testata shaft tra gli ebrei

«Shaft tra gli ebrei», un estratto

Ernest Tidyman Autori, BIGSUR

Un estratto da Shaft tra gli ebrei, il secondo episodio della saga che ha come protagonista il detective privato più irriverente di New York. John Shaft è appena rientrato da un meritato viaggio di riposo sulle spiagge della Giamaica e si prepara ad affrontare l’inverno tra le braccia della biondissima Amy, quando l’imprevisto torna a bussare alla porta. Buona lettura!

di Ernest Tidyman
traduzione di Ettore Capriolo

Be’, fanculo, pensò Shaft, spingendo via la nuova poltrona di cuoio nero. Ne aveva fin sopra i capelli dell’ufficio. E in fondo era lì solo da tre minuti, il tempo di aprire la porta e raccogliere la posta accumulata sul pavimento. A un certo punto, nel pomeriggio, avrebbe dovuto telefonarle in ufficio per dirle che era tornato, che potevano cenare insieme, oppure correre immediatamente a letto o alla più vicina zona isolata per iniziare a rifarsi delle sue tre settimane d’assenza.

Ma non ne aveva voglia. Si sentiva vittima di uno scherzo volgare. Il signor Cenerentola, o come diavolo si chiamava, gli aveva mostrato degli schizzi e aveva cinguettato qualcosa sui colori, ma Shaft non gli aveva dato ascolto, forse per la fretta di lasciare la città o forse perché segretamente irritato per aver permesso che un aspetto del suo stile di vita venisse sottoposto al comando di una persona esterna.

Shaft raccolse l’impermeabile dal davanzale dove lo aveva gettato in un cupo atto di sfida contro quegli attaccapanni da parete in porcellana bianca, e mentre spingeva con difficoltà la lana del blazer blu contro il rivestimento in tessuto, pensò che i rivestimenti degli impermeabili devono sicuramente essere sottoposti a un trattamento particolare che rende molto più difficile infilarcisi dentro. Poi, con le sue mani grosse e carnose, cominciò a raccogliere pile di buste da lettera e a infilarle nelle profonde tasche del soprabito. Non aveva ancora deciso dove andare. Magari in un baretto tranquillo del Village, se solo ci fosse stato qualche baretto tranquillo al Village. O forse nel suo appartamento.

Forse avrebbe dovuto chiamare la segreteria telefonica. Fece per prendere il ricevitore. Fanculo anche a quello. Qualunque cosa ci fosse, chiunque l’avesse chiamato, poteva aspettare fino a domani. La sola famiglia che avesse mai avuto era il Dipartimento del Welfare, e anche con loro non c’erano più rapporti da quando il giudice gli aveva permesso di arruolarsi e andare in Vietnam anziché in quel corso di perfezionamento per teppisti che ha sede dietro le sbarre. Da allora era passato tanto tempo. Amici? In quella New York ostile, distaccata e troppo impegnata a sopravvivere chi mai poteva fermarsi quel tanto che bastava per chiedersi se Shaft era tornato in città?

Si preparò a uscire raccogliendo sigarette e fiammiferi, e chissà perché gli tornò in mente il bagnino di Montego Bay. Quel nero grosso e muscoloso, una quindicina di chili più di Shaft, aveva detto che gli americani non sanno rollarsi uno spinello, aveva tirato fuori un sacchetto di ganja locale, se n’era rollato uno bello grosso e si era messo a fumare proprio lì, sotto il sole dei Caraibi.

«Salve».

Cowboy e indiani. La testa senza corpo che sbirciava dalla porta del corridoio del secondo piano aveva una folta barba bruna e un ampio sombrero nero. C’erano individui ben più bizzarri tra le creature che nuotavano nelle acque scure di Times Square. Non aveva motivo di sorprendersi se uno di loro era entrato in quel vecchio edificio.

«Sì?»

Per tutta risposta, il cowboy lanciò un’occhiata lenta e minuziosa a tutto l’ufficio prima di posare di nuovo lo sguardo su Shaft.

«Capisco l’effetto». Shaft spinse le buste in fondo alle tasche e cominciò ad abbottonarsi il soprabito.

«Shaft?»

«Proprio come sulla targhetta».

«Vorremmo scambiare due parole con lei».

Vorremmo?

«Preferisce parlare dentro o fuori in corridoio?»

Il cowboy entrò in ufficio.

«Mi scusi», disse e si voltò con un cenno d’approvazione.

Erano in sette. Tutti cowboy. Cioè, non erano veri cowboy. Ma erano un bello spettacolo. Nonostante le differenze di corporatura, taglia, età, i sette uomini che entrarono nel suo ufficio vestivano tutti nello stesso identico modo, cappello nero a tesa larga, impermeabile lungo e scuro, abito scuro con gilet, camicia bianca e scarpe nere fuori moda. E tutti avevano la barba e capelli ricci che scendevano davanti o dietro le orecchie.

Shaft si ricordò di uno scrittore che aveva conosciuto una sera al No Name Bar, quello di fronte al suo appartamento. Questo scrittore gli aveva detto che il suo prossimo libro, intitolato I grandi pistoleri ebrei del vecchio West, si sarebbe aperto con Coward Cohen a Cimarron per finire, in uno sbuffo di polvere da sparo, con Rapid Rabinowitz a Dodge City. Questo ricordo gli strappò un sorriso. Non ricambiato. Gli uomini che affollavano il suo ufficio, uno addossato all’altro come turisti in una terra sconosciuta e pericolosa, continuavano a ispezionare lui e tutto quello che gli stava intorno. Si era reso subito conto, naturalmente, che non erano cowboy, e che in passato si era già imbattuto parecchie volte in quegli uomini dagli abiti neri, i cappelli ingombranti e le lunghe barbe: erano rapidi, bruschi e sempre alquanto energici.

Aveva pensato che fossero ebrei solo perché ne avevano l’aspetto, supponendo anche che il loro abbigliamento avesse una funzione o uno scopo particolare. Forse erano rabbini. Pensò appunto che fossero venuti a trovarlo sette rabbini. E questo lo turbò, perché Shaft non credeva in Dio o nelle religioni organizzate, anzi non credeva in niente all’infuori di sé stesso, e non sapeva mai bene come comportarsi con i credenti. Specialmente con chi ci credeva al punto da farne un lavoro a tempo pieno.

«Vi va di sedervi?», domandò. Se non altro la distribuzione di quei vestiti tetri in giro per l’ufficio avrebbe in parte coperto la gamma cromatica della stanza. Mentre loro si sistemavano sul divano e su due sedie nere simili alla sua, e i due più giovani rimanevano in piedi appoggiati a una parete, Shaft immaginò che uno dei loro colleghi fosse scomparso con il vassoio delle elemosine e che loro non volessero sollevare uno scandalo accusandolo pubblicamente. Ma se non lo sapeva Dio dove si fosse nascosto quel tizio, come poteva lui…?

«Grazie», disse il capo del gruppo. «Vorremmo avvalerci dei suoi servizi».

«Cosa dovrei fare?»

«Un’indagine. L’operazione deve essere estremamente rapida e nello stesso tempo molto discreta e quindi, com’è ovvio, dobbiamo prima sapere qualcosa sul suo conto».

In un primo momento Shaft pensò che sapessero già tutto di lui, altrimenti non sarebbero stati lì, tutti accalcati nel suo ufficio come una nuova rock band in cerca di quattrini per ritirare le chitarre dal banco dei pegni. Da qualche parte in uno degli schedari al lato della stanza dovevano esserci dei ritagli del Daily News e di altri giornali che raccontavano chi era Shaft e che cosa aveva fatto.

«Be’, forse avrete letto di qualche mio caso sui giornali…», cominciò. Loro fecero una faccia inorridita. «Voglio dire, come mai avete scelto proprio…?»

«L’abbiamo trovata sulle pagine gialle», disse il leader della band. Era come un calcio in culo. E il seguito fu ancora peggio. «Lei era il più vicino».

Era deprimente quasi come scoprire che il suo ufficio era diventato la cornice di una festa di Halloween, con tutto l’occorrente tranne le zucche. Lo metteva allo stesso livello, per dire, del più vicino bagno pubblico in una giornata fredda. Adesso si pentiva di non essere uscito dall’ufficio cinque o dieci minuti prima che loro decidessero di entrare.

«Ah, be’, come sta scritto nelle pagine gialle io sono un investigatore privato. Gestisco cose di cui la polizia non si occupa, di cui non può occuparsi…»

Sembravano soddisfatti. Annuirono. Shaft si domandò come mai non si fossero tolti il cappello.

«…per esempio, se non c’è alcuna prova che sia stato commesso un crimine ma c’è qualche sospetto, io potrei scoprire se quel sospetto è abbastanza fondato da comunicarlo alla polizia prima che qualcuno ci vada di mezzo e rischi di farsi male quando non è necessario».

Continuavano ad annuire. E così Shaft cominciò a parlare dei suoi casi di divorzio (qui tutti si accigliarono), delle volte in cui si era spacciato per un facchino in grandi magazzini come Saks sulla Quinta Avenue o Gimbel per risolvere il problema del taccheggio (qui smisero di accigliarsi), e di tante altre situazioni nelle quali nessuno si aspettava di trovare un nero, il che gli rendeva più facile muoversi e raccogliere informazioni in tutta tranquillità, senza che si alzassero le barriere della diffidenza (qui apprezzarono tutti al punto da far sentire a Shaft una specie di brezza provocata dai movimenti su e giù dei loro sette cappelli a tesa larga).

«E quanto costa?»

«Le tariffe variano, ma in genere chiedo quindici dollari all’ora… più le spese».

«Le spese?» Tutto un grande accigliarsi.

«Le telefonate, i taxi, se devo comprare qualche informazione…»

«Come mai deve comprare le informazioni quando si fa pagare quindici dollari all’ora per trovarle lei?»

Stavolta fu Shaft ad accigliarsi.

«Perché certe volte è l’unico modo, il più rapido. C’è gente che le informazioni le ha, ma che non capisce niente, non sente niente, a parte il fruscio che fanno le banconote quando gliene strofini un po’ vicino all’orecchio».

Adesso capivano. Ci fu un generoso coro d’assensi. Shaft notò che due di loro stavano esaminando l’ufficio con molta attenzione, come per valutare il prezzo di quelle orripilanti cianfrusaglie in un luogo di lavoro. Uno, seduto sul bordo del divano, raccolse un portacenere grigioverde dal tavolino lì accanto e lo rovesciò, studiandone il fondo. Shaft avrebbe voluto che glielo rubasse, infilandolo nelle pieghe del lungo cappotto nero.

«Allora?», domandò. «I signori desiderano parlarmi di qualcosa in particolare?»

«Per favore ci scusi un momento», disse il portavoce, girandosi sulla sedia per guardare gli altri e poi rivolgendosi di nuovo a lui. «Lei capisce lo yiddish?»

«Cosa?»

«Lo yiddish».

«No».

L’uomo annuì e si voltò di nuovo verso gli altri per dare inizio al confronto. Shaft si aspettava un rapido scambio di opinioni per decidere se raccontargli o meno la situazione e poi magari una richiesta da parte loro di occuparsi del problema, qualunque fosse. Ci fu invece, almeno questa fu la sua impressione, un dibattito sulle origini e sulla fine dell’umanità, con un’analisi approfondita delle sue cause, e questo in una lingua che lui non capiva.

Ognuno dei sette uomini nella stanza aveva evidentemente un suo discorsetto da fare. E ognuno di loro aveva una controproposta convincente e tutta una serie di contro-controproposte.

Per un po’ Shaft rimase seduto ad ascoltare. Non capiva niente. Gli sembrò di cogliere il nome Schwartz che rimbalzava più e più volte da una bocca all’altra, e immaginò che il loro grosso problema riguardasse un uomo con questo nome. Parlavano troppo in fretta perché si accorgesse che in realtà dicevano shvartze, cioè «nero» in yiddish, e capisse che stavano parlando di lui. Si accese una sigaretta e guardò fuori dalla finestra. Poi, finito di fumare, si voltò di nuovo verso di loro. Stavano ancora discutendo. Ne accese un’altra e cominciò a passare in rivista la posta che si era messo in tasca. Ebbe il tempo di visionare ventisette volantini pubblicitari, quattordici bollette, due cartoline, il biglietto di un tizio che aveva conosciuto nell’esercito e che adesso era chiuso nel penitenziario federale di Danbury e cercava aiuto, e infine una lettera del padrone di casa che gli preannunciava guai perché aveva ridipinto l’ufficio senza il suo permesso. Era stata una mossa così terribile che probabilmente gli sarebbe costata l’aumento dell’affitto, in linea con il nuovo luminoso aspetto dei locali. I padroni di casa ragionano così. Shaft guardò l’orologio. Almeno venti minuti. E parlavano ancora. Pensò di andare a cena, bere qualche drink, disfare le valigie, farsi una doccia, farsi una scopata, assaggiare il rum che si era portato dietro illegalmente. Era stanco. Poi pensò di cacciarli via. Stavano diventando una bella rottura di palle.

«Va bene, basta così», disse interrompendo la vigorosa arringa di uno sulla trentina con una lucente barba rossa e tanta energia da poter continuare per ore. Si voltarono tutti verso di lui, ma lui si rivolse al capo. «Io me la squaglio. Sono stanco, sporco e sto morendo di fame. Perché non si porta via Tontolo, Eolo, Pisolo e Brontolo e non andate a cercare Biancaneve e magari decidete anche cosa diavolo volete fare? Io tornerò qui domattina. Chiamatemi quando…»

«Ha ragione», disse il capo. «È inutile discutere ancora, ma siamo un comitato e dobbiamo essere tutti d’accordo. Adesso abbiamo deciso».

«Che cosa?»

«Vogliamo assumerla per scoprire quello che sta succedendo nel nostro settore professionale. Il settore dei diamanti».

«Cosa c’è che non va?»

«Nessuno lo sa di preciso, ma sta succedendo qualcosa d’insolito».

«Magari non c’è da preoccuparsi».

«Nel suo mestiere, forse. E neanche in tutti gli altri. Ma nel ramo dei diamanti non c’è mai…» – qui il suo tono si fece severo e carico di nobiltà d’animo – «non c’è mai, mai, un minimo sussurro o sospetto di qualcosa d’insolito che non diventi fonte di preoccupazione, o perfino di paura, per mille uomini. Le cose “insolite” non accadono più di una volta per secolo. E stanno accadendo ora».

Shaft si fermò un momento a riflettere.

«Ma cosa dovrei fare io, cosa volete sapere?»

«Tutto ciò che non viene fatto oggi come veniva fatto ieri e ieri l’altro, dal movimento del più piccolo granello di polvere al taglio della pietra più grossa».

«Tutto? Ma è impossibile. Ci vorrebbero cento uomini come me».

«No, ne basta uno… Con il cervello, gli occhi e le orecchie di tutti noi, lei farà il lavoro di cento uomini».

«Ehi», cominciò a protestare Shaft. Non potevano pretendere un simile impegno per quindici dollari l’ora più le spese, e comunque erano tutti matti e gli avrebbero fatto cattiva pubblicità.

«Lei riceverà un compenso realistico e onesto, perché noi sappiamo lavorare solo così. Si tratterà di una piccolissima percentuale del nostro fatturato collettivo… noi siamo solo un comitato che rappresenta molte altre persone… ma lei deve trovare una soluzione al nostro problema».

Ci fu un’interruzione in yiddish dal divano.

Il capo ne tenne conto. «Ma niente spese», disse.

Shaft, subito risentito, si ricordò di non amare gli ebrei. Era stanco, seccato e non certo in grado di esaminare razionalmente le ragioni del suo risentimento. Quei bastardi cesellatori.

«Ok, bene, adesso alzatevi di lì e levatevi dai piedi», disse. «Io conto i portacenere e me ne vado a casa».

Non badarono alla sua rabbia.

«Prima di decidere di non aiutarci, lasci che le dica a quanto ammontava il nostro fatturato l’anno scorso». Fece due o tre scarabocchi sul suo taccuino, e a John Shaft, investigatore privato nero, si aprirono le porte di un mondo che non conosceva e che non osava neanche immaginare di poter conoscere. La sua percentuale, se fosse riuscito a fare quello che gli chiedevano, avrebbe superato i cinquecentosettantaquattromila cazzo di dollari.

Ebbe una sorta di shock finanziario, che durò circa un secondo, prima che la sua immaginazione cominciasse a spendere quella somma.

 © Ernest Tidyman, 1972. Tutti i diritti riservati.

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