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Diario americano | 4

Marco Cassini BIGSUR, Reportage, Società

Continua il viaggio di Marco Cassini negli Stati Uniti per i 100 anni di Lawrence Ferlinghetti. Pubblichiamo oggi un nuovo episodio del suo diario.

[clicca qui per leggere l’episodio precedente]

 

Prima o poi doveva succedere. Oggi il jet lag mi ha dato un po’ più di tregua e mi sono alzato tardi: alle 5.17. Avevo opportunamente finito la giornata riguardandomi Pulp fiction fino all’una di notte guadagnandomi in tal modo la mezz’ora di sonno in più progressivamente conquistata ogni giorno successivo rispetto al precedente, arrivando così dalle tre e mezza del primo risveglio californiano fino al lussuosissimo indugiare di stamattina. E insomma mi sono attardato, ho ascoltato un po’ di Rai Play, ho risposto a qualche mail e messaggio (oggi c’era da approvare la copertina di Trance di Alan Pauls) e quindi sono arrivato al Caffè Trieste solo alle sette passate. Ed ecco che qualcuno ha pensato che fossi partito o che avessi cambiato bar o orari o abitudini e ha osato impunemente prendere il mio posto accanto al piano verticale dove il patron del locale, Giovanni «Papa Gianni» Giotta, che per un soffio non ha tagliato anche lui il traguardo del secolo, andandosene nel giugno 2011 a soli novantacinque anni, dev’essersi seduto migliaia di volte per intrattenere i suoi clienti e la sua famiglia numerosissima che compare in molte foto sulle pareti del bar (anche se a giudicare dalla postura di questi ritratti Papa Gianni era più un crooner che riesce a cantare solo in piedi). Tra le foto, oltre a Morandi e Ferlinghetti che si occhieggiano dalla panca al juke box, c’è sempre Gianni che si accompagna volta a volta a «Burt Lancaster (famous actor) 1971 birthday celebration» e a Luciano Pavarotti nel settantanove, e con Bill Cosby nel settantotto e poi eccolo al tavolo mosaicato (allora non ancora mosaicato) seduto accanto a Francis Ford Coppola che con la sua macchina da scrivere portatile gialla scrive in questo caffè la sceneggiatura del Padrino. Il tavolo grande allora non stava accanto al piano ma da questo lato, lungo la parete con la panca dove oggi ho deciso di sedermi, a una rispettosa distanza di due tavolini tondi dalla mamma di Julie/Giulia. Oggi è di nuovo di turno il barista, che lavora in coppia con un ragazzo italiano a cui si può ordinare un cappuccino grande senza la pronuncia ridicola. E al mio posto oggi c’è un tizio che scrive al portatile come me e chissà se sta scrivendo che da oggi in poi quello sarà per sempre il suo tavolino e chissà se sta descrivendo la fauna locale attardandosi a descrivere questo tizio con le occhiaie che evidentemente ha problemi di sonno anche se è arrivato al bar ben dopo di lui. Proprio mentre prendo questi appunti mentali (e fisici) lui si alza e chiude il laptop e porta la tazza vuota dal lato del bancone dove si portano le tazze vuote e mi viene immediatamente l’istinto di andare a riconquistare la mia postazione. Ma resisto e desisto perché ogni tanto è giusto guardare il mondo da un’altra angolazione e anche se questo bar non è il Nicaragua durante la rivoluzione sandinista, e il mio cappuccino non è una scritta su un muro parigino e anche se i barbudos in questa stanza sono solo dei signori che come me non hanno dimestichezza con il rasoio e anche se il mio cornetto di oggi (un normale cornetto al cioccolato di dimensioni europee) non è un pasto nudo e anche se questa panca non è il banco degli imputati per il processo di censura contro Howl di Allen Ginsberg e anche se il rumore del macinino elettrico del caffè che attacca proprio ora non è il fungo atomico della bomba su Nagasaki credo di dover esserci e scrivere per testimoniare: è una testimonianza minima e inutile e insignificante e se serve solo a me stesso per capire dove sono e che ci faccio a San Francisco ventitré anni dopo la prima volta e cosa significa aver pubblicato un altro libro di Ferlinghetti ventiquattro anni dopo la prima volta e cosa significherà oggi pomeriggio incontrare di nuovo Lawrence venticinque anni dopo la prima volta e cosa significa ancora oggi emozionarsi entrando in una libreria emozionarsi abbracciando una persona emozionarsi ascoltando dei versi e per la storia di chi li ha scritti e perfino per la storia di chi li ha pubblicati e di chi si è battuto per un libro e di chi è stato arrestato per averlo pubblicato. A che serve, a chi serve questa testimonianza?

C’è una storia? Se c’è una storia inizia una ventina d’anni fa. È una storia di quelle di cui dovrei dire «ma questa è un’altra storia» ma è un’altra storia senza la quale questa non ci sarebbe, molto altro non ci sarebbe, quindi vale la pena soffermarcisi. Tanto per cambiare, un mio compleanno in California, questa volta è un road trip, siamo un gruppo di sette adulti e una bambina di due anni, il regalo era stato in gran segreto consegnato nelle mani di Valerio, che per tutti questi giorni di viaggio se l’è tenuto nascosto nello zaino e me lo ha consegnato al momento prestabilito. È uno dei regali più belli che abbia mai ricevuto in vita mia, l’unico che ancora mi commuove a ripensarci a tutti questi anni di distanza. Quando me lo dà ci siamo appena svegliati dopo aver dormito in macchina, io e lui, mentre tutti gli altri si sono infilati, complici i legami familiari che li uniscono e di cui noi due non siamo parte, in un’unica tenda da campeggio. Ci allunghiamo sulle due file di sedili posteriori del pullmino con cui abbiamo viaggiato molte miglia ascoltando a ripetizione e cantando in coro a squarciagola come in un film di Nanni Moretti (o meglio come un film sceneggiato da Francesco Piccolo, che cito per caso senza pensare che è il cugino del Valerio in questione) l’album Californication arrivando fino allo Yosemite Park dove per tutta la notte ci siamo fatti scherzi a vicenda battendo i palmi delle mani sulla carrozzeria o emettendo fruscii misteriosi gridando «all’orso all’orso» per vedere l’effetto che fa. Durante tutto il road trip io ero l’addetto a trovare da dormire, avevo con me una guida di tutti i motel della California e con la vocazione analogica che ormai mi conoscete li scorrevo confrontandoli con le mappe stradali del nostro percorso e incrociando i dati e mentre qualcuno andava a ordinare la colazione a me toccava l’ingrato compito di munirmi di quarters e da un telefono pubblico fare chiamate per trovare posto da dormire per sette lungo il tragitto, con deviazioni massime consentite di una decina di miglia rispetto al percorso prestabilito. A volte si trovava al primo colpo, ma nei paraggi del weekend la cosa si faceva più dura e più di qualche piatto di uova strapazzate col bacon l’ho mangiato tiepido. E a volte si trovavano due stanze per accomodarci tutti e a volte entravano dalla lobby in tre (Alessandra in braccio a uno dei genitori, per impietosire la receptionist di turno) mentre noi altri ci infilavamo a tarda sera direttamente dal parcheggio. Una notte l’ho passata dormendo con la testa sotto il lavandino, solo una volta mi è stato concesso il lusso di dormire in vasca da bagno, ma un paio di notti ho perfino vinto il materasso. E insomma il nove agosto lo inizio ricevendo dalle mani di Valerio un regalo impacchettato con una carta rossa e dentro un fascio di fogli stampati, e questo fascio di fogli stampati è il regalo di Martina, che lo ha consegnato a lui a mia insaputa architettando tutto questo piano prima della partenza, in un’estate in cui non ci parliamo più, abbiamo litigato (ma questa davvero è un’altra storia), e all’epoca ci siamo entrambi da tempo innamorati prima del racconto di David Foster Wallace «Verso Occidente l’impero dirige il suo corso» e poi del testo all’origine di quel racconto ossia «Lost in the Funhouse» di John Barth. Il regalo di Martina è la sua traduzione di questa short story, «Perso nella casa stregata», tradotta solo per me, per noi, per il mio compleanno, per accorciare le distanze (poi, confluirà anche in un libro pubblicato da minimum fax una decina di anni dopo, alla vigilia del mio quarantesimo compleanno). E quindi inizio il mio compleanno, questo è il numero trenta, seduto su un tronco in mezzo alle sequoie e dopo aver fatto l’orso tutta la notte e dopo aver cantato cento volte in coro «Otherside» e «Road Trippin’» e «Around the World» e «Scar Tissue», tutti titoli della cui evocatività mi rendo conto ovviamente solo adesso, e mentre sento arrivare un odore di caffè e mi chiamano per fare la colazione del compleanno ma io devo chiedere a Valerio di dire agli altri di aspettare per favore perché non posso interrompermi e non posso interrompere la lettura e non posso interrompere questo regalo bellissimo e non posso interrompere questo flusso inarrestabile di lacrime di contentezza e di emozione e non posso non posso non posso interrompere la mia visita alla casa stregata perché mi sono perso nel labirinto di specchi e ora sono io Ambrose, «in quell’età delicata», e ho lasciato vincere Magda alla gara di chi vede per primo in autostrada i piloni della centrale elettrica di V—— e allora mentre sono seduto su quel tronco non so ancora, non posso sapere ancora, che in tutti gli anni a venire, e ne sono passati ormai quasi altri dieci, il momento in cui lei dice «Sono quelli?» resterà una delle scene più commoventi della storia della letteratura anche se una commozione solo mia perché con la letteratura ognuno ha le sue questioni private i suoi lessici famigliari le sue feste mobili e insomma sono seduto su quel tronco fra le sequoie a Yosemite ma sono anche a Ocean City, perso nella casa stregata, con Peter e Magda e mamma che mi aspettano all’uscita e lo zio Karl che mi è venuto a cercare, ma prima c’erano stati i pop corn e il tentativo di buttare Magda per scherzo in acqua (e «“Tu dovresti sapere benissimo”, disse allo zio Karl. In tono malizioso. “Che quando una signora dice che non si sente di fare il bagno, un gentiluomo non fa altre domande”») e sembra quasi che non abbia senso continuare, «questa storia non porta nessuno da nessuna parte; ancora non sono neppure arrivati alla casa stregata». E insomma, dato che io sono Ambrose è certamente a me che si riferisce John Barth quando scrive che «gli occhi gli si velarono di lacrime», spiegandomi anche, per non mettermi in imbarazzo qualora io non sappia trovare altre parole, che «non ci sono abbastanza modi per dire questa cosa» (ma mentre sono a Yosemite e a Ocean City sono anche contemporaneamente a San Francisco e me ne ricordo perché il juke box del Caffè Trieste mi riporta qui, mandando ora una canzone familiare in senso letterale dato che riconosco subito le prime note di «Piove» che quasi tutto il mondo conosce come «Ciao ciao bambina» e che è stata scritta non già da mio zio Karl ma da mio zio Dino, il fratello maggiore di mia madre, e mi alzo per andare a vedere il numero della canzone e verificare chi la sta interpretando con questo accento italoamericano e scopro essere Jerry Vale, ma non faccio in tempo a domandarmi chi possa essere questo Jerry Vale che partono The Mamas and the Papas con «California Dreamin’» tanto per confermare ancora una volta dove mi trovo) ma proprio perché sono Ambrose ho bisogno ogni tanto di ricordarmi di quella scatola di sigari e del disegno sulla sua etichetta ma poi non è che abbia così tanto bisogno di ricordarlo perché è quel famoso ricordo che affiora da solo, e torna e ritorna, ed è il ricordo di me che leggo John Barth che scrive di Ambrose che ricorda di come guardando quella scatola di sigari comprende che ricorderà quel momento, il momento in cui a dodici anni scopre di essere innamorato, per tutta la vita («Questa è ciò che chiamano passione. Io la sto vivendo») e di Ambrose che in quel momento a tredici anni a Ocean City ricorda sé stesso a dodici anni e immagina quando avrà un figlio maschio e ai suoi tredici anni lo cingerà con «un braccio robusto intorno alle spalle» per dirgli che «è perfettamente normale. Ci siamo passati tutti. Non dura mica per sempre», al tempo stesso bambino e adulto, bambino in preda alle paure di un bambino e adulto consapevole che quella paura passerà. E io vorrei poter sapere che quello che doveva passare è passato e quello che deve ancora passare passerà, e in realtà lo so bene, mentre al tavolo mosaicato prende posto un duo chitarra e fisarmonica e inizia il suo concertino alle dieci in punto, con un tango che mi sembra di conoscere, ma forse solo perché tutti i tanghi ci sembra di conoscerli.

E quindi insomma se c’è una storia, mentre il duo qui accanto inizia «Arrivederci Roma», se c’è una storia dicevo, se c’è una storia è la storia di perché emozionarsi non tanto per una pagina di letteratura in sé ma per il racconto di quella pagina, e per il modo in cui è stato possibile raccontarla, ed emozionarsi è stato possibile perché quella pagina è stata ascoltata, come la lettura di Howl era stata ascoltata alla Gallery Six da Ferlinghetti che il giorno dopo ne aveva chiesto il manoscritto e poi quel manoscritto era stato editato e pubblicato e poi venduto e poi sequestrato e la censura non era intervenuta nel posto in cui il poema veniva letto (con Jack Kerouak che, raccontato in mille cronache, passava il boccione di vino e sottolineava con grida e battimano i picchi lirici di Ginsberg) ma quando veniva pubblicato, ed è quando viene pubblicato che prima circola di mano in mano arrivando nei decenni a vendere milioni di copie e a essere tradotto in decine di lingue e per vie processuali a cambiare la costituzione americana, e di tutto questo anche se, certo, mi emoziona sempre sentire starving hysterical naked e The typewriter is holy the poem is holy the voice is holy the hearers are holy, io sono appunto the hearer e l’ascoltatore diventa santo quanto la macchina da scrivere e la poesia stessa che quella macchina ha scritto e la voce che l’ha recitata e io sono santificato, o quanto meno beatificato dall’esserne lettore e testimone, dal fatto che esistano testimonianze prima della mia a cui la mia si unisce e si accoda e ok ma tutto questo cosa c’entra con John Barth e il regalo di Martina? In un modo che non mi è mai stato chiaro fino a ora o che ancora non mi è chiaro adesso mentre metto in fila queste parole ma che forse, forse, se sono fortunato mi sarà chiaro quando avrò finito questa frase, la poesia diventa holy quando qualcuno l’ascolta (o la legge, perché è stata pubblicata) allo stesso modo in cui Ambrose/John capisce a tredici anni perdendosi nella casa stregata (e così quasi vent’anni dopo capisco oggi il significato pieno di quel regalo e l’importanza di quella traduzione e per quale motivo in più quel racconto mi emoziona) che vuole costruire e non visitare case stregate: «Immagina una casa stregata davvero strabiliante, incredibilmente complessa ma completamente controllata da un grande pannello di comando centrale simile alla tastiera di un organo a canne. Nessuno ha mai avuto una tale immaginazione. Sarebbe in grado di progettarlo da solo, un posto del genere, impianto elettrico e tutto, e ha solo tredici anni. Sarebbe lui a manovrarla: le spie luminose sul pannello mostrerebbero cosa succede in ogni anfratto della sua ingannevole della sua multiforme vastità; lo scatto di un interruttore faciliterebbe il percorso a uno, lo complicherebbe a un altro, per bilanciare le cose; se qualcuno gli fosse sembrato spaventato o perso, il manovratore avrebbe dovuto semplicemente. Vorrebbe non essere mai entrato nella casa stregata. Ma ci è entrato. Vorrebbe essere morto. Ma è vivo. Perciò costruirà case stregate per gli altri, e sarà il loro manovratore segreto – anche se preferirebbe essere uno degli innamorati per cui le case stregate vengono costruite» e se immagino che Barth si riferisca al suo desiderio di fare lo scrittore invece di essere qualcuno per cui i libri sono stati scritti io addirittura faccio una capovolta in più rendendo triplo il suo doppio salto mortale, e penso di voler essere quello che i libri vuole pubblicarli, nemmeno scriverli, aggiungendo un ulteriore grado di separazione fra me e gli innamorati per cui le case stregate sono state costruite, e credo sia per questo in fin dei conti che ammiro di Barth la capacità di costruire case e di Ferlinghetti quella di gestire il luna park.

(Ed ecco che una storia c’è, finalmente, perché senza che fosse previsto, scrivendo luna park, tutto, come avevo sperato poche righe fa, mi si fa perfettamente chiaro, e succede solo ora dato che mai avevo pensato prima di questo momento al legame tra la Ocean City di Barth e la Coney Island di Ferlinghetti, due testi che ho sempre amato e che sono stato così sfacciatamente fortunato sfacciatamente holy da poter pubblicare in una sola vita, due ruote panoramiche di uno stesso parco giochi, quel duplice luna park che è la letteratura da una parte e il fare libri dall’altra, due facce dello stesso gettone. E ora salite signori, altro giro altra corsa.)

© Marco Cassini, 2019. Tutti i diritti riservati.

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