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Diario americano

Marco Cassini BIGSUR, Reportage, Società

Pubblichiamo oggi il diario di viaggio di Marco Cassini che si trova negli Stati uniti per i festeggiamenti dei 100 anni di Lawrence Ferlinghetti. Buona lettura!

 

Uno

diarioDue giorni e mezzo a New York ma ho fatto in tempo a scoprire per caso che alla libreria sotto casa – Books Are Magic – c’era David Means per presentare il suo nuovo libro Instructions for a Funeral (in Italia Means lo avevo pubblicato giusto vent’anni fa, il suo esordio Episodi incendiari assortiti mi era stato suggerito da Rick Moody e da Jonathan Franzen e dal suo editore Beau Friedlander) e ho fatto in tempo a festeggiare – io un margarita, lei un più appropriato calice di Taittinger – il Withing Award ricevuto da Merritt Tierce, autrice del primo libro pubblicato nella collana Big Sur, Carne viva, scelto e tradotto da Martina Testa (una coincidenza essere lì proprio il giorno della premiazione, di cui siamo stati informati poche ore prima in gran segreto da una mail della Withing Foundation; e con Martina ci siamo ricordati di quando esattamente ventiquattro mesi fa, sempre per caso, molto per caso, ci trovavamo entrambi a New York il giorno in cui annunciarono il Pultizer a Colson Whitehead per La ferrovia sotterranea: molto per caso perché lei doveva ripartire la sera stessa, io addirittura mi trovavo ancora a New York solo perché il volo per Roma era stato rimandato di sei ore e, essendo in viaggio lì con mio fratello e suo figlio di appena un anno dopo ore di attesa decidemmo di spostare il volo al giorno successivo, e mentre quindi per puro caso ero ancora, di nuovo, a New York o meglio in un taxi nel traffico tra JFK e Red Hook iniziano ad arrivare messaggi di complimenti al cellulare, messaggi che avrei letto solo a Roma se fossimo saliti su quell’aereo, e quindi ho detto a Martina di cambiare anche il suo volo, offro io, ci sarà da festeggiare, e così facemmo, andando a bere birre copiose con Colson, la sua agente Nicole Aragi e il suo editor Bill Thomas). Ho incontrato Merritt ieri sera al suo hotel nel Lower East Side, un giubbotto di pelle argentata «che viene dal futuro», aggiornamenti sulle rispettive situazioni professionali e sentimentali, e la gioia della consapevolezza che leggere un bel libro e scrivere un bel libro e pubblicare un bel libro sono attività limitrofe che ti avvicinano al cuore delle cose, se sono cose che contano per te.

Stamattina ho fatto colazione alle sei, rispondendo, come sempre nelle mie efficientissime mattinate newyorkesi, alle mail della mattinata italiana: ho approvato la copertina di Acqua di mare di Charles Simmons che mi aveva mandato Dario Matrone dalla redazione, ho gioito per una nuova acquisizione (un’autrice di cui vi daremo notizia a breve), ho fatto la doccia, ho fatto tutto in silenzio mentre i coinquilini della mia casetta di Summit Street dormivano ancora, e ho iniziato il tragitto verso JFK, sotto la pioggia, poi in metro leggendo un manoscritto cileno. Altra colazione dopo i controlli sicurezza (questa volta uova col bacon, a casa erano stati dei più sobri cereali) e poi in aereo alla volta di San Francisco. In volo ho visto un mockumentary su Bill Murray e il bel film uruguaiano Belmonte (che si chiude con la struggente «Le lendemain» cantata da Diane Denoir), sempre alternando Sur e Big Sur anche nelle visioni cinematografiche. Poi sono atterrato, e salito sul treno verso la città, mi sono seduto sul sedile del Bart e ho tirato fuori Starting from San Francisco. Ne ho diverse edizioni a casa, ma ieri alla Unnameable Books (dove vado ogni volta che sono a New York sia perché mi porta fortuna – ho scoperto lì qualche anno fa dell’esistenza del libro di Kunen The Strawberry Statement, ovver Fragole e sangue – sia per controllare ogni volta che nella incredibile bacheca accanto alla cassa dove i librai mettono in mostra i loro ritrovamenti tra le pagine dei libri usati ci sia ancora il ritaglio originale del New York Times con la notizia della (presunta) morte di Virginia Woolf: andateci, vale pena anche solo per quello) ne ho comprate altre due per sette dollari ciascuna e solo perché, terza e quinta ristampa, sono identiche salvo in un dettaglio del testo sulla quarta di copertina, nel punto in cui si cita il precedente libro di Ferlinghetti, A Coney Island of the Mind (anche questo l’ho pubblicato, nei miei lunghi anni di minimum fax), nella terza ristampa si dice che ha già venduto 260mila copie, nelle quinta si è arrivati già a 500mila (supererà il milione). Mi siedo e leggo la prima poesia del libro, mentre sto per leggere l’ultimo verso della poesia entriamo in una galleria, provo a guardare dal finestrino ma quello che vedo, dato che fuori è tutto buio, è solo il riflesso del mio volto. Faccio in tempo a scattarmi anche una foto col cellulare. Usciamo dalla galleria, leggo l’ultima riga: «Myself I saw in the window reflected».

 

diario

 

 

[Ora sono in hotel, tra poco vado alla City Lights, appena addobbata di striscioni per i festeggiamenti del centenario di Ferlinghetti, che hanno inizio stasera.]

diario

Due

Mi stavo appena adattando al fuso orario di New York, e infatti mi sveglio all’ora in cui dovrei svegliarmi se fossi lì. Ma qui a San Francisco ci sono altre cinque ore in meno e quindi sia oggi che ieri mi sono alzato alle tre, e non c’era verso di riprendere sonno. E così in questi due giorni la mia è già diventata una routine: arrivare al caffè Trieste al momento esatto in cui accende le luci, alle sei e trenta in punto. Fuori ovviamente è buio, e fuori cosa c’è: i camion della nettezza urbana, i resti di una serata lunga (alle cui prime ore ho partecipato anche io) al Saloon, il bar più vecchio del mondo si direbbe, o almeno certamente di questa parte di mondo: nel 1861 qui di fronte già servivano la birra, ben prima che buona parte della città venisse distrutta da incendi e terremoti. (Più tardi dall’hotel dove ho dormito le prime due notti mi trasferirò al San Remo, altro edificio «storico» di North Beach, del 1906, uno dei primi costruiti subito dopo il terremoto di quell’anno. Sull’idea di edificio storico scherzo sempre con gli amici americani che vengono a trovarmi a casa: il palazzo dove abito al Ghetto, a Roma, è stato costruito qualche anno prima che i nostri compaesani, sponsorizzati da un’altra regina, andassero a «scoprire» la loro terra.) Il pavimento è ancora bagnato a quest’ora e chiedo scusa mentre faccio lo slalom tra i tavoli per prendere posto a quello che è già diventato «il mio». Adesso ci sono già altri cinque o sei clienti in questo Night Hawk californiano: una madre e una figlia che, sedute entrambe sulla panca con le spalle appoggiate al muro discutono di questioni familiari guardando sempre dritto davanti a loro, mai incrociando gli sguardi; un signore in giacca e cravatta che (de gustibus) ha ordinato un cappuccino e una cherry coke, un ragazzone coi capelli lunghi che ha parcheggiato il camion qui davanti ed è venuto a fare colazione, chissà se a inizio o a fine turno, e ora comincia a entrare altra gente, alla spicciolata. Ieri, mentre ero qui e diariocorreggevo le bozze di un libro che parla della resistenza analogica a un mondo digitale, ho sperimentato qualcosa che non mi capitava da tempo: in questo bar, anche se c’era qualche raro cliente (come me in questo momento del resto) con un computer sul tavolino o che beveva un caffè leggendo le notizie sul cellulare, dopo un po’ c’era un rumore, un rumore di quelli che riesci oggi a sentire forse solo nei mezzanini dei teatri tra un atto e l’altro: l’assordante felice brusio moltiplicato di tante persone che parlano. Ogni tanto partiva una canzone dal juke bok (che annovera perle rare come Wilma Goich e Claudio Villa accanto a Pavarotti e Dean Martin, e Nina Simone insieme a Peppino Di Capri) ma altrimenti per il resto era davvero emozionante ascoltare il rumore di persone che parlano. Ed ecco perché stamattina sono tornato qui, sveglio già da qualche ora, non ho provato a riaddormentarmi, e ho aspettato il momento di essere qui, a farmi stupire di nuovo dal mero rumore di fondo. Mi sono reso conto che erano anni che non succedeva di entrare in un bar dove la gente semplicemente parla. Qualcuno correggeva le bozze di qualcosa, come me, ieri; altri sfogliavano i quotidiani locali, e il resto, soprattutto anziani, molti all’apparenza italoamericani, si incontrano al bar per dirsi come va, per commentare film, notizie e ovviamente la parola che ho sentito mormorare più spesso è stata il nome Ferlinghetti. La sua foto si guarda negli occhi, da una parete all’altra di questo locale aperto nel 1956, pochi anni dopo l’apertura della City Lights a un isolato da qui, con un ritratto in bianco e nero – epoca musicarelli – di Gianni Morandi (e mentre scrivo Morandi sento il barista parlare in italiano con la figlia di poco fa, mentre sua madre ha messo un libro in borsa e se ne va, Ciao July, o ha detto Giulia?) Il cappuccino non è buono, il caffè sa di bruciato (o, come afferma Annamaria, la direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura, con cui ieri abbiamo bevuto il malbec di Francis Ford Coppola allo Zoetrope cafe prima di farci deliziare dalle movenze di un imbarazzato ballerino solitario mentre una band iniziava il suo terzo, o quarto set consecutivo di quella che si preannunciava come una lunga notte classic rock blues al Saloon, quello che bruciano questi baristi è il latte, per la fissazione di tenere troppo a lungo il beccuccio del vapore nel bricco metallico) ma tant’è, e questo è un dettaglio, non si viene qui per la caffetteria. In compenso le brioches sono grandi quanto un piatto o quanto la faccia di chi cerca di addentarle. Ora che il dialogo mamma-figlia si è interrotto e il camionista si è rimesso in marcia si è fatto silenzio, si è appena sentito il gracchiare di un corvo, che non mi ha detto nevermore ma encore, mi pareva, e ho pensato al cry of the birds dell’eroe del giorno, dell’anno, del secolo, papa Lawrence primo e unico che qui al caffè Trieste è di casa, e che qui avevo incontrato nel 2012 alla vigilia della rielezione di Obama alla Casa bianca (è la memoria di questa data l’encore a cui si riferiva? O al fatto che sono ancora qui? Al fatto che ancora cerco una strada, anche se mi sembra ogni volta di averla trovata? Che ho ordinato «il solito» stamattina, o che sono di nuovo qui come nei miei primi viaggi, quando negli anni Novanta mi spendevo i pochi risparmi, lo stipendio ancora non potevo darmelo, e usavo tutti i giorni di chiusura estiva della casa editrice ai suoi primi anni per venire qui, a sentirmi beat, dicendo sempre e inevitabilmente che ero beato e non battuto, e con l’abitudine o la scaramanzia di volare il nove agosto, il giorno del mio compleanno, per farlo durare di più, e una volta al caffè Trieste qualcuno mi scambiò per il Drugo, the Dude, Jeffrey Lebowski perché all’epoca gli assomigliavo proprio, checché se ne dica, al punto che mi arrivavano messaggi da amici americani, erano anni in cui tra l’uscita di un film negli Stati Uniti e quella in Italia passavano mesi, e non arrivavano subito notizie e foto di scena, «ho visto un film dove c’è uno uguale identico a te, quando arriva in Italia vallo a vedere» e mi ricordo quando andai al cinema e la gente all’uscita mi guardava pensando di non aver capito di aver assistito a una proiezione con il cast in sala, e Sandro Veronesi mi dedicava i suoi nuovi libri «al Lebowski del mio cuore» e io avevo compleanni che duravano 33 ore e mi sentivo al centro di qualcosa mentre anche stamattina ho scelto il tavolo all’angolo estremo, non al centro, voglio poter vedere tutto, e sentirmi ai margini, senza sgomitare. Sento dire «bongiohno» e il camionista è tornato, era solo andato a spostare il camion forse per permettere la pulizia della strada, e sta chiedendo al barista come si dice «I’m well», «Iiiioooh stoh behnneh» come altro vuoi che si dica, due ex ragazzi dai pochi capelli bianchi, nuovi arrivati, si parlano da un tavolo all’altro, parlano di Argentina e di voli, voli per il Sudamerica, ci vuole poco, pochi soldi e poche ore, per andare in Sudamerica capisci, ci sono voli da Los Angeles, L.A., elley, certo certo, è lei, è sempre lei, mi sveglia e mi scuote, non mi lascia dormire, il cappuccino si sta raffreddando e ora non solo è amaro e bruciato ma tiepido, ma questo non mi eviterà di ordinarlo di nuovo domani, ci tengo a costruirmi riti, io che non riesco ad averne, non ho un bar di riferimento a Roma, dopo quindici anni al Ghetto non ho un posto dove il barista mi saluti e mi riconosca come qui alla seconda mattina, ho qualcosa nell’occhio?, ho un boccone che mi è rimasto incastrato da qualche parte in gola, non mi sembra, non direi, allora cos’è questo groppo e questa lacrima, ormai si è fatto del tutto giorno fuori, e si vede meno il lampeggiare verde di una lucetta che indica la fessura dove inserire la carta nel bancomat che occupa le vestigia di una cabina telefonica. In tre hanno il cappello, sugli attuali otto clienti che sono qui in questo momento oltre a me, siamo in due veterani, io e una ragazza orientale, che ha davanti a sé un piccolo bicchiere vuoto con una cannuccia, ed è arrivata pochi minuti dopo di me, ormai è un’ora che sono qui, incarno la maggiore anzianità di servizio. Il viaggiatore argentino saluta la sala, chiunque voglia accogliere il suo saluto, io annuisco facendo quella smorfietta della bocca che vuol dire ti vedo, non emetto suono ma ti sto salutando, come quelli che si fanno quando incontri qualcuno nei sentieri che viene in senso contrario e non sei sicuro se sia la persona a cui fare un saluto ad alta voce, mette un dollaro nella tazza delle mance, saluta anche il barista e esce, sarà l’ora di andare al lavoro, o tornare a casa. Qualcuno a un tavolo scrive a mano, la ragazza che aveva preso cappuccino to go in realtà cambia idea come molti cittadini britannici pentiti e opta per il remain, si siede all’altro angolo della mia stessa parete, forse torna dall’aver fatto jogging, ha la tuta e le stan smith, si è messa al tavolino sotto l’antichissima cassa di uno stereo di cui però non esiste sorella, e si mette a fare quella cosa insopportabile di scrollare lo schermo del telefono con dita dalle unghie lunghissime, ma come farà. Mi viene in mente che poco fa, per strada, ancora buio e nessuno agli incroci, passata la strada con le rotaie sempre stridenti del famoso cable car, che strada è, Pacific? California? un ragazzo col cappello di lana fermo al semaforo pedonale con un libro in mano, ovviamente cerco di capire dall’altro lato della strada di che libro si tratta, se ne accorge e mi fa un sorriso ampio spontaneo bellissimo e grida un good morning dall’altra parte delle strisce pedonali, allora altro che smorfietta, ci sta un bel good morning a tutti polmoni anche da parte mia, e nel frattempo è diventato verde, un semaforo da rispettare anche alle sei e venticinque con le strade deserte perché all’estero ci si comporta sempre meglio che a casa, e stiamo entrambi attraversando e il mio buongiorno gli arriva a pochi centimetri dalle orecchie anche se lo avevo calibrato per rispondergli allo stesso volume del suo, da più lontano. Non sono mica riuscito a vedere che libro fosse, ma era bello vedere una specie di me stesso, un’altra persona che come me a volte legge mentre cammina per strada (una volta a New York sempre attraversando una strada, ero sulla irraggiungibile 207 ma, leggevo al crepuscolo e un signore mi apostrofa dicendo you gonna loose your sight, son, chissà fino a che età qualcuno può avermi apostrofato son, ora cosa sono, man, old man, un little boy con la metà degli anni del little boy che ne fa cento domani? Se dormivo a casa della mia amica Federica Cappa a Inwood vuol dire che non avevo ancora la mia casetta di Brooklyn quindi era certo prima del 2005, ma anche prima di tutte quelle volte che ero stato ospite nella mia stessa casetta prima che fosse mia quando ci abitava Richard Nash allora glorioso editore della gloriosa Soft Skull Press, e prima ancora c’erano state le molte volte in cui avevo dormito sul divano di Ira Silverberg a Soho, sotto quel magico poster gigante di The Valley of the Dolls, saranno stati gli anni Novanta, allora, e son ci poteva ancora stare, e ricordo che quello stesso giorno di «son», la mattina, ero uscito con una maglietta comprata come decine di altre, tre per cinquemila lire a Porta Portese, una maglietta con un vecchissimo logo Pepsi scolorito e al parchetto lì accanto stavano preparando una giornata di baseball giovanile sponsorizzato dalla Coca Cola, aprivano ombrelloni rossi e tavolini rossi e striscioni rossi e gonfiavano grappoli di palloncini rossi, tutto un rosso always refreshing made in Atlanta e mi sentivo trasgressivo a passare lì con la mia magliettina Pepsi, manco fosse stata la T-shirt del chinotto Neri (mia vera passione gasata da sempre non so nemmeno più se per il sapore se per il gusto vintage o se per il leggendario slogan palindromico dei primi tempi, «se bevi neri ne ribevi», che mi è sempre sembrato geniale) e mentre chiudo la parentesi e rialzo lo sguardo attorno a me è cambiato lo scenario, la sala è ormai quasi piena, vedo qualche faccia che riconosco da ieri, saremo più di venti ormai, il juke box si contende la frequenza del rumore di fondo con il macinino elettrico che fa saltellare grani di caffè per trasformarli in polvere, ricordati che sei polvere, dust to dust, another one bites the dust, bites come bocconi, e anche come quel libretto che feci venticinque anni fa, Beats and bites, che parlava proprio di questa gente qui, quelli un po’ beati e un po’ battuti, e c’era la mia amata «intervista dell’uccellino» a diarioFerlinghetti, del giorno in cui lo avevo conosciuto, Good morning guys e nel frattempo si riempie il tavolo rettangolare qui accanto quello col piano ricoperto da un mosaico, un signore col piumino azzurro Patagonia che assomiglia a Stephen King seduto di fronte a una simil-Miranda July, resisto alla tentazione che ho da quando ho messo piede qui di fare foto, avevo pensato di mettere il cellulare dietro di me e fare un’ora o due di stop motion per vedere il bar riempirsi ma poi mi sono detto come già prima di me Sartre e qualche altro migliaio di persone, e allora a cosa servono le parole, e quindi eccomi qui a continuare il flusso ininterrotto, mi sono distratto poco, il cappuccino ormai sarà freddo, non lo sorseggio da un po’ («ham and cheese?», chiede ora il barista, che non trova il legittimo proprietario del sandwich mattutino, la colazione dei campioni, chissà se Vonnegut è mai stato in questo bar?) e anche quella girellona con mandorle cannella e uva passa, ecco, l’ho addentata adesso, aspettava da un quarto d’ora buono che mi ricordassi di lei, non voglio interrompermi, mi fa un po’ male il braccio perché sin dall’inizio mi sono messo in una posizione poco comoda ma dovrei girarmi e smettere per un istante di scrivere e non mi sembra il caso, non mi sembra proprio il caso, rischierei anche di tornare indietro e rileggere quello che ho scritto finora e non mi va, voglio andare dritto come un fuso, come un fuso orario, fuori orario fuori tempo massimo (sì ormai è proprio freddo e ancora più imbevibile) un nuovo arrivato al tavolo di Stephen King si soffia il naso rumorosamente e quando lo toglie dal fazzoletto mi accorgo che è il naso più perfettamente triangolare che abbia mai visto, sembra disegnato, forse è disegnato, certo che è disegnato, non sono disegnato anche io, così come sono, per esempio chi dovesse disegnarmi quest’anno non potrebbe non disegnarmi con l’unico maglione che ho indossato tutto l’inverno ogni singolo giorno come una scaramanzia come una speranza come una preghiera (madonna entra uninvited e unexpected in questo racconto, con un citazione involontaria) il mio maglione verde di Muji. Il ragazzo col cappellino a righe che sembra fatto a mano come lo disegnerei se sapessi disegnare se non con quei trattini che indicano il movimento, il movimento di strofinarsi forte la carta di credito smagnetizzata sulla maglietta acquamarina indubbiamente troppo leggera per la temperatura di oggi, e prima di infilarla ancora una volta senza successo nell’ATM che occupa il posto di un vecchio telefono a gettoni, non riesce a prelevare mentre The King a un tono di voce un po’ troppo alto ed eccitato dice «seven billion dollars in your taxes» a Naso Triangolare. Capto un «it’s a win win» che arriva da un altro tavolo ma non voglio alzare lo sguardo, voglio restare su questa frase, su questa riga prima che arrivi alla fine prima che diventi la riga successiva voglio stare qui e ricordarmi di quel mio maglione viola, il mio primo acquisto da Gap quando era una marca esotica, quello troppo lungo troppo largo troppo grunge che mi allacciavo in vita nei miei anni leboswkiani e per il quale mi ricordo bene mi giudicò malissimo per il mio abbigliamento certo non impeccabile (nike da basket, pantaloncini blu a costine similvelluto ma leggerissimi, maglietta di braccio di ferro «I yam what I yam», occhiali da sole con lenti colorate, e maglione legato in vita, cappellino di cotone blu all’epoca inseparabile soprattutto per il motorino perché il casco non era obbligatorio e i capelli andavano dappertutto e poi serviva a coprire le cuffie del discman vietato be’ sì capisco, capisco, anche io mi guarderei male se mi vedessi camminare vestito così) solo che chi mi giudicò malissimo per quel ridicolo abbigliamento non era il l’assistente di un direttore d’orchestra alla vigilia della prima, era l’ufficio stampa del concerto di Patti Smith che insomma scaracchia sul palco mentre canta e legge Howl di Ginsgerg durante i concerti, è Patti Smith cazzo e tu mi giudichi male quando mi presento ai camerini dopo il sound check a Venezia perché la devo intervistare per il manifesto (e non, di nuovo, per il Wall Street Journal) e mi dice «ah, lei sarebbe il giornalista?», «sì sarei io e dovrei intervistare Patti Smith» e per fortuna mentre mi squadra e sta per mandarmi via dalle spalle della cerbera arriva lei, la divina Patti, a salvare la situazione perché chissà come si ricorda di avermi conosciuto tempo prima a una cena con Mario Martone a Roma (la cena della famosa storia dell’anello, ma non posso raccontarla qui se no diventa frappuccino) e mi saluta e mi dice «Ok come in but you can’t ask me again if you can publish my poems». E insomma eravamo al maglione viola credo e non posso più voltarmi indietro sono l’orfeo di questo testo euridiceo e posso andare solo avanti, si è deciso così chissà quando e perché e allora scrivo scrivo scrivo sono le zero otto e zero otto dice lo schermo del mio computer, e dice anche che ho l’ottantatré per cento della batteria, ok, e che è sabato ventitré marzo, quindi quindi quindi è domani il compleanno di Ferlinghetti, chissà perché me lo sono sempre ricordato, certo quest’anno è facile perché gli anni sono cento, ma per qualche motivo da almeno quindici anni me lo ricordo sempre, e gli mando sempre gli auguri e lui mi risponde sempre, mi chiede sempre come va o mi consiglia un libro da leggere o da pubblicare, mi chiede qualcosa sul vecchio mondo o mi suggerisce di resistere, o mi cita Pasolini o mi risponde solo grazie e immancabilmente finisce con «Abbracci, Lorenzo», e solo l’anno scorso per la prima volta non mi ha risposto lui ma mi ha risposto il suo assistente Mauro, dicendomi per la prima volta un anno fa che Lawrence non vede più, ed è lui Mauro ora a leggere e rispondere, e aggiunge che Lorenzo manda abbracci, e io penso a Ferlinghetti che anni fa ha scritto «io sono il poeta cieco», io me lo ricordo tutti gli anni di questo compleanno, e in questo preciso momento mi ricordo anche che il 24 marzo è anche il compleanno di Alessio Conti, chissà se qualcuno gli leggerà questa riga in cui qualcuno cita il suo nome, Alessio Conti allievo eccellente della Sapienza a Roma quando io, già editore, proprio perché editore in ritardo sul mio piano di studi universitari e terminati quindi i rinvii del militare a mia disposizione, faccio per un anno, tra il 1994 e il 1995 il servizio civile all’Adisu, accompagnando studenti disabili e tra questi Alessio Conti, cieco, ora credo si possa di nuovo dire cieco, in quegli anni erano gli anni del politically correct ma Alessio stesso che era cieco si incazzava se gli dicevano non vedente, lui diceva io non sono non vedente sono cieco, e aveva una media secca del trenta e lode, era bravissimo in tutto e gli portavo fortuna e lo accompagnavo a fare gli esami e lo aspettavo fuori, e poi lo riaccompagnavo in metropolitana ad Anagnina, ultima o prima fermata di una delle due sole linee di metropolitana di Roma, e una volta uscito dall’esame mi disse una cosa che ancora ricordo benissimo perché io lo sapevo ma lo sapeva anche lui di essere bravissimo e mi disse che quando si era seduto il professore gli aveva chiesto «lei che programma porta?» e lui aveva risposto «lo scibile umano», e insomma questo Alessio cieco come il poeta aveva, cioè ha, il suo compleanno anche lui il ventiquattro marzo, e come faccio a ricordarlo?, per il motivo per cui si ricordano cose forse poco importanti che improvvisamente mostrano tutto il loro senso, me lo ricordo anche perché la sua data di nascita era il pin della sua tessera elettronica dello studente e ormai l’avevo imparata perché dopo ogni esame fatto «insieme» (sembra siano stati mille, nel ricordo di ora, forse saranno stati un paio o al massimo tre) andavamo a controllare se il voto era stato registrato, e se era stato registrato bene. Poco meno di due ore che sono qui e lo scenario è cambiato di nuovo, il tizio del volo in Argentina chiede al suo vicino Do you read spanish? e gli passa un libro di Neruda (mentre digito questa frase mi attira l’attenzione il contatore di parole qui sotto che mi dice, mi diceva, mi ha detto «4444 parole» e sono queste le cose che davvero contano nella vita, non è vero? che mentre uno dice Read this poem by Neruda, le parole sono quattromilaquattrocentoquarantaquattro e ommioddio ho davvero scritto così tanto? quante saranno le parole delle poesie di Neruda? Il tipo risponde che non legge lo spagnolo e allora adesso voglio leggerla io quella poesia, e poi mi chiedo se il libro di cui non riesco a vedere la copertina perché la luce gli si riflette sopra non sia per caso l’edizione della Pocket Poets Series di City Lights, vorrei chiederglielo per entrare nella conversazione su Neruda e non descriverla soltanto qui dai margini del tavolo ad angolo, ma poi chi descriverebbe la scena di me che leggo Neruda? Credo valga la pena rischiare questa momentary lapse of vision, e vado a chiedere la poesia, voglio sapere che poesia è, e poi magari la trascrivo qui:

Matilde, nombre de planta o piedra o vino,
de lo que nace de la tierra y dura,
palabra en cuyo crecimiento amanece,
en cuyo estío estalla la luz de los limones.

inizia così ma facciamo un po’ di suspence perché adesso continuo a leggere e poi torno qui tra un po’.

Eccomi, ho letto Mañana, una sezione del libro (non l’edizione City Lights ma un’edizione solo in spagnolo, comprata chissà quanti anni fa, mi dice il tizio, ma avevo voglia di leggerla oggi, legga qui, e mi apre una pagina dove inizia una sezione che si chiama Mañana, leggo quei primi quattro versi che ho trascritto poco fa, poi dopo averli trascritti torno al libro e mi ci tuffo dentro: sono trentadue sonetti quella sezione e mi dispiace tanto perché mi sarebbe piaciuto fossero trentatré, ma in quel momento non ci penso perché accorgermi che sono trentadue succede solo alla fine, prima ci sono tante parole d’amore, c’è un tu che è tante cose, che è luce che è sole che è sale che è terra, c’è un tu che è Sur, c’è un io che dice ti amo come questo e come quello e non sono mai cose banali, ce n’è un’altra che mi sono appuntato e dice più o meno Ti amo come la pianta che non fiorisce e porta nascosta, dentro sé, la luce di quei fiori. Le grandi poesie d’amore come le grandi canzoni d’amore hanno sempre dentro sé un grumo di pericolo, il rischio di essere patetici, di usare facili parole perché le parole d’amore sono quasi sempre tanto difficili da dire quanto facili da pensare (words, don’t they come easy?) e insomma arrivo alla fine di questo poemetto, il tempo di dispiacermi per il mancato trentatré e si apre la pagina della nuova sezione che si chiama Mediodía, giro per vedere come inizia e sorprendentemente il primo sonetto non ricomincia la numerazione da uno ma è un felicissimo sorridente tondissimo trentatré che poi è un bel gruppetto di tre X seguite da altrettante I (sono dunque io l’ex in questione? un io e un ex che si riflette in due specchi moltiplicandosi per tre?) e dice «Trentatré», e poi: «Amor, ahora non vamos a la casa» e l’amore non è sempre un andare a casa? sentirsi a casa, finalmente arrivati dove si voleva, dove si sperava, dove si cercava faticosamente di arrivare? Ma per fortuna non faccio a tempo a pensare a tutto questo perché al tavolino di fronte al mio dove è seduto un a specie di John Updike (o di Corrado Augias che è un po’ lo stesso) magrolino e con gli occhiali, sta succedendo qualcosa. Rabbit ha le spalle al bancone e curiosamente è seduto con lo sguardo rivolto a me che sto in un angolo, e alle sue spalle vedo succedere qualcosa, si avvicina una persona con una fetta di torta alle carote, torta americana con quell’odioso spessissimo strato di glassa bianca su questa piramide di Cheope alle carote inclinata per il grande terremoto del novecentosei e poi tira fuori dalla tasca un accendino bic e fa un cenno con la testa al quale tutti, io compreso ovviamente, intoniamo un happy birthday to you, mi viene da mettere un dear Rabbit al punto in cui dovrei dire il nome di questo Corrado Updike che non conosco ma a cui sto cantando la canzone di buon compleanno e il tutto succede mentre lui sta parlando al telefono e sulle prime (come piace l’espressione «sulle prime») non si accorge e continua la telefonata, all’inizio (sulle prime cioè) un po’ spazientito perché sente questa agitazione attorno a sé e quindi alza il volume della voce poi si rende conto che il rumore è per lui, che gli stanno cantando tanti auguri, che gli stiamo cantando tanti auguri, e con un certo aplomb dice al suo interlocutore (che poi scoprirò essere un’interlocutrice perché finita la canzone si sente la sua vocina arrivare dal telefono ed è una voce di donna apparentemente su di giri per quanto è appena successo) «aspetta perché mi stanno cantando tanti auguri», quindi lascia terminare la canzone, spegne la fiammella del bic, ringrazia, si alza in piedi fa una lenta piroetta facendo perno su una gamba e roteando il busto con l’altra per abbracciare con lo sguardo tutti gli astanti auguranti ringrazia ringrazia ringrazia a 270° e si risiede e riprende la telefonata dove l’aveva interrotta, e arriva la vocina ben più eccitata di lui e lui dice come direi io con lo stesso imbarazzo di quando mi fanno gli auguri «sì mi hanno cantato tanti auguri» cercando di riprendere il discorso senza soffermarsi sul fatto che è il suo compleanno e in un bar di San Francisco una piccola folla fatta indubbiamente in parte di amici ma altrettanto indubbiamente anche in parte da sconosciuti come me gli ha cantato api bordai come direbbe Cortázar (altro autore latinoamericano pubblicato tra i poeti di City Lights). E insomma subito dopo essermi staccato un attimo da questa scena vissuta due volte (una prima cantata e una seconda raccontata – ho resistito alla tentazione lirica di dire: e una seconda contata) per rispondere a una telefonata di Enrico Deaglio (ci siamo dati appuntamento al Caffè Vesuvio domattina alle dieci e mezza, lo scrivo anche perché funzioni da promemoria, ove mai proprio domani il jet lag dovesse darmi tregua) mi rendo conto che le parole sono diventate più di cinquemila e può convenire fare una pausa. Che forse farò solo quando sarò arrivato a 5555, una specie di quadrizona alla Oronzo Canà, altro poeta illustre ancorché non pubblicato, mi pare di ricordare, da City Lights.

© Marco Cassini, 2019. Tutti i diritti riservati.

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