Cazar, pompiere in pensione, ebanista dal truciolo zenzero, ha imeneo legalizzato con Petronila, e sua figlia Nila, che promette una sfilza di bocciature nell’ammissione alle superiori. Il caseggiato si appiattisce in un avvallamento, e la latta grande di conserva si afferra al corto legno del tetto. Il cartone grande di una cappelliera strizza l’occhio al sorriso di una porta d’un vecchio giallo crema. Il letto a due piazze, con una stampa acquosa, che la vedova regalò a Petronila, che va tutti i pomeriggi verso il casermone per imbastire o scucire un vestito con le paillette, incassata in un dagherrotipo. Cazar è cieco e Petronila ingrassa per debolezza cardiaca. A sinistra del lettone, il pianoforte di Nila, dà serietà a genuflessioni culturali e rinchiude le maledizioni allo schiudersi della siesta. Dall’altra parte, la cecità di Cazar traccia labirinti sull’appena giunta scrivania dalla cortina pieghevole. Minuta scintilla in mezzo a quelle pesantezze il canarino sfugge alle imbastiture e alla cecità. Ai piedi del grande letto, una tendina cela la branda pieghevole dove Nila mette a dormire le sue pagelle. Di notte Petronila fiorisce per il caseggiato con bisbigli e pitagorismi antillani. Quando torna nel suo cofanetto, ricopre con sabbiolina di monte lieve il verticalizzato scheletro di un pesce. Verso l’alba, i quattro mulatti più vecchi del caseggiato si affannano a sfoderare la fauna cabalistica. I quattro venerabili si ritirano in un altezzoso cerimoniale.

Nella stanzetta vicina, l’austriaca Sofia Kuller, detta La potente per il suo rancore verso la promiscuità, vezzeggia per quanto lo consente la sua povertà il figlio caricaturista da caffè, Adalberto Kuller. La toracica Sofia, nei suoi trent’anni viennesi si dilatava nelle grosse sottigliezze di Strauss, e aveva vinto il baule gotico con la floreale targhetta recante le iniziali del suo futuro, il Capitano, durante una rappresentazione domenicale del Rosenkavalier. Dall’altopiano del suo sdegno di vedova sminuita, non rivolgeva né riceveva parola con il vicinato. Il suo disprezzo e i suoi eccessi imbellettati, le avevano procurato rispetto fantasmale. Durante il giorno, suo figlio rinchiuso con lei, ripassava gli studi interrotti a causa dell’enigmatico crollo di Vienna. La sera, usciva con una cassetta piatta, piena di chiocciole dai colori assai diversi. Al tavolino dei caffè notturni, si avvicinava con fredda cortesia, riproducendo con il colore delle sue chiocciole i volti delle oziose. Stava seduto a un tavolino dove si esercitava, quando ormai passata la mezzanotte si ritirarono i chiacchieroni, finì per rimanere terribilmente di fronte a un’erotomane stagionata. Dopo che il volto di lei fu riprodotto sul tavolino, si guardarono in lunghe pause di dono insoddisfatto e di carnalità dalla progressione sinfonica. Lo invitò nel suo appartamento laccato e con erotica ghiacceria d’acqua minerale. Come quei pesci di buone dimensioni in cui la piccolezza delle pinne non ha nessuna relazione con la massa liquida spostata, la stagionata cercava di fissare i centri d’orbita nell’accerchiamento del giovinetto austriaco. Fingeva egli respiri e movimenti interrotti di dissimulata frigidità; sprofondava poi la mano nella tasca interna della giacca, estraendo un’accartocciata fotografia viennese. E mentre offriva con invisibile determinatezza all’europea i suoi falsi respiri, si estasiava per gli alamari orientali di suo padre e per l’erudita, squisitamente imbellettata pelle del volto della cantante.

Rastrellarono saltelli nella stanza accanto, e i rumori dello spostamento del leggio dagli angoli spigolosi al centro della camera. Martincillo, il flautista, metteva alle undici del mattino sul leggio: Come imparare a suonare l’ottavino senza rovinarsi le labbra. Discuteva fino a stonare il trillo, se il re era stato fortunato o disarmonico a non voler suonare il flauto davanti a Johann Sebastian Bach. Solo con due o tre aveva potuto discutere quelle segregazioni dialettiche dei suoi gusti, ma solo quelli erano suoi amici. Lo chiamavano Il flautista o La monaca, poiché l’immaginazione di quei vicini affibbiava nomignoli sull’onda di somiglianze e di evidenti preferenze. I suoi biondi amichetti, più sospirosamente arguti, lo chiamavano La margherita tibetana, poiché in un’ostentazione di bontà aggrovigliava il suo affanno filisteo di stare a contatto di gomito con scrittori e artisti. Era di un pallore da vermicaio, allampanato e di raddoppiato sculettio nel sentire il vento sul giunco contorto della sua pancetta. Succhiava una buccia con simulata semplicità teosofica e poi conservava innumerevoli fotografie di quella rinuncia. Ma coloro che lo avevano visto mangiare, senza i fronzoli teosofici, si stupivano per la grande quantità di cibo che riusciva a trangugiare, e gli rimaneva lungo la sua leporina lunghezza una protuberanza, simile al rigonfiamento di uno degli anelli del serpente quando disossa un capretto. Quando con pause e occhi strabuzzati parlottava con uno di quegli scrittori che voleva conquistare, rabbrividendo a bella posta gli prendeva la mano per avere una prova o un segnale della sua simpatia per le usanze greche. Se la mossa veniva accettata diceva: «Io le voglio bene come a un fratello». Ma se temeva che il suo abituale raccolto manuale provocasse commenti e rifiuti, si atteggiava a uomo d’infinito comprensivo e di radice priva del suo incarnarsi. Ma era maligno e pigro, e i genitori, che lo conoscevano fino alla nausea, lo cacciavano fuori di casa. Allora si rifugiava a casa di uno scultore polinesico, che ogni cinque mesi tornava per vendere – erano sculture di un simbolico surrealismo confidenziale, che nascondevano le varianti di cerchi e spine falliche dei tessitori della Nuova Guinea – a una coppia di nordamericani, immancabili manichini spettatori di conciliaboli tediosi, proprietari di una vaccheria modello e dei relativi derivati dello sterco chimico. Durante quelle riunioni, Martincillo, scostando le chiome con studiata innocenza, cercava di piazzare due o tre sudate citazioni, dicendo che Plutarco sostiene che Alcibiade aveva imparato a suonare l’arpa e non il flauto, perché temeva che gli si deformassero le labbra, e che perciò, vendetta propiziata da Apollo, suonatore di quello a sette canne, il giorno prima della morte aveva sognato che gli imbellettavano la faccia come a una donna. Martincillo era tanto preraffaellita e femminile, che perfino le sue citazioni sembravano avere le unghie dipinte. Una sera era a casa dello scultore, che gli mostrava alcuni rocchetti churingas, quando cominciò a piovere con lampi da tropico. A un tratto, il polinesico, turbato dai propri desideri, cominciò a danzare tra convulsioni e spasimi, e i suoi capelli si trasformavano in stoppa fosforescente. Punto forse dallo zolfo lontano di uno di quei lampi, gli schizzò fuori dal corpo un lombrico, che come una scheggia si incastrò nella sofficità del preraffaellita astratto. Al mattino, Martincillo, incurabile, con una pinza tentava di estrarre il possessivo lombrico.

L’altra camera sembrava che tremasse ogni volta che l’epilettico fratello della cuarterona Lupita, entrava nei diciassette svenimenti o mancamenti quotidiani. Andava da un angolo al letto, temendo di essere colto da uno svenimento, o di fronte alla colazione aumentava il suo ondeggiare cadendo sulla coperta. Lupita ogni luna quindicinale andava a trovare un giapponese a ramages che a Bejucal era proprietario del negozio Il trionfo della peonia. Lupa di fronte all’intoccabile serenità del sensuale lunatico, stendeva una stuoia, senza causare il minimo rumore, poiché il galante taoista diceva «che lo disturbava il tintinno della giada». Si distendeva sulla stuoia, con la fronte sul freddo delle piastrelle, mentre Lupita accanto a lui, inginocchiata, gli accarezzava innumerevoli volte la schiena. Dava il giapponese galante tre o quattro colpi con il capo sul pavimento, e poi come un lottatore di judo spiccava un balzo. E così aveva sistemato il venerabile calante di quella quindicina.

Accanto, c’erano Mamita e Vivo. Parlavano assai poco e sempre con una certa tenerezza. Di notte, i passi decisi di Vivo, fornivano al vicinato la coincidenza delle lancette dell’orologio. Vivo, essenzialmente forte, era diventato amico del caricaturista austriaco, che era essenzialmente delicato. Infatti in quella frammentata confusione che crea la povertà, si vede sempre il povero forte e padrone maestoso della propria povertà rivelare una devozione misteriosa nei confronti di chi considera delicato senza leziosaggini. Mamita e la vedova austriaca non si parlavano, ma ognuna citava l’altra come modello in quell’ambiente. Erano usciti quella sera Vivo e Adalberto e se la ridevano di Martincillo, che entrambi disprezzavano, perché lo sapevano falso delicato e falso naturale. Il flautista aveva provato a conquistarseli flauteggiando all’alba e al crepuscolo, credendo che fosse l’ora di migliore ascolto per i due. Ma Vivo aveva mattine di sonno protratto, poiché doveva fare guardie notturne, e l’austriaco, al primo crepuscolo, ripassava gli interrotti studi ginnasiali. Si misero d’accordo per disegnare ed esporre un’iscrizione che facesse allusione alle segrete gallerie di mosaici pompeiani. Il polso lineare dell’austriaco e l’artificio astuto e guajiro di Vivo, si intrecciavano nell’elaborazione di quel mosaico che avrebbe fatto sussultare i vicini. Una mattina, la porta del flautista dava scandalo per via di un cilindro e due rotelle. E sotto si leggeva questa enigmatica iscrizione egizia: Metti le mani sulla colonna di Luxor / e la sua base su due ovoidi. / Metti le mani sulla lunga verga di mandorlo / dove ci sono due campane.

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