Lacey Woman

Voglia di sparire

Catherine Lacey Autori, BIGSUR, Scrittura

Catherine Lacey, autrice del romanzo Nessuno scompare davvero, riflette sul rapporto tra lo scrittore e i suoi personaggi. L’articolo è originariamente apparso su Buzzfeed ed è qui riprodotto per gentile concessione dell’autrice.

di Catherine Lacey
traduzione di Teresa Ciuffoletti

La giornalista mi chiese se avessi mai sofferto di depressione clinica.

Stavamo parlando al telefono. Io camminavo per uno dei tratti più deprimenti di Gowanus, un quartiere già mezzo deprimente di suo. Il cielo si faceva sempre più scuro. Il canale puzzava.

Per un lungo momento non dissi niente, poi ripetei la sua domanda.

«Mi sta chiedendo se me l’hanno mai… diagnosticata?»

Non è che fossi poi così sorpresa. Aveva appena letto il mio libro, la storia dello sfacelo psicologico di una donna, e l’avevano incaricata di scrivere un profilo su di me, una donna che (guarda caso!) non era psicologicamente uno sfacelo. Fu così che conobbi per la prima volta la specifica forma di frustrazione che deriva dall’essere identificata con un personaggio immaginario. Non avevo mai temuto che la mia famiglia e i miei veri amici mi confondessero con Elyria, la donna squilibrata al centro del libro. E non è che m’importasse più di tanto se dei completi sconosciuti davano per scontato che il romanzo fosse, così come tanti romanzi d’esordio, un’opera autobiografica con gli occhiali scuri e il foulard in testa. Ma in quel momento a Gowanus mi resi conto che quando i giornalisti si mettono a stanare le somiglianze tra gli scrittori e i loro protagonisti non è solo una roba noiosa e da pigri, è un insulto al senso stesso dello scrivere romanzi.

Dicendo alla giornalista che non ero mai stata clinicamente depressa rischiavo di sminuire la veridicità dell’esperienza emotiva del personaggio principale, ma dicendo di sì avrei alimentato l’idea che gli autori si distinguono dai propri narratori per il nome e poco più. Idea che viene applicata in particolar modo a chi si azzarda a scrivere in prima persona, e ancora di più, mi pare, alle autrici donne, come se non potessimo partorire nient’altro che copie di noi stesse.

Messa alle strette dalla giornalista le dissi che secondo me tutti prima o poi sperimentano la depressione, con o senza diagnosi. Chiunque abbia trascorso più di un paio di minuti con un bimbo di due anni dovrebbe sapere che ci sono una rabbia e una sofferenza abissali in ogni essere umano, e chiunque sostenga di esserne immune mente o non capisce nulla di emozioni.

Ma lei seguitò, raccontandomi di come una sua vicina nelle fasi peggiori non riuscisse ad alzarsi dal letto per giorni. Avevo mai provato qualcosa di simile?

«Io riesco sempre ad alzarmi dal letto», le dissi, il che pose fine alla questione.

Nelle interviste successive questa domanda ha continuato a manifestarsi in una forma o nell’altra: fino a che punto il libro è reale, o basato su una storia vera? Quanto c’è di te nella narratrice e quanto della narratrice in te?

Ho disegnato mentalmente un diagramma di Venn: Elyria, Me, e Elyria/Me. Entrambe siamo state in Nuova Zelanda. Entrambe abbiamo fatto l’autostop. Entrambe tendiamo a essere solitarie. Ma Elyria non ha alcun senso dell’umorismo; io riesco a ridere più o meno di tutto. Lei dorme nei parchi e nelle rimesse e nei granai pericolanti; io non sono mai stata altrettanto avventurosa o disperata. Elyria è quasi incapace di prendersi cura di sé, io invece ci riesco. Lei odia socializzare; a me non dispiace affatto. E anche se a volte so essere una rompiscatole, o una persona quasi disfunzionale, o antisociale — be’, chi non lo è ogni tanto? La sola differenza che davo per certa era che io non sarei mai sparita senza avvertire la mia famiglia, cosa che Elyria fa a pagina uno. Sparire per me non aveva alcuna attrattiva.

Credevo che fosse vero. Pensavo di esserne certa.

Il titolo del libro, Nessuno scompare davvero, è arrivato dopo una serie di titoli provvisori non proprio azzeccati, quando mi sono resa conto che questo verso di «Dream Song 29» di John Berryman, una poesia che conoscevo quasi a memoria, era perfetto. Estrapolato dal contesto diventa un’affermazione generica che è vera da certi punti di vista e profondamente falsa da altri, e una volta scelto questo titolo ho cominciato a notare con più attenzione le persone e le cose che, a quanto pare, scompaiono davvero.

Di tanto in tanto il mio quartiere è costellato di annunci che descrivono persone scomparse, e io ne sono sempre attratta. Mi metto a fissare le fotografie sbiadite, fotocopiate, cerco di scovare un qualcosa in quegli occhi nebulosi. Sono passati 19 giorni. Ha un tatuaggio raffigurante una sfinge. L’ultima volta è stato visto a Carroll Gardens. Lui magari lo conosco, penso; lei potrei averla vista, anni fa, in fila al supermercato. Anche se so che è improbabile, mi piace immaginare che non ci sia stato nessun crimine o suicidio, che le persone ritratte in queste fotografie sfocate siano scomparse di propria iniziativa.

Poco tempo fa un’amica a una cena ha accennato al fatto che Agatha Christie scomparve per un anno intero e poi tornò da suo marito, rifiutandosi per il resto della sua vita di dirgli dove fosse stata.

«No!», ho detto. «Questo è il mio sogno!» Solo in quel momento, sentendomelo dire, mi sono accorta che era vero. Non volevo scomparire in un modo che rendesse necessari volantini e squadre di ricerca, ma l’idea di andarsene e basta mi aveva sempre affascinato. Perché non l’avevo capito prima?

In verità, come ho scoperto in seguito, Agatha Christie era stata via per soli undici giorni prima che la rintracciassero in un hotel, registrata sotto falso nome, ma l’idea di andare via per un anno, di avere a disposizione un anno di tempo inosservato, quella lunga e morbida distesa di giorni in solitaria, lo stato meditativo di chi parla a malapena, quando chiunque ti veda è uno sconosciuto, quando sai che verrai dimenticato da quasi tutte le persone che incroci… insomma, considerando quanto voglio bene ai miei amici e alla mia famiglia, è quasi inconcepibile che io nutra un desiderio così forte per questo genere di solitudine. Ogni cosa diventa così effimera… ha qualcosa di sacro.

È stato dopo quella cena che mi sono resa conto di quanto sparire fosse in alto nella mia lista di sogni a tempo perso; è forse la cosa che mi accomuna di più, e non di meno, a Elyria. Se in qualche modo potessi sparire per un po’ senza mettere in ansia nessuno dei miei cari, lo farei. Anche solo per qualche mese, ed effettivamente ci sono andata vicina, nel corso degli anni, viaggiando in Nuova Zelanda, Giappone, Europa e America Centrale. (Benché in ogni caso tutti sapessero dov’ero diretta, il che smorzava l’eccitazione.) Tendenzialmente quando vado via evito di telefonare a casa o di usare internet e addirittura di parlare con le persone del posto, se posso farne a meno. Piuttosto mi godo il permesso provvisorio di sparire.

Perché c’è voluto che mi sforzassi di separare me stessa dalla protagonista del romanzo per riuscire a cogliere una delle somiglianze più elementari tra di noi? Dietro la mia presunta voglia di viaggiare si celava un vero amore per l’irreperibilità.

Quando ripensiamo a come eravamo da giovani tendiamo a dire: «Eh vabbè, ero giovane e stupido», ma dirsi stupidi è una facile scappatoia. L’alternativa più inquietante è che da giovani avessimo una maggiore capacità di autoilluderci, di fabbricare un miraggio e investirci sopra. Accettare questo però significa accettare l’alta probabilità che ci stiamo tuttora autoilludendo, che qualcosa di cui siamo fermamente convinti in questo momento sia di fatto una menzogna.

Quando il pezzo della giornalista è uscito, io sono stata descritta come una persona «non estranea alla demoralizzazione». Inoltre, circa un quarto del profilo è stato dedicato a sviscerare un articolo che ho scritto cinque anni fa sulla mia esperienza di donatrice di ovuli. Quell’esperienza non aveva niente a che fare con il romanzo o il mio presente. Ma agli occhi della giornalista io ero una donatrice di ovuli depressona che aveva scritto un libro. Un’ulteriore dimostrazione del fatto che ognuno vede la storia che vuole vedere.

Quello che dovrei dire a chiunque dovesse rifarmi quella domanda è che nessuno scrittore può dire con sincerità quali parti dei suoi personaggi siano mutazioni di sé stesso o facsimili o pure invenzioni. Non esiste alcun diagramma di Venn, nessuna linea di confine netta tra l’invenzione e la realtà. Siamo tutti creatori di storie.

© Catherine Lacey, 2014. Tutti i diritti riservati.

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