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I fantasmi di Donoso

Francesca Lazzarato José Donoso, Recensioni, SUR

Apparso per la prima volta nel 1978, ritorna in libreria per la casa editrice Cavallo di ferro in una nuova traduzione «Casa di campagna», considerato il capolavoro del grande scrittore cileno.

di Francesca Lazzarato

Che il Cile sia «terra di poeti», più che di grandi narratori, è un luogo comune assolutamente vero e a smentirlo non basta l’esistenza dei molti buoni scrittori del passato e del presente, di outsider come il geniale Pedro Lemebel o di astuti fabbricanti di best seller come Sepulveda e la Allende. Ci sono tuttavia almeno due eccezioni, due nomi che svettano su tutti gli altri: quelli di José Donoso e di Roberto Bolaño, autori differentissimi e appartenenti a generazioni diverse, ma entrambi collocabili senza esitazioni tra i più grandi romanzieri di lingua spagnola del ‘900. L’immenso successo postumo del secondo negli Stati Uniti, complice il parere entusiasta di Susan Sontag (ma anche l’equivoco di una fantasiosa mitologia mediatica che lo ha presentato ai lettori americani come un nuovo Borges «maledetto», vittima della dittatura di Pinochet), è stato una delle sorprese di questi anni, tanto che, tradotto in tutto il mondo nonché amatissimo da un pubblico vasto e appassionato, oggi è forse più noto di Donoso, del quale aveva detto a suo tempo: «Ha scritto alcune opere notevoli, il resto non è granché». Un giudizio severo, che conferma i difficili rapporti di Bolaño con l’ambiente letterario cileno e che si potrebbe estendere a chiunque, incluso lui stesso, se si pensa a inediti non memorabili come quelli che vanno ora apparendo: l’ultimo è El tercer Reich, romanzo giovanile di cui neanche Jorge Herralde, che lo pubblicherà nel 2010, riesce a tessere un pieno elogio.

Malinconiche profezie

Qualunque cosa ne abbia detto Bolaño, l’opera di Donoso (una dozzina di romanzi, molti racconti, un bel libro di memorie) è di straordinaria qualità, anche se non sempre lo scrittore ha maneggiato con la medesima fermezza tutti i registri narrativi che gli piaceva sperimentare, cambiando stile, tecnica, strategie, e facendo di questi mutamenti una precisa scelta estetica. Inoltre Donoso è stato il primo autore cileno a riscuotere un autentico successo internazionale negli anni del cosiddetto boom latinoamericano, del quale viene considerato un esponente di primo piano, anche se le sue opere sembrano puntare in un’altra direzione e, come sottolinea il critico argentino Claudio Zeiger, si avvicinano più «ai belli e deformi di Mujica Lainez, ai divi e alle dive di Puig, al cinema di Ripstein e in parte di Almodóvar, che ai testi canonici del boom».

Nonostante tutto questo, e pur potendo aspirare già in vita alla statura di «classico moderno», poco prima di morire Donoso avrebbe detto all’amico e allievo Carlos Franz: «Tra dieci anni non mi leggerà più nessuno». Una malinconica profezia che, per quanto riguarda l’Italia, è diventata realtà sin troppo in fretta. Se l’ultima edizione nella nostra lingua del magnifico L’osceno uccello della notte (1970) risale al 2003, già da tempo l’abisso del fuori catalogo ha inghiottito altri titoli donosiani usciti per editori come Feltrinelli, Garzanti, Bompiani, Frassinelli. E altri suoi testi importanti, come El jardín de al lado, Donde van a morir los elefantes o il postumo, tenebrosissimo El Mocho, non sono mai stati presi in considerazione dall’editoria italiana.

Una cancellazione così radicale trasforma dunque in un piccolo avvenimento la scelta dell’editore Cavallo di Ferro di riproporre Casa di campagna (pp. 437, euro 18), romanzo considerato la obra maestra di Donoso, in una nuova traduzione di Cinzia Buffa che segue a quella di Angelo Morino per la prima edizione italiana (Marulanda: la dimora di campagna, Feltrinelli 1985). Un repêchage eccellente, in linea con la nuova attenzione che in Europa come negli Stati Uniti circonda la letteratura di lingua spagnola (e che, con la debita lentezza, pare risvegliarsi anche in Italia), ma soprattutto il segno che la memoria del boom, inteso come moda letteraria, è impallidita quanto basta perché opere e autori vengano finalmente riletti in altra luce. E se oggi alcuni possono apparirci come semplici gadget anni ’70, altri sembrano misteriosamente migliorare col tempo e si offrono a una sorprendente pluralità di letture.

Casa di campagna, apparso per la prima volta nel 1978 e vincitore dello spagnolo Premio de la Crítica, ci appare subito come uno di questi ultimi: un romanzo labirintico e straordinariamente avvincente che a suo tempo è stato letto come un’allegoria del colpo di stato del 1973, elusiva e piena di suggestioni: i potenti Ventura, padroni di inesauribili miniere d’oro, rappresenterebbero la borghesia cilena e l’oligarchia che ne è stata a lungo espressione politica, mentre il medico Adriano Gomara, prima cooptato dalla famiglia e poi rinchiuso perché considerato pazzo, sarebbe un «doppio» di Salvador Allende. E a Marulanda, casa di campagna circondata da un recinto che include le diciottomila lance di ferro portate via agli indigeni in tempi remoti, toccherebbe il compito di rappresentare un’intera nazione, il Cile. Ma anche se è stato l’autore stesso a confessare che l’annuncio del colpo di stato lo aveva spinto ad abbandonare un altro romanzo (Lagartija sin cola, mai concluso e ritrovato fra le sue carte dalla figlia Pilar) per dedicarsi alla stesura di Casa de campo, una lettura del genere risulterebbere gravemente riduttiva.

Il gusto della metamorfosi

jose-donosoNon siamo, infatti, di fronte a un romanzo «a chiave» legato a un preciso contesto storico-politico, ma a una narrazione ricchissima, suscettibile di molte e diverse interpretazioni, in cui si possono riconoscere gli echi di innumerevoli altre opere letterarie, dal Signore delle mosche a un’Alice nel paese delle meraviglie rivista in chiave gotica; ma soprattutto Casa di campagna contiene i temi più cari allo scrittore, quelli che attraversano tutta la sua opera: la decadenza di una borghesia che, osserva Donoso, «crea un codice chiuso dettando le norme del buongusto, la morale, il male e il bene, le leggi»; il confronto durissimo tra ricchi e poveri, tra servi e padroni; la discesa nella follia, che è insieme simbolo del declino di una casta e del rifiuto di riconoscerlo; la predilezione per il travestimento, la metamorfosi, la maschera, che alcuni collegano alla sua decisione di non rivelare (anzi di non vivere) la propria omosessualità, affiorata solo in anni recenti dai diari ora in possesso di un’università americana; e infine la presenza del mostruoso, di un corpo che si fa riflesso di spettri interiori, «tutti i fantasmi di quel Cile reazionario, residuale», in cui Donoso era cresciuto e che gli ripugnavano e lo attiravano allo stesso tempo.

Casa di campagna è insomma un concentrato della letteratura donosiana e sembra riflettere l’avverarsi dell’inconscia profezia sulla tremenda frattura del ’73, contenuta nei primi quattro romanzi scritti prima del lungo soggiorno spagnolo: Coronación (1957), Este Domingo (1966), El lugar sin límites (1966 ) e soprattutto El obsceno pájaro de la noche (1970), imperniati attorno al contrasto tra un luogo chiuso (un palazzo, un bordello, un convento, una casa di famiglia) in cui regna un sinistro ordine consolidato attraverso riti, miti e gerarchie, e un esterno per definizione minaccioso, che cerca di spezzare recinti e barriere.

L’immensa magione campestre dei Ventura è la summa degli spazi in cui privilegio e potere si asserragliano: collocata al centro di una pianura colonizzata da altissime graminacee e abitata da invisibili «selvaggi» presunti antropofagi, la casa ospita nei sotterranei una folla di servitori che di giorno obbediscono agli ordini e di notte esercitano un’autorità spietata sui bambini di casa. Nella torre, appartata ma ben visibile, è rinchiuso il medico Adriano, sorvegliato da custodi quasi bestiali che non riescono a impedirgli di gridare le sue verità. E ai piani superiori abitano i sette membri adulti della famiglia e i trentatré bambini e adolescenti da loro generati, ai quali, però, diverse zone dell’edificio sono interdette, perché il potere degli adulti sta, oltre che nella confezione di dogmi da accettare senza condizioni, anche negli infiniti limiti imposti alle attività e ai corpi dei più giovani.

È della distruzione o del sovvertimento di questi limiti che parla il romanzo, raccontandoci della partenza di padroni e servi verso un luogo imprecisato e meraviglioso, allo scopo di rompere con una gita la monotonia dei giorni estivi e anche per il sotterraneo timore che bambini e ragazzi, di cui viene riconosciuta l’eversiva, innata alterità, stiano progettando la rivolta. E nella casa temporaneamente abbandonata dai «grandi» i cugini prendono il potere, dispiegando gli intrighi e le intimità incestuose che già li tenevano segretamente impegnati e giocando fino in fondo al loro gioco preferito, quello di una realtà alternativa chiamata «La Marchesa uscì alle Cinque».

Un misterioso sudario

Lasciati a se stessi, si appropriano della casa, la esplorano, la trasformano, stabiliscono alleanze con gli «antropofagi», fanno conoscenza con Adriano che il figlio Wenceslao – bambino costretto dal capriccio della madre a indossare i panni femminili di una poupée diabolique – ha liberato. L’impeto di un’infanzia perversa e polimorfa che gli adulti non sono riusciti a piegare dà corpo a tutti i fantasmi del desiderio e rompe il «fitto velo» teso sulla realtà («Siamo Ventura, Wenceslao, perciò non dobbiamo dimenticare che l’apparenza è l’unica cosa che non inganna»), che neppure il ritorno di genitori e zii saprà ricomporre. Ma, mentre i «grandi» affermano di essere rimasti lontani solo per un giorno e i bambini parlano di un’assenza durata un anno, un nuovo velo, quello imposto dalla nevicata di pappi espulsi dalle erbe di pianura, avvolge come un sudario tutta la casa, dove ormai solo le figure degli affreschi sembrano vive. Il lenzuolo di pappi ha dunque livellato le differenze tra padroni e servi, tra potenti e diseredati, tra adulti e bambini? No, le cose non stanno così: un’elite minuscola e ancora più chiusa è sfuggita alla coltre bianca e, sostenuta da potenti stranieri venuti di lontano, esclude tutti gli altri…

Grandioso, scintillante, complesso eppure leggibilissimo (l’autore lo paragonava apertamente a un romanzo di avventura), animato dalla dimensione allusiva, parodistica e ironica tipica di gran parte dell’opera di Donoso, Casa di campagna non si limita ad avvincere, a sedurre con immagini ora oscure ora luminose, a proporre un gioco fatto di singolari strategie, di innumerevoli significati e travestimenti carnevaleschi, ma mette in questione la natura stessa della narrativa.

Il racconto, infatti, è attraversato dalla voce di un narratore onnipresente e onnipotente che crea un universo e allo stesso tempo ci spiega i procedimenti di questa creazione, decidendo di rendersi visibile come Cervantes quando, all’inizio del Chisciotte, si rivolge direttamente al desocupado lector, quasi a mettere in chiaro che la storia raccontata è un prodotto dell’immaginazione ed esiste solo nella sua mente. Ma presto ci rendiamo conto che l’autore-narratore così pronto a esporsi è anche lui pura finzione, un personaggio tra i tanti che ha creato. Cosciente, come il piccolo Wenceslao travestito da bambina, del fatto che dietro unamaschera c’è sempre un’altra maschera, il «vero» narratore continua perciò a nascondersi, a travestirsi, a suggerire che solo attraverso l’illusione si può davvero leggere la realtà. Una cosa che tutti i bambini, e non solo i piccoli Ventura, hanno sempre saputo.

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