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La fila indiana, un estratto

Antonio Ortuño Autori, SUR

Pubblichiamo oggi un assaggio della Fila indiana, il nuovo romanzo di Antonio Ortuño che ci offre una storia appassionante ed estremamente attuale, dai toni noir, ma che al tempo stesso indaga il difficile rapporto tra un individuo e il paese in cui vive. Buona lettura!

di Antonio Ortuño
traduzione di Silvia Sichel

Battuta di caccia

Vanno a caccia di mosche. Circondano la porta dell’edificio, un cubo di pietra. Finestre fitte di cartelloni con slogan governativi scaduti, scoloriti. Ombre, segnali, corse, grida, una sghignazzata. Sono a caccia. L’esultanza del pre­datore.

Dentro, la penombra.

Silenzio. Le luci del giorno. Di un’alba che esplode. Diventa fuoco. E si sgretola.

Alcuni degli aggressori avevano bevuto un caffè prima di cominciare, mentre li radunavano in una casa di periferia. Guanti, berretto, vento gelido. Freddo come può esserlo in una città dove la temperatura non scende mai sotto i quindici gradi. Giacche scozzesi, sorelle delle coperte in cui si avvolgono i custodi. Bicchieri di plastica, caffè solubile insipido. Lingue tostate dall’acqua bollente. Due camionette, poche armi. Ma soprattutto: tante bottiglie di benzina avvolte in stracci e spago che serve da miccia. Micce, micce con i controcazzi, come dicono loro. E ridono. Perché questa è una caccia. O no?

Nelle viscere dell’edificio, dentro stanze, corridoi, sale e uffici, li attendono le prede (non sanno che i cacciatori stanno arrivando) sulle brande e nei sacchi a pelo. Vecchie, uomini con i baffi, donne, i loro figli: prede. Tutti scuri di pelle. Dormono. Chissà se sognano. Per cena gli hanno dato fagioli, tortillas, caffè nero; i cinque litri di latte fresco li hanno dovuti dividere tra venti bambini deperiti. Ora riposano, digeriscono. Qualcuno russa, qualcun altro scorreggia (le pance piene di cibo esalano, com’è normale che sia, l’aria che le ha riempite per giorni). Due chiacchierano. Poche frasi, voce bassa.

Stanno venendo a dargli la caccia.

Le camionette si muovono con ben poca prudenza. Sono rumorose. La radio accesa, la voce chiassosa di un dj. Saluti, saluti, da Melina per Higinia. Da Paco per Hugo. E per Rafael da parte dei ragazzi della settantesima strada, e piantala di fare il finocchio, dai. Un’altra sghignazzata. Buon umore.

A metà strada, fermano le macchine davanti a una sala da ballo. Ingresso addobbato, palline e stelle di Natale, il brutto logo della Commissione Nazionale Migrazione – Delegazione Santa Rita. Un festino di ninfe e centauri. Di burocrati, in questo caso. Il tradizionale, immancabile cenone aziendale.

Hanno fatto le ore piccole, il giorno sta per spuntare. Dentro ci sono ancora una cinquantina di persone: ballano, bevono. Le donne, una decina o poco più, con le giacche buttate sulle spalle ma con scollature profonde, le tette mezze di fuori. Gli uomini hanno bevuto talmente tanto che non ci combineranno molto.

Il meno ebbro degli invitati li stava aspettando. Va incontro alle camionette. Risate, grida.

«Qui sono cotti, là non c’è più nessuno», dice all’autista con il giubbotto scamosciato tirato fin sulle orecchie, che lascia comunque indovinare la faccia da ragazzino. «Ci siamo portati perfino il custode».

Lo spiano dalla finestra: sta ballando, stringe una donna per i fianchi.

«Hanno già sorteggiato i televisori?», sussurra l’autista, sguardo fisso, naso affilato. Il funzionario annuisce; rutta coprendosi la bocca con la mano.

«Sì, da un pezzo. Fuori di testa dalla gioia, poveri sfigati».

«Bene, allora. Sai, sei tu il boss».

«Intesi, Morro. Qui è tutto a posto. Vai».

Le macchine si avviano; il funzionario resta lì fuori, fuma, muove la testa al ritmo della musica.

Lo sa. Certo che lo sa. E non trema. Forse pensa alle donne, alle loro tette mezze di fuori. O forse pensa al fuoco.

Non è così?

Le prede dormono. Le camionette passano davanti alla pattuglia del quartiere. Lo sguardo dell’autista incrocia quello del poliziotto alla guida. Abbassa gli occhi, l’agente. Spegne la macchina. Sente un terribile prurito all’ano. La gamba destra sbatte sul pavimento, si muove da sola, come se volesse scappare senza aspettare la sua compagna, l’anca o i piedi. Una luce lo illumina. L’agente abbraccia il volante, immobile. Sottomissione totale. Chiude gli occhi e stringe il culo. Potrebbero sodomizzarlo, i passeggeri delle camionette, se ne avessero voglia. Ripartono.

No: non c’è nessuno che li aspetta.

Uno degli uomini si è svegliato, coricato su un materassino che scricchiola, polveroso come il pavimento su cui poggia. Sbatte gli occhi, ripensa a quello che ha passato. Respira. Almeno lui non ha figli, si consola. Gli fanno male i piedi. Sono scesi dal treno e sono scappati.

Hanno camminato due giorni, attraversato le montagne. Senz’acqua.

Il loro viaggio era iniziato tre notti prima, li avevano stipati in un vagone piombato dove si faceva fatica a respirare. Sentivano sbuffare i dipendenti delle ferrovie, i passi degli altri clandestini appollaiati sul tetto. Loro tacevano. I bambini piangevano; i genitori si affannavano a zittirli. Respiravano poco, come si è detto, e male. Muti quasi per tutto il viaggio. Solo ogni tanto a qualcuno scappava un vaffanculo. Fanculo, quelle merde ci hanno fregato. Durante una sosta per riempire d’acqua le bottiglie di plastica che distribuivano ogni tanto, gli uomini di guardia avevano dimenticato di chiudere la porta. Da quel momento avevano avuto aria a sufficienza, avevano tirato la lamiera arrugginita, erano riusciti ad affacciarsi sulla notte.

Non c’era stato bisogno di scambiare una sola parola per decidere di scappare quando il vagone si era fermato di nuovo. Erano in Messico da un giorno intero e avevano paura. Il treno si era fermato lontano dalla stazione. Erano scesi, seguiti dagli sguardi invidiosi e spaventati dei clandestini sul tetto. Li avevano guardati allontanarsi, sparire tra i monti. Qualcuno di quei corvi avrà dato l’allarme. O qualcuno dei loro? Comunque fosse, era impossibile non notarli. Un gruppo grande e vistoso che veniva da lontano.

I tizi si erano fatti pagare con gli stessi dollari che gli avevano procurato, a un tasso di cambio ridicolo. Pochi erano riusciti a tenere da parte dei soldi per il viaggio. Alcuni si erano indebitati. Da lui, che ora sta guardando fuori dalla finestra e sospira, il secondo giorno avevano preteso sua moglie. L’avevano portata in un’altra stanza, se l’erano scopata. O così o li facevano fuori. Non avevano più aperto bocca. Né lui né sua moglie.

Erano arrivati in città dopo una marcia di molte ore. Non avevano avuto la forza di disperdersi e andare incontro da soli al proprio destino. Insieme, lenti, avevano trovato l’ospedale. I bambini erano disidratati. Si erano rifiutati di assisterli. Avevano chiamato l’ufficio Migrazione – Delegazione Santa Rita, e chi se no? Intanto li avevano buttati fuori e, sotto le occhiate furtive dei passanti, respinti dai parenti dei pazienti e dai medici, rosicchiando croste di pane e bevendo sorsi d’acqua che quei pochi gli tendevano, avevano atteso. Era arrivato uno della Migrazione dopo ore. Li guardava come se fossero bestie, piante. Li aveva contati. Aveva telefonato ai suoi superiori.

«Per adesso vi mandiamo al centro di accoglienza, finché il delegato non deciderà cosa fare. Chi vuole, può rientrare domani o dopodomani in treno».

Nessuno volle tornare. Passarono alcune notti con un tetto sopra la testa, accalcati ma con qualcosa da mangiare e da bere. Il delegato era fuori città. Un’assistente sociale li interrogava, prendeva appunti. Cercavano il suo sguardo: lei lo abbassava. Nessuno voleva fare la fine di Gloria, con il suo buon cuore. Il custode aveva portato un sacchetto di mandarini per i bambini.

Ma ora stavano per ricevere visite.

E per avere ciò che, vista la situazione, gli spettava: essere completamente schiacciati.

Una strage.

Di bestioline. No: di mosche.

Era il terzo giorno che passavano lì. Quelli del centro avevano avvertito che sarebbero usciti prima. Il cenone di Natale, avevano detto. Avrebbero ballato, bevuto. Avevano ricevuto in regalo dei televisori per la lotteria e i biglietti erano esauriti. Li avevano informati che il delegato sarebbe tornato solo dopo Capodanno e avrebbero dovuto aspettare che decidesse per il rimpatrio o li lasciasse andare. Quindi non erano né liberi né prigionieri. Uscendo, gli impiegati avevano chiuso la porta a chiave. Le finestre, con le sbarre, coperte di manifesti che nascondevano la vista. «Amico migrante», dicevano tutti. «Qui hai dei diritti». «Amico».

Una musica lontana.

I viaggiatori erano rimasti soli.

Quasi tutti dormivano, sì, quando cominciò.

La prima bottiglia entrò da un lucernaio, in alto, senza protezione. Atterrò sul materasso di un’anziana. La coperta prese fuoco. La prima cosa che sentirono non fu il vetro che s’infranse ma le urla. Non fece nemmeno in tempo ad alzarsi, la donna. Le fiamme le divorarono una gamba. Caddero altre bombe incendiarie, quattro o cinque da ogni lucernaio. Spari, anche. Un uomo che si era arrampicato sulla finestra cadde, la fronte crivellata. Alcuni corsero alla porta e forzarono la serratura. Non lo sapevano, ma era stata presa la precauzione di bloccare la maniglia con una catena di rinforzo.

Nessuno doveva uscire.

Le fiamme si propagarono, passarono dalle coperte ai materassi e dalle pile di carta ai vestiti e alla pelle. Fumo, pianto, richieste d’aiuto. C’era un telefono, sì, ma nessuno sapeva che numeri fare. L’uomo, scuro come tutti, guardò la moglie come implorando un miracolo. Lei prese il telefono, schiacciò dei tasti a casaccio. Invano. Parte del soffitto cadde addosso a suo marito con un boato. Una mano contratta fu tutto ciò che la donna riuscì a vedere. Volle correre da lui, ma un’esplosione la scagliò lontano.

Quando il fuoco mandò in frantumi le finestre, i visitatori salirono sulle camionette e, con una certa prudenza, se ne andarono.

La voce del dj che si allontanava.

Per i nostri amici del quartiere della Pastora e di tutta Santa Rita questa canzone dedicata a Josefina, da parte di Ernesto, che dice di non trattarlo così e a Carlos, da Paola, che ci racconta che nessuno le vuole bene perché è cicciotta, ma fammi il favore, se è la carne che cerchi, coglione! Che fastidio ti dà, Carlitos! E allora andiamo con gli Estrella e la loro «Llorarás y llorarás». Sono le quattro e cinque del mattino. Musica!

La versione ufficiale

CONAMI CONFERMA IMPEGNO NELLA DIFESA MIGRANTI
E VOLONTÀ DI COLLABORARE ALL’INCHIESTA

La Commissione Nazionale Migrazione (Conami) Delegazione Santa Rita esprime la sua più energica condanna dell’aggressione ai danni dei migranti originari di diversi paesi centroamericani, ospitati nel centro di accoglienza Batalla de la Angostura, facente capo alla Conami, nella città di Santa Rita, S.ta Rita, compiuta da ignoti, verificatasi nella notte del 22 dicembre ultimo scorso, con un bilancio di quaranta morti e decine di feriti.

Conferma, altresì, il proprio impegno inalterato nel proteggere e salvaguardare i diritti umani di tutti gli individui, con particolare attenzione alle famiglie che transitano in territorio messicano, a prescindere dal loro stato di migranti, nonché la volontà di collaborare all’inchiesta con le forze dell’ordine e le autorità giuridiche competenti.

Quanto alla notizia riportata dai giornali che il personale della Conami assegnato al centro di accoglienza Batalla de la Angostura non fosse presente al momento dei fatti a causa dello svolgimento dell’annuale cenone aziendale, questa Commissione segnala di essere totalmente all’oscuro dei suddetti eventi, nei quali, in nessun modo, sono stati impiegati fondi pubblici detratti dal budget assegnato a quest’Ente. Per ciò stesso, la Conami smentisce di aver destinato risorse economiche all’acquisto dei televisori che secondo alcune voci sarebbero stati sorteggiati tra i partecipanti all’evento in questione.

Personale specializzato verrà inviato nelle prossime ore a Santa Rita per provvedere ai bisogni dei sopravvissuti, nonché a quelli dei congiunti che rispondano per loro. È importante sottolineare che, qualora si rendesse necessario, verranno presi contatti con le ambasciate e i consolati di pertinenza per sostenere, con aiuti economici e rimborsi delle spese di viaggio, il trasferimento dei suddetti familiari dai loro luoghi d’origine in America Centrale.

Infine, verrà avviato un programma di sostegno per coprire le spese ospedaliere, sanitarie e funerarie causate da questi riprovevoli avvenimenti.

Santa Rita, S.ta Rita, addì 23 dicembre
Ufficio Stampa, Comunicazione e Rapporti con l’utenza
Commissione Nazionale Migrazione

 

 

Orazione funebre

 

Il fuoco. I suoi effetti sul corpo. La pelle, come una stoffa, si stacca dalla carne, mettendola a nudo. Gli occhi schizzano fuori dalle orbite, unghie e capelli sono carbonizzati. La lingua penzola dalla bocca come un impiccato oppure, se i denti erano digrignati per il terrore, finisce in fondo alla gola e si accartoccia.

Ma anche se non riesce ad avvolgerci con le sue fiamme, il fuoco ci distruggerà: nelle sue vicinanze si perdono per evaporazione i liquidi vitali, la temperatura corporea sale e i nervi saltano, il battito accelera così tanto che il muscolo cardiaco si sfilaccia e i polmoni collassano a causa del sangue che si ritira. Il fuoco in ambiente domestico, un incendio in casa, può superare nel giro di qualche minuto i seicento gradi. Impossibile resistere: la scienza stabilisce che il corpo, il povero corpo, riuscirà a respirare un’aria surriscaldata a centocinquanta gradi solo per pochi secondi.

Figuriamoci a seicento.

Ma la prima botta la dà il fumo. Quando si è in suo potere in testa scatta un allarme e il corpo, terrorizzato, cerca una via di fuga. Se non la trova, e man mano che la concentrazione d’ossigeno passa da un corretto ventuno per cento al diciassette o al quattordici, la capacità di movimento e l’attenzione calano e il corpo, barcollante, va dritto verso la morte. Quando nell’atmosfera sarà rimasto solo un sei per cento di ossigeno, si perderanno i sensi. Ma prima, a causa dell’inalazione di vapori tossici, saranno già comparsi edema polmonare e danni a faringe, laringe, trachea e bronchi che, anche nel caso in cui fossimo estratti vivi, potranno causarci infezioni o fibrosi e stroncarci (la nostra famiglia, che si sentiva mezzo sollevata, non capirà il perché di una simile fine: Ma se era in ospedale, ma se si era salvato).

Longa manus, quella del fuoco. Perché persiste eccome, anche se gli si sopravvive: le ustioni sulla pelle, soprattutto quella del viso, saranno il suo marchio; la perdita di un arto, la protrusione di un occhio, l’impossibilità di deglutire, di respirare senza che l’aria ci artigli come un topo di fogna, gli incubi, i sogni in cui il fuoco torna a prendersi ciò che gli appartiene e che eravamo riusciti a strappare al suo dominio: tutte ragioni per cui la vita dopo le nozze con lui sarà solo ombra e parodia.

Se visitate un reparto ustionati, scoprirete la carne nella sua espressione più fragile e bassa: contusa, lacera, incapace di suscitare il minimo desiderio o utile solo ad apportare altro dolore.

Triste sguardo, quello degli ustionati: bestie segnate, raggrinzite, offese per sempre.

Quando un incendio è accidentale si può credere in un disegno, nel fato, nel destino o nell’intervento della volontà di Dio. Ci sarà chi sospetterà l’ustionato di aver accumulato peccati suoi o altrui che doveva scontare, ci sarà chi considererà il fuoco il tramite di un’energia celeste, estrema lezione d’umiltà e rassegnazione. Non era forse stato Lui a presentarsi a Giobbe sotto forma di vento impetuoso per fargli comprendere che il fuoco avrebbe divorato anche il suo sepolcro e raso al suolo la sua fattoria? E da Giobbe era arrivato un servo che aveva detto: «Un fuoco divino è caduto dal cielo: si è appiccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati. Sono scampato soltanto io per raccontartelo».

Perché del fuoco si può dire, come di Colui che vi provvede: dalla sua bocca partono vampate, sprizzano scintille di fuoco. Dalle sue narici esce fumo come da caldaia, che bolle sul fuoco. Il suo fiato incendia carboni e dalla bocca gli escono fiamme. Nel suo collo risiede la forza e innanzi a lui corre la paura. Il suo cuore è duro come pietra, duro come la pietra inferiore della macina. Quando si alza, si spaventano i forti e per il terrore restano smarriti. La spada che lo raggiunge non vi si infigge, né lancia, né freccia né giavellotto.

Ai piromani, dunque, a coloro che usurpano, per sé, i poteri del fuoco sul corpo, è destinato il castigo del rogo.

© Antonio Ortuño, 2013. Tutti i diritti riservati.

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